/
Автор: Camarrone D.
Теги: letteratura italiana letteratura storica
ISBN: 978-88-389-2151-3
Год: 2006
Текст
Lorenza è una squillo d’alto bordo. Vive a Roma come una specie di dandy al femminile. Ma viene spesso nella natia Palermo per incontrare qualcuno dei suoi riservati e selezionati clienti, e forse anche, svagata cultrice di colte malinconie, per riepilogare le tracce della sua infanzia borghese. Dietro l’ultimo messaggio, che la chiama di notte in piazza Rivoluzione, sotto la statua del Genio, trova il cadavere del prossimo appuntamento: un ricco avvocato, ben inserito. Un omicidio nel giro della cocaina: Lorenza sembra una testimone di routine. Invece qualcosa le precipita addosso, e un vortice di persecuzione l’avvolge: il magistrato dalle delicate frequentazioni, personaggi troppo accorti per non essere esperti istituzionali di complotti, e soprattutto un killer che le semina dietro cadaveri come se cacciasse i suoi cacciatori. E la fuga diventa di necessità un’inchiesta, perché la sola via di scampo resta la verità. L’aiuta l’unica persona che vuole crederle, il commissario Paternò. Enigmaticamente la pista principale sembra connessa all’eredità del nonno, un cofanetto, una collana preziosa dono di un soldato irlandese e un diario di prigionia: «Mi ha raccontato della sua terra, degli elfi, del pozzo di San Patrizio». Ma ogni cosa, ogni transitoria certezza nell’indagine, per la coppia che cerca, muta come nel principio di indeterminazione di Heisenberg: le particelle
cambiano il loro stato quando sono osservate, quasi non possedessero una realtà determinata. E a Lorenza e Paternò non rimane che tuffarsi nel passato. Davide Camarrone (Palermo, 1966) è giornalista della Rai a Palermo. È autore di alcuni saggi, testi letterari e teatrali. Ha scritto il soggetto e la sceneggiatura di «Ce ne ricorderemo di questo pianeta», un docudrama dedicato a Leonardo Sciascia. Con questa casa editrice ha pubblicato Lorenza e il commissario (2006), Questo è un uomo (2009) e I Maestri di Gibellina (2011), L’ultima indagine del Commissario (2013) e Lampaduza (2014).
La memoria 687
DELLO STESSO AUTORE esto è un uomo I Maestri di Gibellina L’ultima indagine del Commissario Lampaduza
Davide Camarrone Lorenza e il commissario Sellerio editore Palermo
2006 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo e-mail: info@sellerio.it www.sellerio.it Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. EAN 978-88-389-2151-3
Lorenza e il commissario
A Dionisio e Maria Teresa
Credo che di nulla, o quasi, valga la pena di parlare seriamente; il nostro secolo pensa tuo il contrario, ed ha le sue ragioni. STENDHAL, Passeggiate romane Per lui non esistevano eccezioni od aenuanti; mentre affermava: «il funzionario non può sbagliarsi… il magistrato non ha mai torto», sentenziava, all’opposto: «costoro sono irrimediabilmente perduti… ogni redenzione è impossibile». VICTOR HUGO, I miserabili
Capitolo I Tra i graffi e le nuvole del finestrino, l’occhio acceso indovina il mare petrolio e spuma dei Raìs e delle tonnare, l’autostrada coi suoi festoni luminosi, Montagnalonga scura e minacciosa, le pupille di drago rosse in cima, fiammeggianti, fra i calar di palpebre. Ci avviciniamo alla pista laterale e un gioco di venti ci schianta verso il basso, precipitandoci di cento metri in un solo crudelissimo istante: windshear, lo chiamano, ed è una rasoiata che toglie il respiro e fa mormorare «minchia» alla mia vicina. – Ha ragione – le sussurro, risvegliandomi del tuo; lei imporporisce, vergognosa. Scendo per le scale dell’aeroplano che sono quasi le dieci di sera, e l’aurea scivola tra bavero e foulard: una carezza umida, salata, come il mare che la porta; sento l’estate sulla lingua, e ha la frescura e il sapore acidulo di Pantelleria quando il sole s’allontana, o forse ho solo voglia di andare in vacanza, in Paradiso, pure se siamo ad oobre. Uno spaesamento di una specie che conosco bene: vivo tra un aereo e un altro, e un volo manipola umore e sensazioni, privandoli del tempo e dello spazio. Tiro fuori il cellulare dalla borsa e sorrido alla donna che incrocia i miei occhi, per un istante, sul pullman che ci sta trasportando agli Arrivi. Basta una lieve pressione del pollice, ed appare la faccina di Winnie the Pooh. Digitare il codice, prego, chiede il microchip. Eseguo: 29670, la mia data di nascita più uno zero che sta per zero inventiva. Il cervelleo di silicio risponde con una clessidra e un lentissimo ok. Rimeo il cellulare in borsa, e nell’aimo in cui sollevo la testa, mi accorgo che quella donna mi guarda ancora. Io ricambio, senza esagerare. Ecco le luci del Terminal, adesso il viaggio è davvero finito. Sono tornata a Palermo, per la seconda volta in un mese. Trillo. Un messaggio. Trillo. Due messaggi. Guardo sul visore del cellulare e mi tiro fuori dalla coda, che si dibae come un tentacolo fra le pareti del lungo corridoio. – La sua segreteria contiene dei nuovi messaggi vocali – dice il primo.
Il secondo è un SMS, «Benvenuta»: il numero appartiene a Francesco, e sua è la voce del messaggio registrato, lasciato alle 21.48, due minuti fa. Cambio di programma. Appuntamento alle undici meno un quarto, al Genio. Non vedo l’ora. Se hai problemi, chiama. Sbrigativo, ma gentile. Al Genio: vale a dire alla fontana del Genio in piazza Rivoluzione, al centro dell’antico mercato popolare della Vucciria, a trecento metri da casa sua. Rientro in coda, per riprendere la valigia. La misura era quella giusta, ma il peso no. A Fiumicino mi hanno deo che dovevo imbarcarla nella stiva, se proprio volevo partire. Il nastro di restituzione è ancora immobile, e sullo schermo digitale il mio aerraggio non è indicato. Saremmo ancora per aria, secondo l’anonimo operatore: l’ultimo landed segnato in rosso risale alle 21.15. Avverto un tocco, una mano che mi sfiora, giusto all’altezza del fianco. Mi giro d’istinto, e vedo un giubboo di pelle nera e dei capelli biondo menopausa che s’allontanano e infilano l’uscita. La donna è aaccata per l’orecchio ad un telefonino; nemmeno se ne accorge, di quell’uomo che le va addosso e le fa cadere il bagaglio a mano, tra la folla: è lui stesso a raccoglierlo e a restituirlo, scusandosi a lungo. C’è poca gente, poche cravae, giusto un paio, qualche giacca in lite scomposta con camicia e pantaloni, delle coppie d’anziani, una decina di ragazzi: uno di loro, più anelli e nickel piercing che brufoli, ripete al cellulare che è arrivato, rassicurante, e dice che torna, torna, torna. Il bar è oltre la porta scorrevole. Se vado, non potrò tornare indietro. Niente bagagli, ancora, e il mio stomaco si fa in pezzi. Sto appoggiata ad un pilastro, e dalla borsa tiro fuori la busta coi giornali e il libro poliziesco di un’americana di buone maniere e ricercate edizioni. Provo a leggerlo ma non ce la faccio, in piedi, come una cavalla; seggo su un nastro deserto, e al libro do una scorsa lunga trenta righe. Basta così. Preferisco i miei supereroi in edizione economica: Kay Scarpea, Lincoln Rhyme, Hyeronymus Bosch; medici, detective, più abili nella dissezione della realtà di certi filosofi o economisti da copertina.
Due tizi in grigio, basco verde e mostrine gialle, portano a spasso un pastore tedesco. ello fiuta subito i ragazzini, ma i finanzieri li avevano già sgamati e tirano via il cane, che ostinato punta le zampe. Se le leggi o le circolari prefeizie inclinano eccessivamente da una parte, le divise prendono con discrezione l’altra strada, e viceversa. Pesi e contrappesi, o forse sarà merito di un nuovo gene, quello del libero arbitrio: dev’esserci un nesso tra DNA e psicologia, un’effeiva reciproca influenza. Bestseller Naomi scrive in prima pagina di nuove contraddizioni: produzione seriale in nero nell’Estremo Oriente, marketing creativo in Occidente. Marx e plusvalore, insomma. Chiudo il giornale, a pagina 47, sulla cronaca di Milano, con molta calma. Tanto, devo perder tempo. Sono le undici passate, telefono ma Francesco non risponde. Stasera non se ne fa niente. Una scossa e quasi perdo l’equilibrio. Mi alzo di scao. S’è messo in moto il nastro sul quale sto seduta, non quello illuminato a festa e posto soo assedio, e la folla si volta verso di me come se l’avessi presa in giro; si precipita ai bordi del serpentone e quello, per beffarla, si blocca. Un minuto interminabile, di apnee e istinti distruivi sparsi, e riprende: dalla tendina giallastra, sporca e tagliuzzata, vengono fuori le valigie, le borse, gli zaini e un paio di cartoni sigillati con cura; forma strana, ricorda quella di due contrabbassi senza curve: chi sa cosa contengono. Eccolo, il mio trolley. Mi allungo e afferro la maniglia. Pesante davvero. Tuo in ordine, le scalfiure sono vecchie e le rotelle ci sono tue. Guardo il grande orologio sul teo, segna le 23.45. Cinquanta minuti di volo, due ore d’aesa per i bagagli. Le porte automatiche s’aprono con un sibilo sul parcheggio taxi. Mi tocca una Fiat Multipla. Macchina fantastica, purissimo stile Disney. Se mai comprerò una macchina, sarà quella. Ma che me ne faccio, io, di una macchina? – La valigia la meiamo dietro. Me la dia, signora: ci penso io. Dove andiamo? – In corso Viorio Emanuele, per favore. Salgo su e abbandono la testa sullo schienale. Guardo a sinistra, mentre la velocità aumenta nel buio. C’è il mare, a duecento metri: Carini, Capaci, Isola delle Femmine, la Baia del Corallo. Per andare al mare, i ragazzini entravano da un buco nella rete metallica, ultimo ostacolo dopo un sentiero da trekking. Gli impianti, la terrazza, il bar, erano gestiti dal Cus
Palermo, il Centro universitario sportivo. Marcello ed io entravamo dalla porta; lui giocava nella squadra di pallanuoto; spalle possenti, mani forti e delicate, da chirurgo. Dopo Marcello, sono entrata anch’io dal buco. Telefono ancora. 3-3-5-7-4-2-3… e squilla. Non risponde, squilla ancora, va fino in fondo, fino all’ultimo rintocco eleronico, fino a cancellare il numero sul visore. Riprovo. – Chi parla? – Il tono non è quello di chi dice salve. – Chi parla? – rispondo. – Guardi che ha chiamato lei. Chi cerca? – Sono un’amica dell’avvocato Oliveri. Può passarmelo? – Ora sono decisamente incazzata. – Signora, sono il commissario Paternò, della Polizia. Giuliano Paternò. Ho trovato questo telefonino, per terra. Ora può dirmi per favore con chi sto parlando? – La sua voce è convincente, e per di più sento un casino intorno a lui: sirene, urla, scambi secchi d’ordini; niente da ridere. – Mi chiamo Lorenza Serianni. Che cosa è successo a Francesco? – La mia intuizione è nera come il cielo di questa noe. – Non sappiamo ancora, signora –. Frena, slia… – Siete in troppi per non saperlo. Cosa è successo a Francesco? – Francesco ha avuto un incidente… – Come sta? Può farmi parlare con lui, per favore? – Non posso. È morto, signora. Mi dispiace. – Morto? – Non conoscevo neanche il suo nome. Niente documenti, niente di niente. Aveva solo questo cellulare in tasca. – Che sta dicendo? Morto? Che incidente? – Non è stato proprio un incidente. Gli hanno sparato. – Sparato? Il tassista un poco si preoccupa: s’era limitato ad osservarmi nello specchieo retrovisore; ora si volta, in piena circonvallazione, novanta all’ora, e mi scruta interrogativo, sul punto di dire: «ma che è successo?». – Oliveri come, signora? Come si chiamava? Me lo può descrivere? – Francesco. È un avvocato. Ha quarantacinque anni, credo. Sembra un ragazzo, però: ha i capelli neri, è magro e alto un metro e oanta. – Sembra lui, mi spiace. Eravate parenti? – Sono solo una sua amica. Dove si trova?
– A piazza Rivoluzione, alla Vucciria, a Palermo. – Vengo lì, subito –. E nel dirlo, mi maledico. – Non mi muovo. – Faccia in frea, per favore – dico al tassista, – in corso Viorio Emanuele e poi in piazza Rivoluzione. Non mi chieda niente. Non so niente. L’uomo lascia la sua testa piegata a 45 gradi sulla destra e neanche mi risponde. Non mi degna di un monosillabo, una scatarrata, uno schiocco sul palato, un raglio. Voleva solo sapere chi. Chi è morto? esto significava la sua faccia. Se io mantengo la calma, però, non c’è da preoccuparsi. Era uno qualunque, l’avvocato Oliveri. Uno che è morto. Apro il finestrino, per un riflesso, anche se fa freddo. Ci meiamo nove minuti, dal viale Lazio al corso Viorio Emanuele. Guida senza frea, l’uomo, ma c’è una magia che mee nei pedali: qualcosa che ci fa andare lisci agli incroci, a velocità costante, come una barca a fondo piao su un canale, o una chiaa su un lago. Lascio la mia valigia al portiere dell’Albergo Centro, lungo la strada. Meravigliosa terrazza sui tei gialloocra del centro storico, esaamente di fronte allo studio di Francesco: non me n’ero mai accorta, in omaggio alla teoria che nulla è più invisibile di quel che ci sta soo il naso. Risalgo in auto e ne riscendo nuovamente trecento metri dopo. Pago seanta euro e quello neanche mi saluta. Resto frastornata, a guardare la macchina di Topolino, quella barca obesa e il marinaio che conta i suoi fiorini, li mee al sicuro, spegne la lampadina sullo specchieo e riparte. Siamo a Palermo, e qui se ne ammazzava di gente. Il marinaio se ne strafrega di quelle tre auto della polizia con i lampeggiatori bleu sul teo, che girano girano girano… Se ci fosse la musica, saremmo alle giostre – venghino, siore e siori, venghino, guardino la dona barbuta e l’uomo che fino a poco fa era vivo ed ora è un ciocco di legno geato sull’asfalto –, e difai c’è un gran pubblico, sul marciapiede. L’ingresso alla Vucciria è sbarrato. Faccio il nome del commissario Paternò e oltrepasso il check point. Un polizioo mi accompagna. La piazza è illuminata a giorno, fotoeleriche disposte in circolo come in un teatro di posa. Il regista è uno sui quaranta, fisico asciuo da scarpee e via di corsa tre o quaro volte la seimana, capelli ricci non troppo corti, di un biondo che tende al rossiccio, baffi soilissimi e curati in stile Bel
Ami, e veste in borghese. Il polizioo va drio da lui, fa il saluto militare e gl’indica me, mi punta con la sinistra: io che sono sola lì, a mezzanoe già marcita, con un vestito di seta nera e grandi fiori colorati, il soprabito e il foulard leggeri, in tinta, aenta a non lasciarmi travolgere da una mandria impazzita di divise bleu e fotografi e giornalisti e cameramen, a due metri da un lenzuolo steso per terra e macchiato di sangue, poco sangue, giusto un fiorellino scarlao; alla pietà del sudario, sfuggono degli scarponcini di camoscio marron. Abbasso lo sguardo e vedo che ho ancora la borsa e la busta dei giornali con me, e in quel momento rinsavisco. Che c’entro io con tuo questo? Sono una poule, una puana, roba per pochi, costosa, va bene, ma pur sempre una pulla; e quello soo il lenzuolo è, anzi era, un cliente, uno dei miei dodici clienti. Non uno di più, non uno di meno, finora. – Sono il commissario Giuliano Paternò, della Sezione Omicidi, e proprio non posso dire che sia un piacere conoscerla, in questo momento –. Mi stringe la mano con un mezzo sorriso, però, raccogliendola garbatamente e sollevandola un poco, e in un istante mi vedo con lui nel bianco e nero di un romanzo di Brancati, per le strade di Catania. – Lorenza Serianni. – Lei era una sua amica, mi ha deo al telefono. Conosceva bene l’avvocato Oliveri? – Sì, insomma, da un anno – mento. – Amici? – Amici. – Gli hanno sparato un solo colpo di pistola. Non ha documenti, portafogli, orologio. Solo il mazzo di chiavi di un’auto. Una rapina, sembra: è stato colpito al capo, il viso è intao. Non possiamo avvicinarci finché è al lavoro la Scientifica, con il medico legale. Lo abbiamo ripreso con la telecamera, però. Posso chiederle di guardarlo, di identificarlo? Se la sente? – Sì… Mi aveva chiamato questa sera. Avremmo dovuto vederci, domani. – Lo so che non è piacevole, ma fino a questo momento ci siamo limitati ai rilievi. Il riconoscimento ci serve. Il commissario fa segno ad un polizioo con la telecamera d’interrompere quel che sta facendo e di raggiungerci. Si fa consegnare la
microscopica Sony e riavvolge il nastro; non appena arriva al punto, ferma l’immagine e mi dice di guardare quell’uomo vestito di una camicia che era bianca, dentro il piccolo schermo a cristalli liquidi. – Lo riconosce? – Sì, è lui, è Francesco. – Mi spiace, e mi scuso ancora. Di Blasi, per favore, avvicinati. Devi dire a Imburgia che il morto è proprio l’avvocato Oliveri; è stato identificato; e che può chiamare i famigliari. Delicato, mi raccomando. Ci vediamo tra dieci minuti alla Mobile –. Parla e mi tiene per un braccio: come se potessi allontanarmi, scappare… Lo fa con delicatezza, non è una presa, la sua: è la strea di un bambino che non vuol rimanere solo; o forse, non vuol lasciarmi, mentre guardo, e piango senza lacrime. – Signora, devo chiederle un’altra cortesia: se può venire con noi, fino alla Squadra Mobile. Un aimo, una mezz’orea, poi la riaccompagniamo a casa. Lei è l’ultima persona che l’avvocato Oliveri ha chiamato, stasera, almeno con questo cellulare, forse l’ultima con cui ha parlato. Vorrei dirgli «Io non ho parlato con lui. Mi ha solo lasciato un messaggio», ma non posso. Dovrei aggiungere che avremmo dovuto vederci questa sera, noi due, e non domaina: ore ventidue e quarantacinque, in piazza Rivoluzione, in culo al mondo e, lui capirebbe, non per discutere di affari; con la trascurabilissima variabile, rispeo alle consuete faccende di corna, che Francesco era felicemente sposato e io non ero per niente la sua amante. Due telefonate al mese. Due incontri. A Palermo, a Roma, a Milano. Dove ci capitava. – Va bene – dico allora. – Di Blasi, dì al doore che quando finisce mi chiama al cellulare: stasera, dico, non domani. E voglio che il giro delle case qui intorno continui, non me ne frega niente se è tardi. Niente gentilezze. Voglio sapere se qualcuno dei nostri trova il silenzio. Il silenzio, hai capito? Il silenzio stampato sulla faccia di uno che ha visto e non parla! La fotografia è sempre quella. Uno ne serve, e uno ne dobbiamo trovare. Poi me la sbrigo io. Stanoe non si dorme, Di Blasi, mi raccomando. – Va bene, doore. Mi ci meo pure io a cercarlo, il silenzio. E stia tranquillo che lo troviamo, se c’è. – Signora, se vuole, possiamo andare. Prendiamo la mia macchina.
Torniamo in corso Viorio, e in quel momento, mi rendo conto che il commissario, se corre, lo fa con una gamba quasi a rimorchio: forse per una poliomielite infantile, o forse no. La gente ci guarda sorridendo, e pare scambiarsi delle brillanti intuizioni. Fine delle giostre. Ora siamo alla vigilia del Festival di Sanremo, sulla passerella che porta al Teatro Ariston: fendiamo la folla, due ali di microfoni e taccuini, e mani alzate a richiamare l’aenzione, per araversare la strada. Paternò spalanca lo sportello di una berlina giapponese carta da zucchero, appesa per due ruote al marciapiede, e si mee alla guida. Se non fosse per la radio, piccolissima, con un microfono, piccolissimo, sarebbe una berlina qualsiasi di un qualsiasi individuo grado medio, reddito medio, gusto medio. Non è neanche sporca. Paternò fa un’inversione ad U senza sgommare, guida morbido come il tassista. Siamo alla Caedrale quando svolta per una viuzza sulla sinistra; ancora a sinistra, a destra, curva impossibile fra tre edifici collegati in alto da antichi archi e ponticelli e arriviamo alla Mobile. Mi aspeavo di trovare tuo il palazzo in aività e invece niente: giusto il piantone che esce dal coma e abbandona il gabbioo rianimatorio per accendere le luci e precederci di corsa, come un valleo d’altri tempi. – Imburgia, ma che fai, stai arrivando? – Paternò sale le scale col cellulare incastrato nel padiglione auricolare. Pausa e rimpallo. – Tra quanto? –… – Hai parlato con la famiglia? –… – Vengono? Niente, niente, fa lo stesso. Altro? –… – Allora sbrigati, Salvo, che ti sto aspeando. Sì, ciao ciao ciaciaciaciaciacia… Così, con quindici ciao in convoglio e il telefono locomotiva che piano s’allontana, e mi pare di vedere lo sbuffo, mentre lui fa su e giù con la testa; e a me si rivolge con un residuo di quel medesimo movimento, che al suo braccio fa accennare una riverenza. – Signora, prego, s’accomodi. Le mando a prendere qualcosa? Un poco d’acqua?
– E un caè, se è possibile. – Naturale, c’è la macchinea. Tieni i soldi, Molinari. Una boigliea d’acqua e tre caè. Uno te lo prendi tu e due li porti a noi. Grazie, Molinari. – Dovere, doore. Dovere. – Signora, ripeto, capisco che è difficile, ma ho bisogno di qualche informazione. Vorrei che mi parlasse di lui. Oliveri era un avvocato civilista. Se fosse stato un penalista, l’avrei conosciuto, e sarebbe stato più facile. el poco che so, me lo ha raccontato un magistrato, dopo la sua chiamata, in aesa che lei arrivasse sul luogo, per il riconoscimento. – Non era una rapina? – Rapine ne ho viste, e questa morte non sa di rapina. Neanche un poco. Mi dispiace. – Era una persona intelligente, Francesco, brillante, capace di far subito amicizia e tessere rapporti, relazioni. Del suo lavoro so poco, in verità: penso gli rendesse bene; quando ci vedevamo, ne parlavamo raramente. Io non sto più a Palermo da anni. – Dove vive, lei? – A Roma, ma viaggio molto. Mi occupo di arredamento. – Era benestante, Oliveri? – Era un avvocato, un amministrativista molto richiesto, anche fuori della cià: guadagnava molto, tra difese, consulenze, incarichi. È tuo quel che so, quel che mi ha raccontato. – Che cosa le ha deo al telefono, questa sera? – Mi ha chiesto di vederci. Sapeva che stavo per arrivare a Palermo. Pensavo che ci saremmo visti domani, a colazione. Mi ha anche inviato un SMS. Gli porgo il cellulare. Lui legge. «Benvenuta». La porta si apre ed entra Molinari coi caè. Alle sue spalle, un ragazzo, dagli occhi azzurri, timidi, e il pizzeo castano d’ordinanza. Non avrà trent’anni. Si presenta, impacciato: – Imburgia, piacere. – Doore, abbiamo trovato la pistola: un giocaolo modificato, di piccolissimo calibro, difficile da maneggiare, con un silenziatore artigianale. Una cosa faa in casa. Matranga mi dice che ci sono non più di
quaro persone che a Palermo fanno questi lavorei. aro persone che, se lei lo ordina, facciamo subito smeere di dormire. – Bravo Salvo, spirito d’iniziativa ci vuole, ma non esageriamo. Manda la pistola a quel che resta della Scientifica, e non direamente a Matranga: dobbiamo passare dal capo, da Alamia. E non c’è bisogno di svegliare nessuno. Domani, dopodomani, con calma, ai nostri amici mandiamo qualcuno con un pacco di soldi in mano, per un’ordinazione, ma non voglio che la notizia del ritrovamento dell’arma esca da questa stanza. Lo capisci? Sennò, t’impicco al lampadario. – Nessuno nessuno? – Ma che, parlo arabo? Nessuno. E ora fammi finire con la signora Serianni. – Doore, scusi, ma devo ancora dirle un po’ di cose: la moglie dell’avvocato Oliveri, la vedova, oramai, non è in casa; ci sono andato e ho parlato con i domestici, una coppia di mauriziani: in regola con i permessi, già verificato. La signora è partita con i due figli: è in vacanza in Egio, in un villaggio turistico sul Mar Rosso. Ho sentito la segretaria dell’avvocato: sarà qui domaina, era tornata a casa per il fine seimana sulle Madonie, a Petralia Soprana. E mi hanno deo che la madre dell’avvocato ha oantacinque anni e non sta tanto bene. Non mi è sembrato il caso di svegliarla, in piena noe, per darle la caiva notizia. Aspeo le sue disposizioni. Dimenticavo: il medico legale dice che prima di domaina non le può dire niente. Un niente che non ho capito. – E che vuol dire, questo niente? – Non lo so: diceva niente come se al contrario volesse dirle qualche cosa. Alle nove, all’Istituto, si fa l’autopsia, su disposizione del pubblico ministero. – Chi era di turno? – Non lo so. Il Procuratore ha mandato qui il suo aggiunto, Cesare Bevacqua. – Meglio così. Hai parlato con Di Blasi? – Due minuti fa. – E la gente di piazza Rivoluzione l’abbiamo sentita? – Una parte, e gli altri sono stati identificati, tui quanti. Solo in tre case non ha risposto nessuno. La faccia del silenzio, però, non l’abbiamo
trovata, secondo me. Chi lo sa? Magari succede tra un minuto. Fino a domani maina c’è tempo… – Ho capito. Ho capito. Vuol dire che possiamo andare a dormire. Tanto, stanoe… Ci vediamo alle oo in punto. Domani maina comunichiamo la notizia ai famigliari, e casomai ci facciamo un altro giro per le case della piazza: perché il silenzio lo troviamo, Imburgia, ti giuro che lo troviamo. Buonanoe. E ricordati del lampadario! Ti ci appendo se dici una parola sulla pistola. Ti salutai. – Buonanoe, doore. – Signora, posso accompagnarla io –. Non è una domanda, la sua. – Sto a due passi, all’Albergo Centro. I miei si sono trasferiti a Perugia, e qui non ho nessuno – dico, e forse faccio male a prevenire le sue curiosità. Sulla strada, mi chiede se ho mangiato. – Io sto morendo di fame. E lei, magari, venendo da Roma, non ha avuto manco il tempo di un’aranciata. Posso offrirle qualcosa di dolce, e un caè, qui dai turchi. Non c’è altro, a quest’ora. – Li chiamava così, mia nonna, i turchi: tui quelli che avevano la pelle scura, erano turchi. – Forse lei non lo sa: da un po’ di anni, a Palermo, vivono più di sessanta etnie differenti, e in pace, come al tempo di Federico II! esti qua, sono proprio turchi, pasticcieri straordinari. Che facciamo? Andiamo? Rispondo di sì, giusto perché ho fame; e poi non credo sia un tentativo di fare amicizia. Non gli basterebbe uno stipendio per pagarmi la serata. Mangiamo rapidamente, in piedi, e io sto in silenzio. el che è successo mi ha sconvolto, e non riesco ancora a capire quanto. Paternò è cortese, ha smesso di chiedermi di Francesco, o di parlarne, ma il mio dubbio è il suo: ammazzato e lasciato per terra, senza un giaccone per ripararsi dal freddo; e con il giaccone, il cappoo o quel che era, è sparito il portafogli. Una rapina: ma per una rapina, da quando ci si arma con una pistola su misura e un silenziatore artigianale? Le porte dell’albergo sono chiuse, e non riesco a trovare il citofono, o un pulsante; li cerca anche il commissario: non ci sono, e me ne accorgo quando mi fermo rassegnata sullo zerbino-graugia del portoncino minore: dev’esserci un sensore, perché la hall s’illumina, e dal bancone sguscia fuori il portiere. – Prego, signora. Le sue valigie sono già su, alla 316. Buonanoe.
– Niente sveglia, buonanoe anche a lei. Paternò è ancora lì. – Grazie di tuo, commissario. – Buonanoe. In camera, prendo dell’acqua dal frigorifero e chiamo le prenotazioni Alitalia. Dormo e riparto con calma, penso: domani pomeriggio. Ore quindici zero zero, dice l’impiegata. Mi svesto del soprabito; tra le dita mi resta un foglieo accartocciato. Non è roba mia: c’è scrio un nome, Adèle, con il numero di un cellulare. La donna sorridente in aeroporto, fasciata di pelle e dipinta di biondo, cinquanta ben portati. Scommeo che abita in una villa di Mondello, troppo grande per una coppia congelata, e gioca a tennis con il suo trainer personale. Strane, le cose. Muore Francesco e non appena il suo posto, il dodicesimo, torna libero – anzi, un aimo prima che accada – si fa avanti un candidato. Ripiego il foglieo e lo meo nel portafogli. Poi mi ripiego anch’io, e m’infilo a leo.
Capitolo II Mi sveglio alle see; ho dormito poco, meno di tre ore, e sarebbe stato meglio non dormire per niente. el che ho visto in sogno era peggio del cadavere in piazza Rivoluzione: Francesco assalito da una banda di gnomi sanguinari, di nanerooli verdi, e uno di loro che gli spara, e ride, ride, ride; Francesco ha il viso stravolto dalla paura, ma non scappa: pare impietrito, una statua di sale; Francesco si è trasformato in quella statua ridicola, il Genio, con la corona e l’acqua intorno. Inserisco lo spinoo del caricabaerie nel cellulare e mi concedo una doccia bollente. Chiudo gli occhi, soo il geo d’acqua che mi scortica, come in una cabina di decontaminazione. ando ne ho abbastanza, faccio scorrer via la tendina bianca lucida e mi fascio nell’accappatoio. La sala da bagno è immersa nella nebbia dell’Oceano all’alba. Sento uno squillo, ed è il fischio di una baleniera in lontananza. Arrivo alla maniglia lentamente e con le mani in avanti, che sarchiano alla cieca, ma è troppo tardi. Il cellulare ha smesso di squillare. Vediamo. Menurubrica-ultime chiamate-senza risposta. È il numero di Alberto. No, non è il momento, non è il momento. Paternò mi ha lasciato il suo numero. Lo chiamo. – Pronto? – Sono Lorenza Serianni, commissario, buongiorno. – Ah, ecco, infai, il suo numero mi era famigliare. Buongiorno. – Volevo solo chiederle se ha ancora bisogno di me. Vorrei partire nel pomeriggio. – Nessun problema. Solo, se potesse passare di qua, tra un paio d’ore, per sooscrivere la paginea con la nostra conversazione di ieri. L’ho riassunta, a memoria. – Non ci siamo dei molto. – Può sempre correggere il verbale. – Il tempo di far colazione e arrivo.
Vado su, nella terrazza coperta. In corridoio, prendo dalla servante una copia del «Gazzeino». alche anno fa, nemmeno l’avrei sfiorato; ora è parte del mio quotidiano ideale, composto di tre o quaro giornali, o di nessuno. Siedo ad un tavolo proprio accanto alla gran vetrata. Il cameriere mi fa un segno che vuol dire «posso?», e io rispondo che sì, può, ci mancherebbe. Neanche una parola: la conversazione si serve solo di una coreografia di smorfie, sopracciglia mobili, mani che spennellano e spalle in su da Jacques Tati; sono io che a volte, per pura distrazione, l’appesantisco inutilmente; basterebbero gli occhi, ma sono fuori allenamento. Arriva subito quel che desidero: bollente, così dev’essere, lava incandescente, succo di Vulcano; per il mio beverone, servono due terzi d’acqua e uno di lae, due cucchiaini di zucchero di canna e due di caè solubile, sempre così. – Dooressa, il suo caè. Americano. Ma è davvero americano? Sa che io l’ho messo nel menu – cappuccino americano – e se lo prendono magari i tedeschi, che qui assai ne vengono, con le loro carni bianche bianche, di pollo. alcuno vuole la birra. i, però, non è che siamo alla Taverna Azzurra, dico io. Lo gradisce un corneo vuoto, con una spruzzatina di scaccio di mandorle e pistacchi sopra? Glielo porto? – tuo di un fiato, il muto miracolato. – Sì, Mario. Mi faresti anche una cortesia? – provo ad arginarlo. – Anche due, dooressa. – Vorrei il «Corriere dell’Isola», ma in corridoio non c’era. – Sarà finito, dooressa. Con tuo questo passìo, che vuole. Le prendo il mio, se permee, un aimo solo. – Grazie. – Io l’ho leo, dooressa – e pare che alluda. L’articolo che gli sciolse la lingua è in prima pagina: taglio basso, quello lasciato libero per l’ultimora. UCCISO AVVOCATO A PALERMO Palermo – È un autentico rompicapo per gli investigatori l’assassinio, avvenuto ieri sera, in piazza Rivoluzione, di un giovane e stimato avvocato, Francesco Oliveri, di 44 anni, che lascia la moglie e due figlie. L’uomo è stato ritrovato, in seguito alla segnalazione di un anonimo, pochi minuti dopo l’agguato, alle 22.45, privo di vita, a pochi metri dalla Fontana del Genio. Secondo una
prima ricostruzione, sarebbe stato colpito alla testa. Ancora sconosciuta l’arma del delio. Il procuratore aggiunto, Cesare Bevacqua, incaricato delle indagini, ha immediatamente disposto l’autopsia, che si terrà questa maina presso l’Ospedale Civico. Pare che all’omicidio non abbia assistito alcun testimone. Nessuna pista è privilegiata, pure se non si esclude che possa essersi traato di una rapina poi degenerata in omicidio, forse in seguito ad un tentativo di resistenza da parte della viima, trovata priva del portafogli. Ieri sera faceva freddo, ma Oliveri indossava solo una camicia. Non è stato ritrovato alcun soprabito, probabilmente trafugato insieme al portafogli. Il riconoscimento del cadavere è stato effeuato da un’amica in vacanza a Palermo, Lorenza Serianni, ospite di un albergo poco lontano. Sulla vicenda, indaga la Sezione Omicidi della Squadra Mobile, direa dal commissario Giuliano Paternò. Niente di niente, insomma: interrogativi minuscoli; i miei, invece, sono alti come montagne. Cammino lungo il Cassaro, il corso Viorio Emanuele. Lentamente, un passo dopo l’altro. Ogni portone è una storia, riscria cento volte, dagli elefanti delle truppe fenicie di Asdrubale alle jeep americane di King Charles Polei, in parata dopo la fuga dei nazisti. Mi godo il puzzo antico – pure se ammorbato dal nuovo – memoria dei secoli maleodoranti, del fango che vellutava le balate, nel quale cani e cavalli cacavano per rispeo alla corsa silenziosa delle carrozze e al giusto riposo dei signori. I miei occhi accarezzano certi negozi che paiono bordelli, gli ultimi che ricordi tollerati a Palermo, catoi svelati alla curiosità dei passanti dalle tende annodate, dalle luci smorzate e dalle vecchie tenutarie all’ingresso. Nella mia piazza Bologni (qui abitai, dopo Mondello), la statua di Carlo V continua ad indicare al popolo canaglia le vastità dell’Impero, lasciando la mano destra paterna sul mondo; ai suoi piedi, un cassoneo non ce la fa a traenere la munnizza: cibo putrescente, una sedia sfondata e delle vecchie riviste gonfie d’umido, grigio e giallo verde muffa: leeratura in purezza. Mi fermo solo davanti alle vetrine in ombra di una libreria dell’usato, ai margini dell’acquitrinoso triangolo universitario. Monumento nazionale, dovrebbero dichiararla, e con targa: i i ragazzini tentarono di sfuggire alla diatura dei Baroni. Il manifesto che accese la rivolta riportava in alto una silhouee del fondatore, e in rosso e nero annunciava la vendita e l’acquisto di libri usati, a poche lire. Fu una disfaa, per i Baroni, che intascavano le percentuali sui manuali e le parti speciali a loro firma, in corpo 18 e interlinea doppia (in seguito, i
più spregiudicati scrissero i nomi dei ragazzini sulla prima pagina, per sbarrarli agli esami e render così inutilizzabili le copie). Una noe, anni fa, ritrovarono il corpo del libraio, sparato, accanto alla sua Mercedes, con lo sportello destro aperto. Le indagini finirono in un buco nero, finché non presero due ragazzini, per il mea culpa di uno, di famiglia agiata (fu smentito, e nuovamente l’inchiesta collassò). Non vi fu alcuna pietà, né del vivo né del morto, e non c’è da stupirsene, per il doversi vivere, quell’omicidio, come una sorta di parricidio, per una generazione. Sull’espositore, hanno sistemato una parte delle memorie del Marchese di Villabianca, pressoché introvabili. Detesto solo al presente la mia cià d’origine, e un poco anche al futuro; il suo passato mi dispiace meno, e ne compro tre volumi. Lapide sulla destra. BCRS. Biblioteca Centrale della Regione Siciliana. È rimasta chiusa per anni, e chi sa se il restauro l’ha cambiata; studiavamo sui banchi graffiti di promesse e insulti e alla luce verde di lampade anteguerra, mancando le sale di leura in Facoltà. Leonardo Sciascia, che qui era di casa, si districava nell’arcaico sistema di classificazione e dalla polvere degli scaffali tirò fuori delle vecchie storie di comploi, sentenze e superstizioni. Tempo fa, al banco della BCRS, un ragazzo ha chiesto in prestito il secondo libro della Poetica di Aristotele. L’impiegato, per il quale il Nome della rosa era un titolo fra i tanti o la lapide di un libro leo e sepolto, ha controllato inutilmente: il secondo libro non esiste (avrebbe traato della Commedia – scrisse Umberto Eco, nel suo romanzo –, dell’ironia, del riso: roba del demonio!). Il ragazzo, fuori di sé, ha minacciato l’impiegato con un coltello; davanti al polizioo, stessa scena: l’hanno arrestato. Passo dinanzi alla Caedrale e siamo a piazza della Vioria. Palazzeo della Mobile. Se ne raccontano di storie, anche qui. Uomini e No. Omissis per un secolo almeno. – Dovrei andare dal commissario Paternò, Omicidi. Ecco un documento. Scale, e ancora scale, scalee, in tue le direzioni. Sembra un altro palazzo. Stanoe credevo di trovarmi in uno sceneggiato televisivo in bianco e nero, d’ambientazione primi Novecento: Petrosino, Il Commissario Maigret. Oggi mi sento in un film anni Seanta con Maurizio Merli, del genere Il bandito spara, la polizia s’incazza.
Ecco Paternò. – Signora Serianni, mi perdona solo un aimo? Venga, s’accomodi nella mia stanza. Io finisco una cosa e arrivo subito. Subito significa un’ora e un quarto. Nel fraempo, sfoglio il «Gazzeino» e la rivista del sindacato di Polizia trovati sulla scrivania, il Codice di Procedura Penale aggiornato al 1999 edizione tascabile poggiato sulla televisione, il Calendario della Polizia 2004, rivedo la mia agenda, su quel che farò appena tornata a Roma, e prendo degli appunti, sull’omicidio di Francesco. – Mi deve perdonare. Ho perso più tempo di quel che immaginassi. – È finita l’autopsia? – chiedo, e nel volgere di un milionesimo di secondo, mi dico: ma che cosa sto chiedendo? Io che c’entro? – Sì, ecco, appunto: è quello il problema. – In che senso, un problema? – Oliveri aveva in corpo un bel po’ di cocaina. – Francesco non era un drogato… Voglio dire: me ne sarei accorta! – Ci sono persone che non si possono tecnicamente definire tossicodipendenti, e che ogni tanto si lasciano prendere la mano, magari solo per provare: professionisti che rubano le pasticche di ecstasy dal materasso dei figli, e figli che prendono la cocaina dalla scrivania di papà: alla fine, si ritrovano tui insieme in ospedale. Mi creda, succedono cose che nessuno sa spiegare, e a persone che non supporremmo mai capaci di farle succedere. – Francesco no: non aveva bisogno di provare nulla! – La droga ha anche il difeo che la devi comprare dagli spacciatori. Se hai molti soldi con te, possono anche spararti. – Non so, non so… – Mi dispiace. Ad interrompere il dueo di dubbi e dispiaceri, una provvidenziale telefonata. Il commissario alterna sì strascicati, guurali, a lunghi silenzi. Guarda in basso. Poi drio nei miei occhi. E posa la cornea. – Commissario, permee che le faccia una domanda? – Certo che può. – La cocaina potrebbe aver qualcosa a che fare con il sanguinamento ridoo?
– Signora, ha parlato col medico legale? Che mestiere fa, l’arredatrice o la giornalista? – Tempo fa, per tre o quaro anni, ho fao anche quello, ma non dovevo aver molto talento. La mia è solo un’osservazione, piuosto ovvia; c’ero anch’io, ieri sera, in piazza Rivoluzione. Ricorda il poco sangue sul lenzuolo e per terra? – L’ipotesi è che fosse già morto, quando gli hanno sparato. – Un infarto. La cocaina, per quel poco che ne so, distrugge il sistema cardiocircolatorio. Francesco potrebbe avere intuito le intenzioni del killer ed essersi spaventato a morte. – Sì, è plausibile, ma dovremo conoscere per intero i risultati dell’autopsia per esserne certi. Finora, abbiamo solo le analisi del sangue. Oliveri, che lei sappia, aveva mai fao uso di stupefacenti, in precedenza? – Le ho già deo di no. Ma potrei sbagliarmi, e mai, capirà, è un periodo troppo lungo. Forse è meglio che lo chieda alla moglie. – Non è ancora tornata in albergo, lì dove si trova, in Egio, e il personale non sa come rintracciarla: è fuori per un’escursione. La polizia locale la sta cercando, insieme ai funzionari del nostro consolato. Credo che alla fine dovremo parlare con la madre, pure se non ci sta più con la testa. Speriamo ci dica qualcosa la segretaria dello studio legale. Verrà nel pomeriggio. – Io invece sto per andare. Devo firmare il verbale? – Eccolo, è questo. Guardi. Ho riportato tuo? Leggo in frea. – Perfeamente. Adesso devo salutarla, commissario. – Arrivederla, signora. Spero di risentirla presto. Paternò mi guarda e mentre mi accompagna alla porta, con gli occhi mi vuol suggerire che farà di tuo per scoprire chi è stato. Ha capito, mi vuol dire con quel viso contrito. Ha capito che tra me e Francesco c’era qualcosa. Cocaina. Domani i giornali ne parleranno. Sento già le note spietate del Crucifige: AMMAZZATO PER UNA DOSE Con la variante mormone:
I TRAFFICI ABIETTI DELLA PALERMO BENE Oppure, nella consueta versione feuilleton: L’AVVOCATO UCCISO: UNA STORIA DI SESSO E DROGA Si spiegano, le notizie – polverose di fonti oscure –, distendendole su un piano come carte geografiche, oscurando continenti, fiumi e montagne, e illuminandone altri, a caso, secondo l’oscillazione della fiamma della candela. L’interpretazione, al pari della sentenza del giudice sacerdote per Sciascia, procede nel senso mistico della transustanziazione, della trasformazione del pane in carne e del vino in sangue di Cristo. La liturgia non prevede errori. el che passa per la tastiera è vero in ogni caso, e se non lo fosse, potrebbe esserlo, e se non dovesse manco reggersi in piedi, il ragionamentino, starebbe comunque lì a testimoniare che la strada per la verità è lastricata di minchiate e illustrata, in caso di suicidio, dagli esperti della Scientifica: come testimonia quel commercialista indagato e subito condannato all’inchiostramento – con foto in prima e titolo in grasseo a sei colonne – che per la vergogna si è geato dal terzo piano e si è schiantato a braccia aperte sulla strada, in uno sghimbescio tracciato a gessei e cancellato dalla prima pioggia.
Capitolo III Mi è venuta voglia di facce dure, conversazioni di pietra focaia e polvere da sparo. Saluto il piantone, gli uomini di guardia e svolto a destra. Vado giù per via dei Biscoari, e per un istinto d’animale, spalanco gli occhi e tendo le orecchie. Non raccao nulla, però, se non qualche smorfia, arricciamento di naso, sguardo drio come sputo raffreddato. Roba di scarto, insomma. La mia bauta di caccia è un fallimento. C’era una taverna, qui, anni fa, lercia e misteriosa; non aveva neanche un nome. Due o tre tavolini e un solo bancone, al quale, sin dalle prime ore del maino, s’ancoravano gli ubriachi della zona. Da qualche parte, sul fondo nebbioso del vecchio magazzino, improvvisamente sortiva un tizio, con un grembiale che doveva esser stato bianco: espelleva un rauco buongiorno e subito dopo ammutoliva; si piazzava lì davanti, senza muoversi di un millimetro, le palpebre calate da un lato come serrande guaste, diagonali, semichiuse, le mani abbandonate lungo i fianchi. Non c’era molto da questionare, in fondo. Menu fisso: il bollito, un lungo pezzo di manzo che per tradizione deve conservare mezzo centimetro di grasso e cuocere con il sedano, le cipolle, le carote e le patate e un chiodo di garofano; senza triturare sminuzzare affeare nulla, sennò è finita. E dunque. – C’è il bollito? – domandavo. – Sì. Lo vuole il vino? – monocorde. – Va bene. Un poco di pane, me lo porta? – calma calma. Non una semplice ordinazione: era una rassicurazione, in fondo reciproca, una breve esercitazione psicoterapeutica con il monoblocco in grembiale bianco sporco. el giorno, tuo sarebbe scivolato tranquillamente, per ripetersi allo stesso modo del giorno precedente. Poi la taverna finì, con il suo Moloch, le petroliere da bancone e le boi vuote da decenni piazzate lì per inerzia e scenografia. Per me, venne il turno dello Speron d’Oro, in via Venezia, a due passi dal Teatro Biondo. La Regia Conservatoria del calamaro ripieno.
Il Tempio delle polpee di sarde, ubriache di pecorino e affogate nella salsa alla menta. Il Louvre dell’acciuga rossa, della pasta con l’anciova – anchow, l’acciuga appunto, rossa per via della salsina, l’estrao di pomodoro che per legge di cucina sa di terra polvere caldo mosche legno – e ’a muddica aurrata, la mollica, il pangraato, abbrustolito sulla padella. Ho una parte del cervello che immagazzina i sapori e gli odori, li classifica e li archivia in modo perfeo. Ricordo ogni boccone sin da quando ho deo mamma, i raccapricci e le meraviglie; ma non ne vado fiera: è una virtù terrificante, la memoria. Sul marciapiede requisito dinanzi alla boega, un restauratore passa e ripassa una pezzuola nera di gommalacca sul tavolino e al ragazzino che forse gli sussurra una porcata all’orecchio, mentre mi avvicino, rivolge un segno imperceibile, senza far nemmeno oscillare la sigarea incollata al labbro inferiore. Risalgo e sfioro la Caedrale, il portone della Curia con su infissa l’elsa ribelle del pugnale di Maeo Bonello – che per leggenda diede il via ai Vespri siciliani, ed era in realtà l’insegna del Potere di Spada e di Morte della Chiesa feudale – e scendo fino al Mercato delle Pulci. – Posso guardare? – Certo, signora. Con comodo. Sul tavolo, bicchieri spaiati di cristallo satinato, tazzine kitsch, teiere soomisura, ferri da stiro a carbone, forchee di metallo dal manico di finto avorio, macinacaè di laa, portacenere ricordo e madonnine di plastica. C’è un angioleo di legno: non è la foglia d’oro a ricoprirlo, ma uno smalto comune, sintetico. In fondo al baraccone, armadi primo novecento, casseoni, tavoli e chiffonnier. – Le interessa qualche cosa? – No, in particolare niente. – Se vuole, di là ci sono delle cose arrivate ora dall’Inghilterra. Cose delicate, da tavola. Le possiamo vedere insieme. – Inglesi? – Sì. Sono posate, servizi in sheffield, e forse – ma non mi ricordo bene, il pacco non l’ho ancora aperto – ci sono pure dei binocoli, degli strumenti, roba antica che viene dalle navi.
Vado via con trecento euro in meno e della roba in borsa. Un cannocchiale d’oone, e dodici segnaposti d’argento, lavorati a sbalzo. Li accarezzo con il pensiero, non vedo l’ora di portarli a casa. Tua roba lucente, che odora di cameriera, spazzola e olio di gomito, e non di magazzino, di lunga esposizione in una fumosa polverosa Antiques Fairy riscaldata a cherosene, e per di più è stata impaccheata con giornali italiani, non inglesi. Il mio, tecnicamente, si chiama incauto acquisto (forse, è solo un fao formale: l’ho comprata da un riceatore che pagandola sooprezzo l’ha portata via al ladro che l’ha soraa all’esposizione da saloo di un evasore fiscale che l’ha bauta ad un’asta al Monte dei Pegni dopo il furto legalissimo al trenta per cento del prezzo reale e via sublimando). – Pronto? – rispondo, senza nemmeno badare al numero. – Lorenza, ciao, sono Alberto. Buongiorno. – Buongiorno al cazzo, Alberto. – Ben svegliata e con le idee chiare sin dal maino. I miei complimenti, Lorenza, e grazie pure a nome del mio amico nano, che ultimamente si sente un poco trascurato. O c’è qualcosa che ti rode? – ella dell’ironia toscana è un’invenzione. Voi, vi chiudono da piccoli nello sgabuzzino al buio se non dite almeno due stronzate al giorno da sbellicarsi. Così è più di un dovere, far ridere è una necessità, avete paura del silenzio come di una punizione. – Hai cambiato pusher? Devi aver fumato robaccia, in questi giorni. – Mi rode di stare ancora a Palermo, di doverci passare altre due ore. Mi rode che abbiano ammazzato un mio amico. Mi rode d’invecchiare e perdere per strada i pezzi – dico, e penso alle marionee di Tangos, che il dolore mutilava d’improvviso, ovunque si trovassero. – Un amico? Ti hanno ammazzato un amico? – Sì, un ragazzo con moglie e due figli: gli hanno sparato ieri sera, e io sono in giro a perder tempo. – Scappa da Palermo. – Io, questo pomeriggio, torno a Roma: non è che scappo da Palermo! Francesco, potrebbero averlo ammazzato al Central Park, a Manhaan, con le Due Torri. – Ti va se ci vediamo lo stesso? Vengo a Roma. Cioè, avremmo dovuto vederci a Firenze, ma se vuoi, prendo un treno e arrivo. Solo per stare
insieme, tranquilla. – A stasera. – Stai tranquilla. – Alberto? – Eccomi. – Porta pure il tuo amico nano. – Lui è sempre a disposizione. Squadra che vince… Vado su, nella mia camera. Ci sono dei fiori, sul seimanile, una composizione molto elegante. Mi lavo le mani, con aenzione, senza frea. Mi sento sporca: di questura, di sangue, di strada e di ricordi. Tiro fuori i miei tesori, il cannocchiale e i segnaposti, li sistemo sulla scrivania, accanto alla tv, li guardo per un po’, chiedo loro da dove arrivano, qual è la loro storia, cerco la loro energia. Uso un asciugamani, per ripulirli delle dita che non conosco, e li conservo al centro esao della valigia, dopo averli fasciati con un maglione di cachemire che trovo sul leo, e riparati coi tre volumi del Villabianca e gli altri presi a casa e in aesa di leura. Prima di andare in aeroporto, mi faccio un regalo che desidero da tempo: un lungo, lunghissimo bagno nella vasca. Sciolgo nell’acqua bollente tui i sali che trovo, grossi grani in busta, e tue le boccee di bagnoschiuma, alle erbe, alla frua, al miele, finché nell’aria non si diffonde un profumo di tintoria, una melassa d’orrori in polvere e in distillato. Lascio accesa solo la lampada opalina sullo specchio e chiudo gli occhi. Respiro piano e a fondo, e rilascio tui i muscoli: dico loro di mollare la presa, dalla nuca all’alluce. asi mi addormento, o perdo i sensi, asfissiata dalla mistura zuccherina nella quale mi ritrovo. Ora è come se nulla fosse accaduto, se mi trovassi in un luogo senza vincoli temporali, dove si può scegliere liberamente il passato che ci aggrada, dove si può rimediare all’errore, giacché il male è sempre il fruo dell’ignoranza. Non mi sorprende, sentire la voce di Francesco, benché troppo allegra in quel viso da morto. Scusa per ieri, ma non sono riuscito ad arrivare per tempo. Ho avuto un problema. E meno male: ho sentito che hanno sparato a uno, al Genio. Richiamami. Ah, per l’argent, come se fosse.
Sto dormendo, di un sonno che sa di vacanza e ti sfiora solo fino a dicioo anni, e infai il suo bacio è avaro, dura un aimo appena. Il toc toc alla porta, educato ma insistente, mi riporta in vita. Non c’è alcun nuovo messaggio vocale nel mio telefonino, alcun mondo parallelo: le cose stanno come stanno. – Arrivo, solo un momento – urlo, mentre salto fuori dalla vasca e strappo via l’accappatoio dalla griglia di riscaldamento: lo indosso come una pelliccia in Lapponia, fasciandomi fino al viso, e tiro giù il cappuccio. Apro e inclino il viso gocciolante oltre la porta. È il portiere. – Signora, ho provato a chiamarla al telefono, ma non rispondeva. Mi sono preoccupato. Mi scusi. – Stavo facendo un bagno. – Le chiedo ancora perdono. Volevo dirle che suo marito è dovuto partire prima di lei. È passato da qui ma non l’ha trovata. – Mio marito? – La mia faccia resta nel buio, e il mio tono di voce è privo di qualsiasi emozione, come se la sorpresa mi avesse svuotato, di colpo. – Sì, è arrivato in albergo pochi minuti dopo che lei era uscita, stamani. Ha deo di esser riuscito a passare da Palermo prima di tornare al lavoro, a Malta. Aveva un mazzo di fiori, voleva farle una sorpresa e mi ha chiesto di lasciarli nella stanza. – Io non sono sposata. Non ho alcun marito. E non conosco nessuno che lavori a Malta –. Mi sforzo di parlare con calma. – … – Lui resta con la bocca aperta, e stringe gli occhi come per meermi a fuoco. – Lei chi ha fao entrare nella mia stanza, con esaezza? – Un uomo alto, biondo. Signora, mi spiace, ma il signore mi ha deo di esser suo marito, mi ha anche mostrato un documento sul quale era scrio il suo nome, Paul Fraud. È salito su ed è rimasto in camera per non più di cinque minuti. Le manca qualcosa? Vuole che chiami la polizia? – No, non mi manca nulla, e non saprei chi e che cosa denunciare alla polizia. La ringrazio. Mi prepari il conto. Sto per scendere. – Mi scusi, ma davvero, non so come sia potuto succedere – lacrima. – Sarà stato uno scherzo. Può darsi che tra i fiori trovi un biglieo. Nessun problema.
Cerco tra i fiori, con la mano sfioro la confezione di carta crespa, finché non trovo un nastro; lo tiro su e scopro che all’estremità è aaccata una bustina: dentro, c’è davvero un biglieo, listato a luo. Ti sono vicino. Paul. Gentile. Ma chi è Paul? – Commissario Paternò, sono Lorenza Serianni. Spero di non disturbarla. – No, non si preoccupi. Stavo per andare a pranzo. La segretaria dell’avvocato Oliveri arriverà solo alle quaro e mezza. Mi dica. – Guardi, quasi certamente è solo una sciocchezza, forse un tentativo di furto andato a male. alcuno, stamaina, mentre andavo alla Mobile, è entrato nella mia camera, in albergo, dicendo d’essere mio marito. Io però non sono sposata. esto signore ha anche mostrato al portiere un documento, falso naturalmente, sempre che non si chiami davvero Paul Fraud, Paul Impostore. – Aveva qualcosa di valore in camera? – Di valore ho solo quel che ho addosso, l’orologio e i gioielli, nient’altro, e non porto mai dei contanti con me, figurarsi se li lascio in albergo. Deve aver frugato tra i miei bagagli, però: sul leo, ho trovato un maglione che avrebbe dovuto trovarsi nella mia valigia, già pronta per la partenza. Un gentiluomo, ad ogni modo. Ha lasciato un mazzo di fiori con un biglieino di condoglianze. Credo si riferisca alla morte di Francesco. – Sarebbe meglio se lei denunciasse quel che è successo. Potrebbe anche traarsi di un tentativo d’intimidazione. – Non ne avrei il tempo, commissario. L’aereo parte tra un paio d’ore, e non posso restare a Palermo. – Ha già chiamato un taxi? – No, non ancora. – Se le fa piacere, posso accompagnarla io all’aeroporto, e magari mi racconta meglio quel che è successo. – Non si disturbi, commissario. Non credo sia necessario che lei mi scorti con le armi spianate. – Insisto. Non è un disturbo. – Mi dia venti minuti: sarò giù, nella hall. A fra poco. Telefono al portiere. Voglio sapere tuo su Paul Fraud. Taglio una rosa gialla a metà del gambo e l’infilo distraamente nel taschino della borsa. La valigia pesa. Dentro, c’è il mio tesoro.
Capitolo IV Sta piovendo, ed è una perfea tempesta tropicale: corso Viorio Emanuele, streo fra i severi palazzi spagnoli e sempre all’ombra, salvo il mezzogiorno, trasfigura in una calle di Santo Domingo investita da un uragano improvviso; una scena appena accennata, senza le comparse che servirebbero, i ragazzini impavidi, i cigarilleros con i tavolini in testa e tre grassone in fuga, in un sabba di sete colorate stree su tee, pance e culi in gelatina, fradici e danzanti. I due metri fra l’auto e l’albergo costano a Paternò la tenuta dell’acconciatura e dell’impermeabile da detective; è inzuppato, ma quando si spalanca la porta a vetri, stambecca dentro e ride come un ragazzino. – Solo un caè, signora, un caè veloce al bar, e poi andiamo. Stanoe ho fao giorno e ancora non mi sono fermato. Ma non creda che sia stanco: solo esageratamente in forma, carico di adrenalina. esta gita all’aeroporto ci voleva, e pure questa pioggia. Andiamo controvento, sulle corsie preferenziali, al seguito di bus e finti invalidi. Solita guida calma, e infiliamo la circonvallazione. – Tornerà? – Non so. Forse questo è il mio addio a Palermo, commissario, almeno per un po’. Non c’era più niente che mi obbligasse a tornare, già da tempo. La morte di Francesco ha cancellato il mio ultimo legame ancora vivo con questa cià. Il resto è morto e sepolto. – Lei qui c’è nata, però. alcosa resterà… – Vivo a Roma da molto tempo, e qui non ho più nessuno. I miei nonni andarono a Perugia poco tempo dopo la guerra, e i miei genitori li raggiunsero dieci anni fa, appena pensionati. – Io invece ho deciso di venirci a stare, a Palermo. La mia famiglia è di Cefalù. Ho frequentato il liceo e l’università, qui nella capitale, e ho cominciato a far pratica da un avvocato, uno di quelli che contavano. Ho lavorato al Ministero della Giustizia, ma ero troppo giovane: inesperto, si
dice. Ho mollato tuo, da un giorno all’altro, per dedicarmi al concorso in polizia, e ho vinto la divisa. – Un idealista… – Ho tre o quaro idee, sì, ma questo per me è solo un mestiere, e mi piace. – L’uomo che oggi è salito in camera mia si è spacciato per mio marito e, probabilmente, aveva un documento falso. Perché farlo? Perché tante complicazioni? – Se fossimo in un film, penserei ad un valzer di spie, ad un elegantissimo Hitchcock. Mi perdoni lo spirito. Non so risponderle, ma non deve preoccuparsi: magari il portiere si è fidato di un facsimile da carnevale in mano ad un mao. C’era una sua foto oggi sul giornale, e questo potrebbe bastare ad esaltare un imbecille. – C’era il mio nome, e chi sa come c’è finito, non la foto. – Lei avrà leo la prima edizione del «Corriere dell’Isola». Nelle ribaute c’è anche una fotografia, di noi due che osserviamo il cadavere; di grande effeo, le assicuro. – Ho chiesto una descrizione al portiere: era un tizio alto all’incirca un metro e oanta. Capelli corti, ben curati, biondo acceso; vestito di scuro, non portava la cravaa, e sulla giacca c’era un distintivo: oro e smalto, ha deo. Non mi sembra l’identikit di un mitomane. – Neanche a me, anche se non credo che ne esista uno ben preciso: di identikit, intendo. – Secondo lei non è successo niente, allora? – Non ho deo questo. Se le dicessi che qualcosa è successa, cosa cambierebbe? Resterebbe un evento inspiegabile: noi non abbiamo alcun elemento per decifrarne il senso. Mi ascolti. Io ne prendo nota, e il suo racconto finisce nel fascicolo delle indagini. Ci sono molte probabilità che si trai del gesto di un mao; se invece è un’intimidazione legata all’omicidio, forse riusciremo a scoprirne l’autore. Stia tranquilla: ha il mio numero, e se vuole, può chiamarmi, in qualsiasi momento, per qualunque ragione. – Siamo arrivati, commissario – dico, e la mia espressione aggiunge involontariamente un poco d’ironia; me ne accorgo e sposto lo sguardo verso destra, sulle porte scorrevoli delle Partenze. – Le do una mano –. Scende, lasciando l’auto in zona Scarico Bagagli.
– Sono solo le due meno un quarto, c’è ancora un po’ di tempo – provo a recuperare – vuol farmi compagnia al Self Service? – Mi dia il tempo di parcheggiare. Ci vediamo al check-in. Prendo i giornali e vado all’Acceazione. Nessuna obiezione sul bagaglio, anche se è più pesante che all’andata: basta uno sguardo distrao alla bilancia eleronica, e ho già in mano la carta d’imbarco. Sto ferma, in aesa, al centro del salone. Paternò è appena entrato. Gli faccio segno con la mano che ci vediamo lì, alle scale mobili. Saliamo su e prendiamo un tavolo da allerta e fuga, vicino all’ingresso. Paternò dice che dovrei mangiare meglio, che un piao di pasta come si deve vale una bistecca, anzi di più. – Dia rea a me, la farina non ha mai fao male a nessuno. Per quanto stiamo aenti, nella carne qualcosa la troviamo sempre: ormoni, antibiotici, per non dire del virus della Mucca Pazza. – Commissario, ma lei non la smee mai? – Di fare che cosa? – Di analizzare tuo. Anzi, se permee, di fare lo sbirro. Io, di questa bistecca, ne ho bisogno, e non per anemia, per carenza di globuli rossi. Il desiderio del cibo, per me, è un fao oggeivo: si manifesta in tui e cinque i sensi. Io vedo, odoro, gusto in anticipo quel che mangerò. Lo tocco, persino, e sento il rumore dei miei denti, o del coltello sul piao. – E non resta mai delusa? Non la preoccupa sapere che mangia roba falsa, che può farle del male? – Sa cosa penso del progresso? È un motore che produce la più perfea immobilità, uno stato catatonico da eccesso di parkinsonismo. Peggio. Allunga la vita da una parte e l’accorcia dall’altra, in misura ineguale: perdiamo più di quel che guadagniamo. E se pure non fosse così… C’è una storiella zen che racconta di un tizio che entra in una macelleria e chiede: macellaio, qual è la tua carne più buona? Il macellaio risponde: la mia carne è tua buona. – Come finisce? – È già finita. È tua qui. – E che vuol dire? – Proprio niente. – Meglio. Sapere che discutiamo di niente, è già qualcosa, sempre meglio che fingere di discutere di qualcosa non sapendo che è niente.
– Commissario, che fa? Mi sta socraticamente sfoendo? – No, a sfoere era lo scriore zen con la sua storiella. – Che non vuol dire niente, e che non vorrebbe dire niente pure se ci meessimo d’accordo, convenzionalmente, su un qualsiasi significato della categoria di buono. Non avrebbe alcun senso parlare della carne più buona. – Per lei la carne buona esiste? – Come no, ma la carne buona è presumibilmente quella falsa, quella che da un evento a noi sconosciuto riceve un connotato non autentico. Il vero e il buono, insieme, non esistono. Non su questa terra. Per non dire del più buono o del più vero. – Per fortuna – dice, compiendo quel mezzo giro con la testa che significa siamo d’accordo. Il modo in cui mi guarda, mi fa sentire parte di una specie rarissima. Paternò mi ha preso accuratamente le misure. Io parlo parlo e quello, metodico quanto un geometra sull’impervio luogo dei rilievi, ha segnato tuo sul suo block-notes, sicché risulto un tipo cinico e provocatore. Si alza e, prima che io possa fare altreanto, afferra la maniglia estensibile del trolley e si mee in cammino, silenzioso, senza aendere alcun assenso alla sua iniziativa. Eccolo, il primate: la fatica è mia – mi sta dicendo – e mio anche il ruolo di capobranco. Lui davanti e io dietro, a rispeosa distanza. Al posto di controllo, l’ispeore di turno lo riconosce e gli fa cenno di passare avanti, e quello, sollevando il capo di un paio di millimetri, risponde muto che resta lì, in coda per il metal detector insieme a tui gli altri. Seconda lezione sul vero e il buono. Scriva, prenda appunti, che poi la interrogo, signorina Serianni. Non protesta nessuno, pure se la velocità media è di venti centimetri al minuto, dodici metri all’ora. i le file si fanno per due, per quaro, per oo, spire che s’intersecano, eliche di un codice geneticamente votato al caos, e la sola porta magnetica in servizio squilla ad ogni cerniera. Tocca allora al polizioo privato di intervenire, con la sua spazzola eleronica. Te la passa ovunque, in lungo e in largo, sugli angoli e le depressioni, sul concavo e il convesso; togli tuo: la cintura con fibbia d’oone, quella collanina d’oro a maglia strea che ti sta al collo sin dal baesimo, la spilla del tuo club, i booni metallici, ma la porta suona comunque. «Guardi: ho
un pace-maker, una protesi all’anca, una caloa al cranio e due ourazioni: che faccio, tolgo anche quelli?». Ti fanno passare, sappi però che è una concessione. Nel fraempo, il nastro si è ingolfato, la borsa con gli occhiali da sole nella custodia floscia è soo il trolley pressato da un paio di bagagli a mano, non perdi d’occhio il casseino con i preziosi il cellulare le monete, l’altoparlante ti avvisa che l’imbarco del tuo volo è concluso e sei sull’orlo di una crisi. Palermo è la fortuna d’Occidente, sebbene ne contraddica lo spirito e incarni la profezia del suo disfacimento. Al Qaeda ha ferito il Capitalismo nel suo centro nervoso, New York, provocando una paralisi motoria e labiale dell’intero organismo: dei voli, delle comunicazioni, della sua economia new age. Palermo – come Atene e Istanbul nuotando nel passato, nella lentezza, nel caos – ha assorbito il colpo, recuperando in breve l’equilibrio, impassibile, come se nulla fosse accaduto. – Arrivederla, signora. Faccia buon viaggio e stia tranquilla. – Grazie di tuo, commissario. Se capita a Roma, si faccia sentire. – Obbedisco. Alla prima occasione –. Non dice per dire: ride con gli occhi, Paternò, in un modo che sa di sfida, di gai e di fusa. Ci sono degli ostacoli che non riesco ad evitare, o per meglio dire, degli errori che ripeto, e per quanto mi sforzi, non riesco a trarre alcun utile insegnamento dall’esperienza, perché non mi accada nuovamente di commeerli. Uno di questi è di grado elementare. Se riguardasse gli scacchi, potrei riassumerlo facilmente: le prime mosse sono avventate, e per quanto poi riflea sul campo di baaglia e sulle strategie, la frustrazione – dinanzi al vantaggio acquisito dall’avversario – ha il sopravvento, e mi spinge ad abbandonare il gioco, e a favorire la sconfia. Il finto finger ci scarica sulla banchisa, tra foche e pinguini. Stavolta nessuna carezza, è un vento islandese che mi sta prendendo a schiaffi, ghiaccio e zolfo. C’è un tizio che ha poggiato il borsone per terra e con calma ha acceso una sigarea. Non so come faccia a star fermo. Vado dria all’aereo. Centocinquanta freddi metri a piedi. Fila finestrino, a ridosso della cabina di pilotaggio, l’ideale per le gambe. Tiro fuori i giornali e fingendo una forza che non ho, piazzo con un
movimento secco la valigia nel bagagliaio. Stringo la cintura sull’ernia mancata e al primo avviso – i signori passeggeri… –, sto già leggendo. La donna che mi siede accanto, incapsulata in un rigido Chanel, mi osserva e poi torna a guardare la foto in cronaca: titolo, Omicidio alla Vucciria; guarda un po’, è la stessa persona che in piedi piange il morto. La donna stringe i muscoli della mandibola e gonfia le guance in una smorfia d’orrore; ma non ce la fa a raristarmi, il suo tentativo di strapparmi quel po’ d’onnipotenza che deriva dal sopravvivere a qualcuno. Si decolla, finalmente. Fine della storia, cambio pagina, chiudo il giornale, e passo ad una rivista d’arredamento che mi porto appresso da giorni. Al parcheggio taxi di Fiumicino faccio una fila da ingresso domenicale agli Uffizi, ordinata e interminabile. – Vicolo della Campanella, per favore. – Dalle parti della via dei Coronari, o me sbajo, signora? – È quella. Sul raccordo anulare mi rassereno. La passeggiata al centro ha addiriura un effeo balsamico. ando prendo un caè al bar di via di Panìco, l’umore è alle stelle. Alle cinque e un quarto del pomeriggio, sono a casa, e il mio tesoro è con me. Ho bisogno di rallentare la corsa, di dormire e smaltire definitivamente la rabbia delle ultime dicioo ore. Alle see e mezza del pomeriggio, mi sveglia uno squillo. Ho messo la suoneria carogna, progressiva, in sei secondi ha già un volume foratimpani. È Alberto. – Tornata in patria? – Senza difficoltà. Viaggio tranquillo e nessuna sorpresa all’arrivo. Per non dire del fao che almeno tu sei ancora vivo. – Le pulsazioni ci sono, e dunque, ad orecchio, dovrei esser vivo. Se vuoi accertartene di persona, ho prenotato l’ambulatorio dell’altra volta. Potremmo vederci lì, tra un po’. – Alle nove e mezza – chiudo. È sempre lavoro, ma di una forma che plasmo con le mie mani; i miei clienti sono avvertiti: uno o due appuntamenti al mese, nessuna insistenza, e nessuna richiesta al di là del pauito; sono dodici relazioni a pagamento: undici, da ieri.
Alberto ha trentadue anni, è un pubblicitario. La sua agenzia lavora con grosse imprese e governi di mezza Europa, e il suo faurato raddoppia ogni anno. Non è molto alto, ma è bello e simpatico, tanto da riuscire a volte insopportabile. Io sono il suo lusso più grande. Le sue donne vogliono qualcosa da lui, e lui vuole qualcosa da me. Sono io che comando. Alle due del maino siamo davvero stanchi. La cena fredda è sul tavolo della suite da seecento euro a noe, fredda anch’essa, quanto può esserlo un albergo londinese d’ultima generazione, con i suoi arancio giallo lilla illuminati a neon e alogene, plastica ovunque e resine per terra. Mangiamo senza passare dagli spogliatoi, e dalle docce. Rido come solo Alberto riesce a farmi ridere, e dopo la frua torniamo ai materassi. Sono io che prendo l’iniziativa, con quel che piace agli uomini, e li riconduce all’essenza. Al risveglio, faccio una doccia bollente. Dal lucernario sul teo della sala da bagno, osservo il cielo, senza una nuvola, color del mare al largo. Mi piace andare a piedi, e il pensiero di tornare a casa araversando il centro mi rende felice. Prendo i millecinquecento euro dal piao in vetro ghiaccio sulla consolle rosso rubino e lascio l’albergo che non sono neanche le see e mezza. Alberto dormirà fino a mezzogiorno. Le strade sono fresche, umidicce, quasi allegre. Svoltato l’angolo, entro in una nuvola del Paradiso. Conosco la tecnica. Un pugno di vaniglia nel forno acceso, e il tubo della cappa di aspirazione fa il resto: intorno al bar, in un raggio di cento metri, la trappola è tesa. Non c’è scampo. Un istante dopo esser passati per quella nuvola invisibile, crollano le difese immunitarie della psiche, la volontà si sbriciola, i neuroni cedono all’assedio. Il mio cervello visualizza l’immagine di una brioche, subito associata ad un cappuccino, un bicchiere di minerale, un tavolino ed un giornale. Meglio morire di rimorsi che di rimpianti. La mia brioche è calda e soffice, col boone in cima, e gialla d’uovo, all’interno. Fisso la prima pagina del mio gran formato ripiegato sul vassoio e non riesco a leggere e a capire un rigo che sia uno. Vorrei smeerla coi giornali, dopo aver smesso con le sigaree, ma non posso. Non saprei, altrimenti, come nutrire la mia pianta carnivora, come rifornire la mia Piccola Boega degli Orrori.
Fra le cose migliori dell’anno ci sono i titoli per la morte di Marco Pantani. Coca e antidepressivi hanno finito il gran ciclista in un residence da cinquantacinque euro a noe, fra mobili sfasciati, macchie di caè sul tavolo e il leo ancora intonso: dormiva da giorni sul divano, a pochi centimetri dalla tv e dal telefono. C’è chi parla di dannazione della cronaca, a proposito del doping di Pantani, dipinto come un eroe fasullo. Ma non c’è alcuna pietà: il fallo è simulato, nessuno che si rialzi, con dignità, per ricoprirsi il capo di cenere e stracciarsi le vesti, ricordando i celebri casi della pagliuzza e del trave o della prima pietra da scagliarsi sull’adultera, riportati da antiche memorie ebraiche. Avrebbero dovuto fermarlo in tempo, il tipografo tedesco, Johann Gutenberg, ficcarlo in una cella umida delle carceri di Magonza, distruggere il maledeo torchio e diffidare i servi d’officina dal meere nuovamente mano ai caraeri mobili. Stampa qualcosa e ne farai crusca del diavolo. Marx imparò tuo quel che gli serviva sul popolo dalla leura dei libri di Balzac. Mezzo secolo dopo, fu il popolo ad imparare dalla leura delle riviste, quando Gide raccontò i processi in Corte d’Assise e gli orrori della provincia: follia, stupri, intere famiglie sterminate. I giornali si stampano col sangue. Una viima al giorno, per sedare la fame della pianta carnivora. A Roma, quando ci credevo, chiesi una collaborazione al direore di un famoso seimanale. Il Gran Moralista, Fausto S., svicolò, tenne soovoce una preziosa lezione di vita, tua per me, sbracato sulla poltrona manageriale, e il suo era il saloino a Potsdam di Voltaire, il cameriere filosofo al servizio dell’altro Federico II, il prussiano; mi regalò un suo libro con dedica e mi elargì un consiglio: «Tieni un diario, segna quel che succede: nel mondo, nel tuo lavoro, e un giorno ti servirà». Salutai educatamente la segretaria e mandai lui a cacare. Il diario però iniziai a tenerlo: la Boega. Prendo nota delle viime sacrificali, dei carnefici e delle relative assoluzioni post mortem, di tuo quel che non mi piace nel mondo o sfugge al nostro automatico filtro di salvaguardia (che in Occidente separa la rappresentazione dalla realtà, la luce dal sole).
Ho molta roba da parte: le gesta eroiche dei diatori, le pulizie etniche dimenticate, le apocalissi che s’annunciano alle porte di Babilonia, le vendee dei buoni e le inevitabili rimozioni; tra gli orrori che preferisco – in cui i paradossi s’avviluppano in famigliari gomitoli –, alcuni mi riconducono a Palermo. Ha dei riguardi, talvolta, il Fato, nel manifestarsi. Se i ragazzini in chiesa corrono dietro ad un ladruncolo che ha portato via la borsa della catechista, e lo bloccano, lo tempestano di pugnei e calcei, in aesa della volante, è un inno generale alla legalità, anche se le mie lacrime vanno al Vescovo dei Miserabili, quando ai gendarmi dice che Jean Valejan, le posate d’argento nascoste nel sacco, non le ha per nulla rubate, ma le ha ricevute in regalo. La Francia potrà pure stringer pai di pace con le più improbabili assemblee asiatiche e mediorientali, a pao che le consentano di vietare zucchei, veli e croci, e non le contestino il pestaggio di polizia, in aeroplano, di un senegalese da espatriare e l’arresto per vendea di un mite antropologo palermitano che di fronte al sangue urla di smeerla. Il mite rischia 5 anni di galera. esta sì che è autoanalisi, fanculo a Freud.
Capitolo V – Buongiorno. Sono l’architeo Tore Conserva. Mi perdoni se citofono giusto a quest’ora del maino. –… – Spero proprio di non disturbare. Parlo con la signora Serianni? – Sì, a che devo il piacere? – Mi trovavo qui, giustappunto dinanzi al suo palazzo che, stimavo, risalirà al diciasseesimo secolo, un tipico esemplare barocco, e mi chiedevo se non fosse il caso di compiere un sopralluogo. – Adesso? Alle nove e mezza? Sono appena tornata a casa. – Sarebbe l’ideale. Al maino gli strumenti funzionano meglio. Sarà merito di una noe trascorsa a riposo. – A riposo chi, architeo? – Prema quel pulsante che si trova al centro del suo apparecchio, signora, e spalanchi il suo portone: sarò lieto di raggiungerla e di mostrarle i miei progei. Ne ha sempre d’ambiziosi, l’architeo, ed estenuanti: la loro illustrazione richiede sempre lunghe ore. – Eccomi, fresco come un ippopotamo dopo il bagno. – Non ci vediamo da quanto? aro, cinque mesi? Sei sempre il solito fesso, Gianmarco. – Se ti dovessi valutare, in veste professionale, direi che sei sempre la solita pantera nera, scura scura, trai malesi e soda muscolatura africana. Son venuto a darti la caccia, e farai bene a scappare. – Sono le nove e mezza! – Nella foresta non ci sono buone maniere, cara la mia pantera. Cedo subito, niente caccia: anche se non conosce le buone maniere, un ippopotamo da cento chili per un metro e novanta d’altezza va sempre assecondato. – Torna nella tua palude, Gianmarco, dai una lucidata. E poi in stanza, giovanoo –. Mi piace darmi qualche aria da bordello.
ando riemerge dalla doccia, Gianmarco – che nella vita fa il mercante d’arte e l’antiquario, fra Roma e Londra – ha un pendolo che misura almeno tre ore, preciso come un timer da forno caricato a molla. – Lei arreda a perfezione questa vecchia casa, signora. Mi scusi se glielo dico, ma lei è un pezzo veramente di pregio, e i miei progei la riguardano da vicino. Permee che le dia un’occhiata? – S’accomodi, ma mi trai con riguardo. Sembra di stare in palestra. Gianmarco ha la forza e i tempi giusti. Gli piace sollevarmi, scantonarmi e riaggiustarmi, e lo fa con la perizia e la delicatezza di un massaggiatore orientale. Ha tirato fuori del tascone un vecchio compact disc di Peter Gabriel. Il vento, le voci, i tamburi. Siamo nel deserto, soo una tenda, sudati. Lui mi tenta, si fa diavolo, serpente, anche se dovrebbe essere il contrario. Il mio corpo dimentica presto d’esser separato dal suo, e si muove secondo l’intendimento del tentatore: oscilla guidato da un metronomo; un solfeggio da Requiem, ma la pressione sale, sale, sale. È davvero un gran bastardo, Gianmarco. Sente che il mio tempo sta arrivando – gli basta tenere, sul mio collo, che si sta gonfiando e inarcando all’indietro, i suoi polpastrelli, come sensori – e allora fa scivolare le sue mani e mi solleva reggendomi dalla schiena; mi punisce, rallentando i colpi quasi a spegnere ogni vibrazione, e mi bacia ferocemente sul seno sinistro, e su quello destro. È lui, quello che dà, e non io; è lui che guida il gioco e non sono io che glielo lascio fare (né potrei altrimenti). el maledeo compact disc continua a girare e la mia testa con lui, tre volte, quaro volte, e ad ognuna arrivo in cima alla duna che oscura il sole e scendo, placando l’affanno, e ancora risalgo, tra le mani di Gianmarco. Mi fa incazzare, ma vorrei che non finisse. – Dovrei pagarti io, ma se si diffondesse la voce, capisci? Perderei ogni autorità, e non varrei più un centesimo. Se non ti spiace, fa il tuo dovere e lascia il contante. Io resto a dormire. – Non scomodarti. Faccio da me. Un tuffo in doccia e torno nella giungla. Il disco te lo lascio. Omaggio. – Gianmarco? – Sì? – Dimentichi qualcosa? – Il pacco sta all’ingresso. Dormi, cara.
– Te ne sei ricordato. Bravo. Avevo lasciato a Gianmarco un bauleo africano, di robusta pelle istoriata a fuoco, perché lo aprisse: era chiuso, sigillato; avevo provato a forzare la serratura, ma avevo rischiato di distruggerlo. Me lo ha lasciato mio nonno, morto sei mesi fa. La casa e le terre sono rimaste agli zii e a mio padre. Io ho ricevuto una collana di gran valore, che apparteneva a mia nonna, e il bauleo. – Che cosa ci stava dentro? – Vediamo. Un po’ di cocci di creta, dei bicchieri fasciati di un tessuto rosso, due scatolee d’argento lavorate a sbalzo e dell’altra roba affeiva, di nessun valore. Un album con una ventina di fotografie in bianco e nero: donne meravigliose, seminude, e degli uomini in divisa. Un grosso coltello da cucina. Una Bibbia e un quadernino scrio fio fio, con una grafia elegante e minuta. Nient’altro, se non sbaglio. – E il bauleo? – Intao, e te lo pagherei discretamente, nonostante la sfiga che porta: in questi mesi ho subito più tentativi di furto che negli ultimi vent’anni. – Vedremo. – L’offerta resta valida anche per la tua collana: centomila solo per le pietre. Puoi sempre far montare della roba meno costosa. – La regalò mio nonno a mia nonna. Scordatelo. Baci. Gianmarco sarà stato un ladro, prima di rubare con licenza annonaria e partita iva. La porta di casa mia è blindata, pesante come il portellone di una cassaforte, ma lui se la chiude alle spalle senza un clack. Io non sono mai riuscita a farlo. Un ladro, avvezzo a scrutare in un lampo fra cianfrusaglie e tesori, fra telecamere e allarmi di musei e di appartamenti; oppure non è ancora uscito, e ha solo finto di chiudere la porta. O forse stavo già dormendo. Cado in una strea buca dentro una caverna, e in fondo, c’è una luce fioca, anzi: sono tante luci, tanti botolei ricoperti di stracci, con uno sguardo caivo. Stanno sparando a Francesco, che resta fermo, non si muove. Ancora il sogno dell’altra noe, e gli assassini vanno via presto: Francesco è una statua, adesso – illuminata, il Genio! – ma dura poco, per fortuna: nella buca si spengono tue le luci, e dormo, finalmente. Alle sei e mezza è già buio, dalla finestra entra solo un pallido riflesso dei fari di un’auto in movimento. È un risveglio dolce. Vado in cucina
nuda e ancora impiastricciata di un paio di milioni d’animalei appartenuti a Gianmarco. In casa ci sono solo io, con un bauleo che aspea di essere aperto da me; dentro, c’è quel che mio nonno ha voluto lasciarmi, i suoi ricordi. Lo porto sul tavolo da cucina. Accendo il lampadario e preparo un caè solubile. Nel microonde, la tazza raggiunge la temperatura di fusione, e le mie dita s’aaccano al manico di porcellana. Acqua fredda, serve dell’acqua fredda, del ghiaccio. Respiro, respiro. Non è niente. Cazzo. Tiro fuori tuo con metodo: cocci, bicchieri, foto, coltello, Bibbia e quaderno; più che cocci, sono delle lanterne ad olio spezzate in due parti, quasi fossero state colpite da una lama, vibrata da mano esperta. I bicchieri sono molto belli, e molto poveri: buoni per prendere il tè, con la menta e i pinoli, e il tessuto è di un cotone color sangue, ricamato in violeo con alcune figure geometriche, ripetute ad incastro. Le foto sono i classici reperti coloniali: foto di fidanzate, mogli bambine, ascaree, puane; in Somalia, forse, o in Eritrea. Due fotografie ritraggono altro, e altrove, tra le baracche di un western d’annata: una ventina d’uomini in divisa, in piedi e accosciati, ad una festa di paese per la foto dell’ambulante con scatola e magnesio; e quaro uomini, nella seconda, due dei quali in costume da gran cuochi, con il cappellaccio in testa, e gli altri da ufficiali di un qualche esercito in pantaloncini corti (di quello americano, immagino). Mio nonno, uno dei due cuochi, fu per anni prigioniero in Algeria, nel campo angloamericano di Orano, e questo dev’essere il suo coltello. Sulla copertina della Bibbia, invece, c’è scrio Aldo Franceschi. E questo quaderno? Un diario, il diario del nonno. Ecco perché ha lasciato a me il suo bauleo: qui ci sono le risposte alle mie domande, alle quali, per tante volte, è seguito il silenzio. Mario Serianni. Diario Orano – 26 aprile 1941 Siamo finalmente giunti al campo di prigionia inglese. Indossiamo ancora le nostre divise. Mai puzzato così tanto in vita mia, e mai stato così poco
interessato alla pulizia mia ed altrui. Orano – 18 maggio 1941 i al campo raccontano di una nave tedesca, colpita in una maina nebbiosa da una corazzata inglese sbucata dalle profondità infernali, e affondata un’ora dopo con tui gli uomini schierati in coperta. Il comandante, al suo primo incarico, aveva ordinato loro di salire sulle scialuppe e di lasciarlo al suo destino. Gli ufficiali avevano urlato ai loro sooposti di andare via, poiché tuo era perduto. Ognuno dei condannati aveva chiesto al proprio vicino di gearsi in mare. esta catena di generosità non si era interroa, ma era risalita verso il comandante in un rifiuto silenzioso. I morti, in grandissima parte, erano dei ragazzini. I sopravvissuti, pochi in verità, sono stati ripescati a fatica dall’equipaggio britannico, che aveva assistito a quelle strane manovre, incapace di spiegarsi quel che stava accadendo; o capacissimo, al contrario. Nelle vene delle forze navali di Sua Maestà Giorgio VI scorre il sangue d’ammiragli e pirati, di Nelson e di Morgan, cavalleria e ardimento. el gesto li colpì al punto da indurli a celebrare un funerale, in mare aperto, per un nemico valoroso. Per noi è andata diversamente. Il nonno non aveva mai nascosto d’essere un fascista, ma i sentimenti erano tornati a galla solo negli ultimi anni, insieme a qualche lacrima. Squilla il cellulare. È Paternò. – Pronto, commissario? – Ha messo il mio numero in memoria? – Nella mia memoria, non in quella del telefonino. – Mi lusinga, signora. L’ho chiamata per ragioni di lavoro. Sì, insomma, per via dell’omicidio, della morte di Francesco Oliveri. Il procuratore Bevacqua vorrebbe sentirla al più presto. Oggi, la segretaria dell’avvocato ha parlato di una donna con la quale Oliveri si vedeva regolarmente, da alcuni mesi, a Palermo e fuori: una certa Lorenza. – Che cosa vuol dire «sentirmi al più presto»? – Interrogarla, raccogliere una sua deposizione: entro domani. Mi ha chiesto di contaarla informalmente.
– Non c’è nulla che io possa dire o fare per aiutarvi. Eravamo solo amici, con Francesco. È vero che ci vedevamo con una certa regolarità, e questo perché io, con la stessa regolarità, tornavo a Palermo, per lavoro. Una o due volte al mese, per comprare dagli antiquari. Capisco però che non posso rifiutarmi. Spero solo di poter tornare a casa entro domani. – Non dovrebbero esserci difficoltà. – Apprezzo la sua prudenza, commissario, ma state solo perdendo il vostro tempo, che è prezioso, e io il mio, che non vale nulla. ando serve, so raffreddarmi a dovere, addomesticare le mie reazioni. Ho lasciato Palermo da nemmeno ventiquar’ore e devo tornarci subito per una verifica da questurini. ante volte mi chiameranno, ancora? In che razza di trappola sono finita? Ora che la segretaria parla di una certa Lorenza, io sono inevitabilmente l’amante. O devo spiegar loro che in realtà sono una pulla, e che conoscevo Francesco da non più di tre mesi? Cazzo cazzo cazzo. – Mi faccia sapere quando arriva. – Il tempo di prenotare e la richiamo. – Ci tengo, e poi dovrò prenotare anch’io, per il pranzo –. Sicché, Paternò si è dato il coraggio! – Non si vorrà compromeere, commissario, ora che sono quasi indagata. – Non lo dica manco per scherzo, signora. A più tardi. Orano – 19 maggio 1941 Franceschi non si lamenta più. Piange in silenzio e non se ne vergogna. È un pianto soile, un soffio che risale da quel braccio macilento, appeso al collo come un figlio. L’ha colpito un ufficiale inglese, durante la marcia nel deserto: tre o quaro volte, con il calcio di un fucile, tenuto dalla canna al modo di un bastone. Ci hanno cambiato baracca, ma siamo rimasti insieme (grazie a Kepì, un soufficiale). Ha il volto di mio padre quando seppe di dover morire. Mi occupo di lui e vorrei abbracciarlo, e stringerlo a me. Orano – 24 maggio 1941
Un Ufficiale, un buon uomo di Fucecchio che mi si è molto affezionato, mi aveva deo bruscamente, tempo fa: «Voi, Serianni, dovreste essere dei nostri, un ufficiale intendo. Siete ancora in tempo. Decidetevi. Ditemi di sì e sarete libero di studiare per la prossima selezione». Sono rimasto un marinaio. A bordo ho fao le mie corvée e i miei turni di guardia. Il cibo era coo nell’acqua di mare, sapeva di sale e disperazione. i al campo, invece, mangio sabbia e rassegnazione. Meo il diario sul comodino, e me a leo.
Capitolo VI Avessi una macchina, stavolta andrei di corsa fino a Napoli, per riprendere il transatlantico dei miei centoventi centimetri d’altezza ed inspirare a pieni polmoni i vapori di carburante e di vernice nel bianco parcheggio che s’apriva al calo dell’enorme bocca di metallo, con un boo assordante sul molo Beverello. Avessi una macchina, porterei giù la mia valigia più bella e una decina di buoni compact disc; riascolterei Mina e John Coltrane, Grande Grande Grande e Impressions, tergicristalli a ritmo con le spazzole sui piai e una corsa in autostrada, cielo grigio e pioggia baente. Invece no. Solito taxi e per me è da anni, in cià, Australia 9: come va? Bene anch’io, sì, Fiumicino, grazie. – Che giornale preferisce, signora? – Avete il «Corriere dell’Isola?». – Eccolo. Gambe in diagonale sul sedile A della fila numero uno, calze nere con riga soile sulla parte posteriore. Lo steward prova ad aerrare dalle mie parti, con una manovra un po’ azzardata. – Per il caè bisogna aspeare un poco. Se vuole, però, di là, posso… – Aspeo volentieri. Prima che si riprenda, torno al giornale. Solito taglio basso in prima. LA DONNA SEGRETA DI OLIVERI Il sommario ne è una pigra conseguenza. Comincia ad emergere la verità. Sulle tracce di un’amante misteriosa. Al setaccio la vita dell’avvocato ucciso. Drammatica deposizione della segretaria. Palermo – «Si vedeva con una donna. Aveva degli appuntamenti, un paio di volte al mese». La segretaria di Francesco Oliveri non riesce a celare il dolore per quel che è accaduto, per la violenza che ha cambiato la sua vita. Arriva alla Squadra Mobile qualche minuto dopo le 15, accompagnata
da un’amica che ai cronisti chiede un po’ di discrezione. I flash ritraggono un volto segnato, quello di Lucia Ruffini, 27 anni, bruna, fisico minuto, ancora tre esami alla laurea in Giurisprudenza, nubile. Gli occhiali da sole non bastano a coprire i segni delle noi insonni. Il resto a pagina 9. La discrezione è garantita. Mancano il calco dentario ed altri particolari decisivi per l’esaa comprensione dei fai da parte del leore, quali l’indirizzo di casa e il numero di cellulare della ragazza, alla quale saranno comunque arrivate almeno cento telefonate, nelle ultime due ore, da parenti, amici, semplici conoscenti: ebbri della vicinanza ad un satellite del pianeta Morte, sia pure minore. Non si tace però del melodramma, di quella certa inclinazione della ragazza per il professionista, tipica delle segretarie: un aspeo secondario della vicenda ma da non tralasciare, traandosi pur sempre di un indizio che porta il numero dei sospei ad un migliaio più una, includendo i clienti degli ultimi cinque anni, i loro collaboratori e famigliari indispeiti dalle condanne passate in giudicato, i rivali superati per l’incarico x o la consulenza y, l’ex fidanzata, la moglie forse tradita, la donna del mistero e la segretaria, per l’appunto, abbandonata dopo una seduzione freolosa, sulla scrivania, per niente romantica, o peggio, mai sedoa. «Ci sono momenti che mi capita di sentirlo parlare e allora mi alzo di scao e mi guardo intorno, e quasi lo vedo, con un’espressione serena, come il solito, che inizia a parlare e gli manca il fiato, gli manca… proprio non riesce…». Hanno ricostruito sospensioni, esitazioni e lacrime, sbobinando la deposizione. Tecniche di verbalizzazione creativa. I copisti suderanno alla palestra di Ricco Baricco, che in maniche di camicia spiegherà loro la sostanziale differenza d’anima e respiro che passa tra ipotassi e paratassi, e dirà in una posa kennediana che non si traa di malaie esantematiche, mentre soo le sue parole ricciolute scivolerà uno swing, un tappetino musicale stile Novecento. «Se n’era andato poco dopo le nove, e come il solito avevamo passato l’ultima mezz’ora a riordinare l’agenda degli appuntamenti, a rivedere i
fascicoli delle udienze seimanali. Avevamo lavorato tranquillamente, senza frea. E invece…». Gli scribi godevano di una certa considerazione, presso le magnifiche corti dei Faraoni; gli amanuensi s’accontentavano d’aver faa loro la Regola di San Benedeo; i Principi di Qwerty son felici d’aver deciso, meccanicamente, dei destini altrui. «Da poco più di tre mesi, una volta ogni due seimane, circa, mi chiedeva di coprirlo, con una scusa. Non capitò mai che sua moglie lo cercasse, ma lui era preoccupato che accadesse. Per molte ore, in quelle sere, deviava le sue chiamate sul mio cellulare». Paternò mi sta aspeando soo il camion scala, appoggiato alla sua Toyota. – Buongiorno, bene arrivata. Ha solo il bagaglio a mano? – Buongiorno, commissario. Sì, solo questo. Non pensavo di vederla qui. Non sono un’autorità. O è venuto ad arrestarmi? – Ero indeciso se presentarmi agli Arrivi con un cartello e la scria «Lorenza Serianni, Palazzo di Giustizia». Non mi riconoscerà, dicevo. – Sarebbe stato gentile, da parte sua, aendermi con un cartello da villaggio turistico. O voleva alludere a qualcosa? Pensa che trascorrerò molto tempo al Palazzo di Giustizia? Sarà una vacanza animata? Che faranno, mi tortureranno? – La tortura è stata abolita da qualche tempo, in alcuni palazzi dello Stato; per il resto, non si ha altra via per persuadere qualcuno a fare quel che non gli piace: raffinata quanto si vuole, regolata da un contrao, asservita al semplice buon senso, ma pur sempre tortura. Poi ci sono quelle sevizie che a volte c’infliggiamo per non far qualcosa che invece desideriamo con ogni muscolo –. L’inclinazione del tono, sull’ultima frase, è di un a parte goldoniano. – Come corteggiare una donna? – Non ci avevo pensato: sì, anche in questo caso. Il secondo metal detector della giornata mi aende in cima alle scale del palazzo monumento di piazza Viorio Emanuele Orlando: marmo piacentiniano, vetrate annerite, gabbie d’ingresso e arredi in grigio acciaio;
come usava tanti anni fa, a Mosca, nei grandi magazzini GUM, o al centro dell’Africa, in quegli aeroporti che grondavano contrabbandi, «finché c’è guera c’è speranza». – La Procura, per favore? Sono aesa dal door Cesare Bevacqua. – È con il doore? – Sì, la signora è con me. – E che, non lo sa il doore dov’è la Procura? – Perché non risponde? – Venga, signora. Vede? i c’è scrio informazioni. – Appunto. – Il fao che quell’uomo sia addeo alle informazioni, in realtà, non lo obbliga a divulgarle. Il lavoro non è un sempre e comunque. Le informazioni, lo dovrebbe sapere, nel nostro mondo costano tempo e fatica, e bisogna averne dirio, per chiederle. Il fao che lei lo abbia scosso dal suo riflessivo torpore non per sapere qualcosa ma per mostrare la sua autonomia da me, che qui sono di casa, l’ha disturbato: si è sentito sfruato, chiamato controvoglia a giudicare, e ha giustamente evitato di collaborare. È una questione di principio, e io stesso non so se condividerlo o meno. Il principio. – Commissario Lacan, dovrò chiamarla così. – Mi piacerebbe: Robert Lacan, il commissario Robert Lacan di quel noir francese con Jean-Paul Belmondo, Lo Sparviero. Un insospeabile steward omosessuale dedito alle rapine con l’aiuto di complici occasionali che poi uccide insieme alle sue viime. A dargli la caccia, un polizioo, il braccio caivo della gendarmeria. – Se lei vuole che io precisi – guardi che stavo parlando di Jacques Lacan – per recitarmi poi vita e opere dello psicanalista, si sbaglia, e di grosso. – È che non mi piacciono la psicanalisi, la noe, i sogni, l’inconscio, l’io, il sé e il due per tre. Se proprio devo scegliere, meglio il commissario Lacan. – Conoscevo uno che quasi si vantava di non possedere un inconscio. – Chi era? – Non me ne ricordo più. – Io non dico di non possederlo. Solo di preferire l’altra metà del mondo, quella che mi riesce di conoscere meglio.
– Le manca l’opportunità delle grandi scelte. – Ne affronto di smisurate, mi creda. Siamo arrivati. Paternò fa segno agli agenti di guardia di premere un boone e spalancare i vetri che blindano la Procura come una cassaforte; mi lascia a sedere in corridoio, si ficca in una stanza e non ne esce per dieci minuti. Intorno a me, si muove una gran folla – avvocati al cellulare, abiti d’oimo taglio; cancellieri saeanti, i fascicoli soobraccio; polizioi in borghese, occhiali scuri e giubboi rigonfi –, e avverto un dolore acuto, mentre quel passaggio improvvisamente si svuota, in una nuvola da teatro illusionista, e si colma di altre figure, riemerse da un tempo lontano: avevano appena assassinato un magistrato e i suoi uomini di scorta, e le lacrime scorrevano silenziose, sui volti dei ragazzini e di un vecchio che ripeteva «è tuo finito». – Bevacqua sta ascoltando il medico legale. Ne avrà ancora per poco. Poi toccherà a lei. Le chiederà di spiegare, sì, insomma, se tra lei e Oliveri… – Niente, non c’era assolutamente niente. Solo amicizia, e soldi, di tanto in tanto, quando comperavo per lui, da antiquari e mercanti: è il mio mestiere, se di questo si può parlare: mi occupo di piaceri domestici. Vendo idee, per lo più, ma anche mobili, disegnati da me, se capita, o pezzi d’arte; guadagnandoci una percentuale, ovviamente, in caso d’intermediazione. – Ecco, benissimo, dica tuo quanto e vedrà che tuo andrà bene. – Lei vada pure. – Resto, non si preoccupi, anzi, ne approfio per incontrare qualcuno: ho da sbrigare degli arretrati. Si volta e subito incrocia un paio di mani in sequenza, saluti rapidissimi, che sanno di timbri sulla posta in entrata all’Ufficio Protocollo. Sono già stata qui, con altri occhi, in un’altra vita, per altre emozioni. Protea dai miei occhiali da sole modello Romy Schneider, mi godo un poco di teatro giudiziario; fin quando non arriva il mio turno, sul palco. L’avevo immaginato diversamente, il procuratore, una poltiglia rimasticata di vecchi cliché pretorili: basso, tarchiato, calvo, o comunque ingrigito, gli occhiali spessi ad incorniciare uno sguardo sfuggente; un bigoo, insomma, calzato di un tre booni savoiardo e capace di esprimersi solo in un tardo codicese.
Il tipo che mi accoglie con un’espressione indecifrabile è invece d’altezza media, spalle larghe e torace da piscina ma che sia in frea e ad ora di pranzo, testa rasata con cura, occhiali in celluloide su un naso massacrato dalla lampada solare. Veste con calcolatissimo disinteresse al nero sartoriale. Un maglione bleu, pur sempre di Ralph Lauren, insomma, pantaloni tecnici beige e sorriso al fluoro. L’illusione di gioventù dura finché non apre bocca. – Buongiorno. Lei è qui per render testimonianza sulla personalità del deceduto, il compianto avvocato Oliveri. S’accomodi, signora –. Touché. – Buongiorno. – Devo informarla, preliminarmente, che la segretaria del compianto avvocato Oliveri, da noi ascoltata, ha sostenuto che tra il defunto e lei vi fossero dei solidi rapporti d’amicizia. – So quel che ha deo la segretaria. Il «Corriere dell’Isola» ha pubblicato i verbali praticamente per intero. – Non ho leo i giornali, purtroppo non ne ho ancora avuto il tempo. – Si consoli. I giornali hanno leo lei, e ne hanno ampiamente riferito ai leori. – Che cosa intende dire, signora? – Nulla. Se dovesse aver bisogno di una foto per la puntata di domani, non esiti a chiederla. Ne porto sempre una con me: non si sa mai. – Lei è mai stata interrogata prima da un magistrato? – Non ho avuto il piacere. – esto non è un dialogo, non in senso proprio e paritario, né le è concesso di fare allusioni o, peggio, accuse esplicite. Se lei ritiene che io possa averla danneggiata in qualche modo, può tutelarsi legalmente, presentando una denuncia a Caltanissea. Se poi io dovessi ritenere d’esser stato calunniato, ovviamente, reagirei con una querela. Nella migliore delle ipotesi, e lo dico al condizionale, lei potrebbe oenere che non mi occupi più di quest’inchiesta, dove ha molte cose da chiarire, ma non creda che per lei possa cambiare qualcosa. Se ne occuperebbe un mio collega, e io resterei pur sempre a Palermo, in quest’ufficio. – Tuo ciò mi è perfeamente chiaro. el che forse lei non sa è che non può in alcun modo intimidirmi. – Come mai era a Palermo la sera in cui ammazzarono Oliveri? – Il compianto?
–… – Sono nata a Palermo, sono cresciuta qui e ho studiato in quest’università. Anche se ora abito a Roma, può immaginare quanto io sia legata alla mia cià. Torno, ogni tanto, e tra i miei amici c’era anche Francesco Oliveri. – Rapporti d’amicizia? – Sì, e anche professionali, di tanto in tanto. – Lei era una sua cliente? – Al contrario. Era lui ad essere un mio cliente. – Lei di cosa si occupa? – Interni. Arredamento e qualcosa in più. Guardo e sogno al posto di chi non sa o non vuole farlo, e gli vendo quel che mi piacerebbe tenere per me. – Si era occupata di casa sua? – No. Francesco aveva buon gusto a sufficienza. Si limitava a pagare quel che io compravo per lui: un tedoforo, una raccolta di stampe da linoleum degli anni Trenta, delle maioliche, delle lacche e un paio di vecchi mobili. Ho messo insieme anche un impianto stereofonico inglese degli anni Cinquanta, a valvole, acquistando le singole parti su ebay, in Europa e negli Stati Uniti; un pezzo, rarissimo, è arrivato anche dall’Australia. Begli oggei. Molto maschili. – E per i tedofori e i linoleum vi vedevate con regolarità per una o due volte il mese? Appuntamenti molto importanti, se Oliveri spariva e si faceva coprire dalla segretaria. – Sa cos’è un tedoforo? È un portatore di fiaccola, o uno schiavo che dà la luce. Non se ne trovano più molti, anche se di legno malamente dipinto. Le pare che non fosse importante? – E Oliveri spariva. – Dovrebbe chiederlo al compianto, il perché. Magari approfiava dei nostri appuntamenti per proseguire con altri incontri. – Le sembra fosse il tipo capace di meer su un paravento così complesso, e costoso, solo per tradire la moglie? – Cerco di non giudicare mai dalle apparenze. Se dovessi farlo, penserei male di tanta gente: vedrei ovunque psicotici, potenziali stupratori, assassini… Tradire la moglie, poi, non è un crimine. Non lascia tracce lombrosiane sul viso; può rivelare semmai una mancanza di tao, un
caraere indeciso, una profonda frustrazione, un’infantile aspirazione alla libertà. Chi lo sa? – La signorina Ruffini, la segretaria, più volte si recò in banca a prelevare del contante per l’avvocato, prima dei suoi appuntamenti. – Le ho già deo di avergli ceduto degli oggei. – Era un caso che la pagasse in contanti? – Erano dei rimborsi, in gran parte, non dei pagamenti. Sul perché, ripeto, dovrebbe chiederlo a lui. – La signorina Ruffini ha portato delle fotografie. – È un’oima notizia. – Aspei di vederle. Francesco alla ricezione del mio albergo, con gli occhiali scuri. Francesco nella cabina telefonica del mio albergo, con il cellulare all’orecchio. Francesco nell’ascensore del mio albergo. Francesco nella mia stanza. Francesco che mi scopa. E ancora, ancora, ancora. Foto senza luce e senza contrasto, senza grana: un mazzo di zoomate perfee, niente tremori, con auto-correore, alcune persino agli infrarossi. La segretaria ha scaato in lacrime decine di fotogrammi digitali del suo eroe mentre si dà da fare su una troia. No, niente investigatori privati. Me la immagino, con la sua sofisticata macchinea da spia, appostata dietro una colonna dell’Albergo Centro, o alla finestra dello studio, a luci spente, a rovistare con un sensibilissimo teleobieivo nella mia camera e a raccogliere le prove che un giorno avrebbero inchiodato il traditore alle sue responsabilità. – Posso ammeere che conoscerlo mi ha fao piacere. – Divertente. I soldi servivano solo per i suoi oggei? – Che cosa intende, signor pubblico ministero? – Solo quello che ho deo. – Non vorrei fraintendere. el che ha visto, ad ogni modo, non le appartiene, e non apparteneva neppure alla signorina Ruffini, e il fao che io fossi lontana dal luogo in cui fu ucciso l’avvocato Oliveri, nel momento esao in cui ciò accadeva, mi esclude dall’elenco dei possibili sospei di quel che voi avevate definito un omicidio a scopo di rapina. Ora, se potessi, vorrei andar via. – Io non credo che lei abbia ucciso Oliveri.
Vorrei approfiare della sua pausa per provocarlo – Brillante deduzione! – ma riprende subito. – Non escludo però che possa aiutarci a capire quel che è successo, magari chiarendo i rapporti che intraeneva con lui. – el che avevo dichiarato era la verità, anche se non tua la verità. Le fotografie le danno il quadro completo. Era capitato di incontrarci in una camera d’albergo. Niente di più banale e meno impegnativo per entrambi: io ho la mia vita, senza legami; lui aveva la sua, e legami molto solidi. Ho firmato una dichiarazione di due pagine, e ho chiesto a Bevacqua di mantenere il più assoluto riserbo. Non per me, ho deo, ma per la famiglia di Francesco, per lasciare alla moglie e ai figli un buon ricordo di lui. La faccia che ha fao non promeeva nulla di buono. Niente strea di mano, comunque, solo un saluto a distanza. Ho infilato la porta e ho rimesso gli occhiali. Mi è venuta voglia di fumare una sigarea, anche se ho smesso da quaro anni. – Com’è andata? – Bene, commissario, benissimo. Bevacqua è una persona squisita. – Intelligente, magari. L’avevo sentito definire in tanti modi. Squisito, mai. – Se vuole che le racconti qualcosa, mi porti via da qui.
Capitolo VII Cena a due a Mondello, in un ristorante que se llama «La Rosa di Alessandria». Il commissario accosta la sua alle guance della donna che ci accoglie materna all’ingresso e dell’uomo che serve ai tavoli (molto ben frequentati, a giudicare dalla cerimoniosità dei saluti che Paternò somministra). Nella cucina, aperta con una vetrata sulla sala, lavorano dei ragazzi; un paio di loro sono giapponesi. Alle pareti, dei ritagli di giornale, in italiano e in inglese: tra le targhe in oone e le recensioni, c’è una foto che ritrae i probabilmente marito e moglie e probabilmente felici. – Roberta e Alessandro sono tornati a Palermo da pochissimo, dopo vent’anni in giro per il mondo; per il loro ultimo ristorante, avevano scelto Mantova, ed era stato come aprire una nuova fabbrica d’auto sportive a Maranello. Ma la scommessa l’avevano vinta: vede i giornali, i premi? – Sono curiosa. – Posso consigliare? – Deve. – Una zuppa di fagioli e seppioline, per cominciare, e un bianco siciliano, lievissimo. Poi un tortino di patate e pecorino, e per il pesce non mi pronuncio. Scelga lei. Il dolce, quello è d’obbligo: una fea di torta al cioccolato e alla cannella, magari accompagnata da un buon Marsala. – Commissario, ha lavorato qui? Sta recitando il menu a memoria! – Lavorato no, cenato sì, spesso. Sul carrello refrigerato, si premura di spiegarmi l’Anfitrione, c’è un trancio di tonno appena arrivato da Favignana: ha il colore del sangue fresco. I giapponesi in cucina sono lì per il taglio rituale, samurai armati di preziosissimi coltelli in ceramica. Alla torta vorrei felicitarmi con l’autore. – Autore? – Dovrei dire cuoco? – No, no, autore va bene. Com’è andata oggi, a Palazzo di Giustizia? – Con Bevacqua? Se proprio vuol saperlo, è stato sgradevole, intimidatorio, arrogante. La segretaria innamorata gli ha portato delle
immagini piuosto intime, di me e Francesco, riprese da lei a distanza, con uno zoom, e al buio, con gli infrarossi: araverso la finestra dell’albergo, nella hall, ovunque. Niente di quel che voleva gli dicessi potrà aiutarlo a trovare l’assassino. Sempre che sia questo il vero obieivo di Bevacqua e non, invece, quello di liquidare il tuo come una faccenda di corna. – Non ci credo. Una segretaria che scaa delle fotografie nella hall con una microcamera o agli infrarossi? Le ha deo questo, Bevacqua? Senza meersi a ridere? Straordinario, sul serio. – Cosa c’è da ridere? – Stia aenta! È un uomo d’apparato, o per meglio dire di apparati, con relazioni che lei neanche immagina. Non potrebbe chiudere un caso simile se altri, ad un livello superiore, non fosse d’accordo. E tu, commissario? Stai aento, tu? Perché racconti queste cose ad una sconosciuta? Vorrei tenere gli occhi sul piao, troncare questa conversazione, cambiare argomento; d’improvviso, sento uno sguardo su di me, dal tavolo alla mia destra. Mi giro appena. La bionda triste veduta in aeroporto mi sorride, il capo molle sulla spalla: ha un fisico mascolino, ed è vestita di un bianco algido. Seduzione pura, senza scrupoli, malgrado l’uomo che le siede accanto: mentre il commissario è alla cassa (con la scusa di scegliere la grappa), chiedo alla giovane cameriera di portarle un biglieo, con due numeri: il mio prezzo e il mio cellulare. Il mare è negato alla vista da un’inferriata verde: ruggine smaltata, la stessa da un secolo a questa parte; indifferente ad ogni tentativo di eliminarla, la ruggine, la spunta sempre. Sulla spiaggia, spogliata delle cabine turchesi e dei cortili, ci sono un paio di falò affei da rachitismo. La consolazione è il gelato d’anguria e gelsi neri del Bareo. – esto ristorante è un mistero e lo è pure il fao che io continui a tornarci. Come si può accostare il Sublime al Miserabile, e farne un’esperienza irripetibile? – Non ho capito, commissario. – Commissario… Non mi piace questo «commissario»… Mi sento in estura. Se mi posso permeere… – Vorresti che ti chiamassi Giuliano. – Mi sembra tempo.
– E il Sublime? – Non te ne sei accorta? Cucina straordinaria e una sala fredda e senza gusto. Dov’è finito il tuo occhio esperto? – Penso che mangiar fuori sia come tradire la moglie: gola, peccato capitale, passione pura. Non importa che la camera d’albergo sia elegante. E se poi ti forzi a consumare in un boudoir, non è più un tradimento: è un piacere tuo cerebrale, onanistico si dice, no? Vorrei mordermi la lingua. Se le conversazioni avessero il PH dei deodoranti, la mia sarebbe acida e sconsigliata alle pelli secche, a quelle normali e a quelle grasse: alla gran parte degli esseri viventi, tranne che ai coccodrilli e agli altri animali dotati di scaglie o di un robusto carapace. Sono le undici e venti. Il messaggio SMS della dama bianca diceva «a mezzanoe e mezza mondello via della primavera 1», e io devo tornare in albergo e prendere un taxi che mi riporti qui. – Si è fao tardi per me. Sono stanca. – E che problema c’è? Torniamo di corsa. Se vuoi, meo pure la sirena. – Scusami, ma il viaggio, gli articoli dei giornali e quelle due ore passate da Bevacqua mi hanno messo in agitazione. – Domani non andrà meglio. I giornali faranno nome e cognome: «ecco la donna del mistero». Sono sicuro che conoscono già ogni parola della tua deposizione. – Grazie d’avermelo deo, anche se non mi aiuterà a prender sonno. Me lo aspeo, ad ogni modo. Mi auguro che, almeno, evitino di pubblicare le fotografie. – Che idea ti sei faa della vicenda? Perché l’hanno ammazzato, il tuo Francesco? – Mio era stato solo un paio di volte, e la sua morte non è dovuta ad una faccenda di donne, non avrebbe potuto esserlo: io ero la sua sola distrazione, non molto impegnativa per di più, e la moglie ne era all’oscuro. Francesco l’amava molto, e salvo che non l’abbia ammazzato io – cosa piuosto improbabile, visto che arrivavo da Roma in aeroplano –, si traa di qualcos’altro. Dico, quando ammazzano una persona per bene, e in questo modo da professionisti, o il tizio si è messo in una faccenda più grande di lui, magari senza sapere, senza capire, senza valutare i possibili rischi, e dunque bisognava eliminare un potenziale incomodo, o la sua morte è un colpo di sponda, e chi sa dove va a finire.
– Sei ferma alle teorie. Niente di più. – Niente di meno. – Ci vediamo prima che parti, domani? – Sì che ci vediamo. Buonanoe. Un doppio bacio sulle guance. A Palermo, meglio singolo, e a destra, tra uomo e donna. – Può chiamarmi un taxi, per favore? – dico al portiere, sempre più indifferente al mio strano andirivieni. Salgo su in camera per una doccia rapidissima. Mi rivesto in nero, dentro e fuori; dietro le orecchie e nell’incavo dei seni meo tre gocce di un profumo alla vaniglia comperato a Parigi, in place Vendôme. Non avevo idea di quante varietà d’essenze alla vaniglia esistessero, né del loro potere sugli ormoni. Lascio la borsa e prendo solo una pochee, per il cellulare e il portafogli. – Andiamo a Mondello, in via della Primavera, e se non le spiace, percorriamo la strada del mare, Porta Felice, la Cala, Fiera e Favorita. – Altro che turista, signora. Palermo, meglio di me la conosce. – E proprio per questo faccio la turista, perché la conosco. Sennò rimanevo. Si chiama Adèle, la bionda, e dimostra quarant’anni. Ne avrà cinquanta, nove decimi dei quali spesi in palestra, in piscina, sui campi da tennis. L’uomo che stava con lei alla «Rosa di Alessandria», ci aspea sul divano. – Non è il mio genere: detesto le ammucchiate domestiche. Adèle nemmeno mi risponde, stringe a sé il mio soprabito e la mia pochee, per sentirne il calore, l’odore, e li ripone su uno scheletro di cavallo in bronzo, come fosse un aaccapanni. Mi accompagna per mano fino al saloo: una decina di divani e poltrone in un reangolo bianco e illuminato a giorno, caldo e affascinante quanto la sala d’aesa di uno studio legale, pure se ornato di costoso design contemporaneo. C’è quasi tuo, in vetrina, e bene illuminato. Io finisco sul divano bianco di Le Corbusier. Lei sceglie la longue chair degli Eames, proprio di fronte a me, e quando tira su le gambe, mi accorgo che soo non porta nulla. Istinti elementari. Suo marito, credo che di suo marito si trai, vuol solo guardare; si ritira dopo neanche dieci minuti: a quel punto, ha già esaurito le poche ragioni che aveva per rimanere.
I seni di Adèle sono perfei, e così il naso, e i fianchi. – Hai un chirurgo plastico di prim’ordine – le dico, stronza. – Niente bisturi – dice, e la sua erre è una vi, che risuona delicatamente sul palato. – Solo del botox in viso, contro le rughe. Tuo naturale. Vero, è tuo naturale. I suoi seni, piccoli e ben disegnati, non sono di gomma, e quando le sfioro i fianchi sento una tensione muscolare autentica. Adèle mi sfiora, mi parla con gli occhi, vuole che mi occupi di lei. La sua bocca è fresca, la sua lingua sa d’anice; il respiro è intenso, cresce fino ad un fulmineo apice di piacere, poi si fa lungo, profondo. Le mie mani l’abbandonano, tocca a lei spogliarmi. La mia biancheria nera, inadeguata, finisce per terra, insieme al suo reggiseno da sedicenne, candido, castigato. Mi bacia piano, e con labbra leggerissime, sugli occhi, sulla bocca, sul collo, sui seni, sul ventre, arrestandosi per un solo istante nella muta contemplazione di quell’escrescenza che ancora ci accomuna, uomo e donna. Poi tocca a me, ancora; e a lei; fino a che un lampo non ci placa. – Vuoi un frullato? – dice lei, tonificata dalla doccia: fredda, senza dubbio. – Sì, grazie –. Mi sento come potrebbe sentirsi un arezzo da palestra animato dopo l’uso, una cyclee bagnata dal sudore della signora in riscaldamento, e ho voglia di una sigarea. – Se vuoi, puoi rimaneve qui stanoe. Abbiamo una camera degli ospiti, su al primo piano: è anche il mio studio. Eccolo, lo stereo B&O: sta soo la scala di legno e acciaio che porta su. La voce di Sarah Vaughan, Good Morning Heartache, roca e sentimentale, fa uno strano effeo: giusta come uno spruzzo di vernice rossa alle pareti, l’irrompere in casa di un gregge di capre dal giardino, me con lei. – Preferisco tornare in albergo. Parto domani, e devo sistemare qualcosa, prima. Lei torna dalla cucina con il frullato in mano, per me. Non mi ha neanche sentito. – È già tuo pronto: ti accompagno – dice, porgendomi il bicchiere. – Non ho nulla con me – rispondo, e mi pento subito della banalità. Bevo, raccolgo la mia roba e le vado dietro con gli occhi bassi di una scolarea al primo giorno di collegio. Adèle è la direrice. – Ti spiace se ti rimbocco le coperte?
– Vorrei anche il bacio della buonanoe –. Un lungo bacio, lungo almeno un’ora. Sono le sei del maino, e mi risveglio da un sonno di cemento. Cerco di non fare rumore, di non svegliare nessuno. Sulla scrivania, ci sono un vecchio telefono a disco, nero, in bachelite, ed una Leera 22; la macchina da scrivere è usata, un segno di vita, e in giro non c’è l’ombra di un computer. Chiamo un taxi: al numero uno di via della Primavera, ma non suoni il campanello, per favore, aspei fuori. Ora mi toccano una doccia bollente, una rapida simulazione d’efficienza, un biglieo di saluti. I miei soldi sono sul casseone, appoggiati sulla specchiera, così da sembrare il doppio: tre bigliei da cinquecento euro, ma potrebbero essere sei. – Volevi andartene così? – dice Adèle, luminosa nella sua tuta da ginnastica leggera, grigia e azzurra su una polo bianca. – Pensavo dormissi. – Mi sveglio presto di maina. – Torno a Roma. – Ci rivediamo? Torno anch’io a Roma, la prossima seimana. Ti chiamo. – Mi piacerebbe. Visto dall’alto, con le prime luci del maino, il salone è solo un reangolo imbiancato e riempito in frea: mancano le giuste simmetrie celesti, e quel po’ di estro che sa e racconta di inferno e vita quotidiana. Il giardino è una curatissima pietraia zen, con due soli di metallo e delle panchine di legno chiaro. Nel parcheggio coperto, una Porsche 911 d’annata e una motociclea di grossa cilindrata, una BMW. – Vado a Palermo, all’Albergo Centro. Prima, però, passiamo da Zurich. Il taxi si ferma sul marciapiedi proprio di fronte ad un passo carrabile. Compro i giornali all’edicola che dà sulla rotonda di Valdesi e guardo il mare: lo vedo arrabbiarsi, sollevarsi, infrangersi sulla riva; lo sento soffiare, urlare. L’aria è pungente. Respiro forte, abbracciandomi, accarezzandomi, per scaldarmi. Zurich è uno dei due bar lasciati a Palermo da un’antica e rispeabile dinastia di pasticcieri; è aperto per una ventina d’ore al giorno. – Una danese alle mele.
– Vuole anche un caè? – Due lunghi in una tazza da tè, per favore. Guardo i giornali e, ovviamente, sul «Corriere dell’Isola» c’è tuo; la fotografia, però, è una ripetizione: è quella della noe in piazza Rivoluzione. Peccato per i capolavori hard scaati dalla segretaria: già li vedevo, con le pecee di traverso sulle pudende, in cronaca e senza didascalie. DROGA E FESTINI. SVOLTA NELL’INCHIESTA OLIVERI Palermo – Emergono nuovi e sconvolgenti particolari sulla vita privata di Francesco Oliveri, l’avvocato ucciso alla Vucciria, a Palermo. Il suo nome non era sconosciuto alle forze dell’ordine, per via di uno scandalo, risalente a qualche anno fa. Oliveri, insieme ad altri professionisti e imprenditori, aveva preso parte ad una festa privata con cocaina nel corso della quale una ragazza di 22 anni era entrata in coma, a causa di un’overdose di alcool e stupefacenti. Ma c’è dell’altro: un primo esame autoptico avrebbe accertato la presenza di droga, cocaina probabilmente, nel corpo di Oliveri. È trapelato infine il nome della donna con la quale da tempo Oliveri s’incontrava… Hanno fao a pezzi quel poco che restava di Francesco. Me, invece, non mi hanno ancora svenduta: sono solo un’amante segreta, ed ora pubblica; pulla, ma non professionista. Il punto è quanto mi costerà questo casino. La storia finirà sui giornali di tua Italia – titoli in rosso, da sesso, soldi e sangue – e io avrò chiuso. Pensione anticipata. Poco male. Con la liquidazione comprerò un atollo tascabile, in un arcipelago vulcanico a poco prezzo, fascia middle class. Ficco i giornali in borsa e prima di risalire in taxi ripasso dall’edicola per comperare un paio di giochi da duecento pagine, due pocket rosso sangue, da leggere in frea. Lascio Mondello come l’ho già lasciata anni fa, come se fosse per sempre: guardo verso il mare e la spiaggia, il cuore va su e giù, con labbra e palpebre da pianto; l’addio si placa dinanzi alle porte dell’albergo, quando i vetri lustri e in penombra non rifleono che un ricordo lontano. Il motoscafo della guardia costiera stava risalendo il placido corso dell’Hudson senza alcuna frea, mentre il sole stendeva i suoi lunghi raggi sull’intricata vegetazione delle due rive, quando d’improvviso il maggiore Jack Wilkins, eroe a riposo di Grenada e Panama, colse un bagliore e fu l’ultima cosa che il suo turno d’esistenza, assegnatogli secondo un preciso piano dell’Eterno, considerò degna d’aenzione.
Le ricerche durarono per l’intera noe, dopo che l’allarme era stato lanciato, intorno alle 20, da una recluta che per trenta minuti aveva ininterroamente chiamato il maggiore al walkie-talkie. Il motoscafo si era arenato in una piccola insenatura, e del suo occupante, per alcune ore, non si era trovata alcuna traccia, se si ecceuano quaro o cinque litri di sangue sul fondo dell’imbarcazione, senza il quale difficilmente egli avrebbe potuto concedersi una nuotata, o una passeggiata a riva. La squadra omicidi venne allertata solo quando ciò fu giudicato opportuno, e giunse sul posto poco prima dell’alba. Le fotoeleriche erano ancora accese. Il tenente Helene Woolrich cercò di evitare un capannello di ufficiali e uomini in borghese dalle spalle larghe ma subito il fascio di una torcia accesa le sbarrò la strada. – Chi è lei? – Venga con me. Le presentazioni rivelarono un protocollo di militari, intelligence e federali, immaginato per un omicidio alla Casa Bianca. Il tenente ammutolì, e la sua totale assenza d’iniziativa fu sinceramente apprezzata, e giudicata un inequivocabile segno di patrioismo, di eccezionale maturità, benché, a loro insaputa, Helene fosse solo al primo incarico, dopo molte noi d’inutile veglia al comando; ora anche il maggiore Jack Wilkins la stava ammirando, dall’alto di un pino, al quale era stato appeso per i piedi, scuoiato e tirato su, e quando l’ultima stilla di sangue raggrumato le colpì la candida seta della camicia, per suggerirle «ci sono anch’io, tenente», Helene non disse nulla, e svenne senza un lamento. – Una caramella? – Ne prendo una all’anice, grazie. Poso il libro, Sangue nella palude, sul sedile accanto, e alzo lo sguardo. Avrà i suoi anni, l’hostess, ma non le pesano, sulla schiena: si muove e avanza come una diciannovenne al debuo in volo, con un’eleganza celestiale, da commedia hollywoodiana. Audrey Hepburn era al confronto una loatrice di sumo coi calli. Torno a casa e provo a riposare, ma non ci riesco, per quanto mi sforzi. Tengo gli occhi chiusi e provo a riacquistare un po’ di energia. Faccio così da sempre. Se la testa si fa pesante e i riflessi s’intorpidiscono, devo sedermi, distendermi, dormire per pochi minuti, respirando lentamente e
sospendendo ogni funzione vitale non necessaria. In quel piccolo altrove, mi accade pure di rimeere ordine nei miei pensieri, di portare rapidamente in salvo quel che affoga in una maionese di sinapsi. Basta così, mi dico, faccio qualcosa in casa, oppure esco. In cassaforte avrò ventimila euro; potrei depositarli, in una delle mie cassee di sicurezza: ne avrò una decina, in banche differenti, insieme ad un solo conto corrente. Meo le banconote in un fazzoleo e ripongo l’involto nel reggiseno, come mi ha insegnato mia nonna. In borsa, per ogni aesa, porto il diario del nonno e degli altri giochi da leggere. La strada è lunga, ma non mi dispiace una passeggiata. In via della Scrofa, dalle parti di una gasthaus tirolese, un furgoncino bleu s’affianca a me, e la coppia di mezz’età che era a tre o quaro passi di distanza, improvvisamente mi afferra per le braccia. Sento una garza bagnata sul naso, l’odore dolciastro dell’etere, poi più nulla.
Capitolo VIII Credo di esser rimasta priva di sensi per mezz’ora o poco più. Ho dei lividi bluastri sui polsi e gli avambracci, lasciati dalle mani sconosciute che mi hanno strea con forza smisurata. Non ci sono finestre, in questa stanza galera. Sono distesa su un divano leo giallo limone, e il poco pieno di questo vuoto infinito s’addensa in due poltrone in tessuto chiaro e una libreria aperta, bianca, che espone una trentina di libri economici, dei fumei e una vecchia edizione dei indici. Cerco i soldi nel reggiseno, nelle tasche, nella borsa che qualcuno mi ha lasciato accanto, ma non ho più una lira; sono spariti anche i documenti. Mi hanno anestetizzata e sequestrata, e tuo questo – etere, furgoncino e un covo da manuale – l’hanno architeato per quanto? Ventimila euro? Vogliono dell’altro denaro? Un riscao? Una donna, me ne accorgo solo ora, mi osserva con uno sguardo che potrebbe sembrare dolce, dal taglio nel buio di una porta socchiusa. Non è giovane, avrà una cinquantina d’anni, ed è piuosto esile, e bassa di statura. – Spero stia bene. Abbiamo usato dell’anestetico. I suoi effei spariranno presto. Le chiedo scusa per le maniere brusche di un nostro uomo: ho visto che le ha procurato qualche livido, ma non è stato intenzionale. Nella frea delle scuse, scivola su un paio di accenti, scagliandoli sulle ultime sillabe. – Cosa volete da me? – Nel dirlo, la riconosco: è la donna di mezz’età che, con un uomo al braccio, mi tampinava in via della Scrofa. – Ci sarà tempo, signora, per parlarne. Intanto, mi faccia sapere se desidera qualcosa, se ha bisogno di un conforto particolare. Nella frea dei preparativi, stamani, potremmo aver dimenticato di prendere qualcosa. Mi porge una valigia, la mia valigia. Mi alzo di scao e la geo sul divano, spalancandola: perfeamente ordinati, vestiti, biancheria e
borsea da bagno; c’è persino una fotografia con i nonni alla quale sono molto affezionata. Sono dei professionisti: avranno avuto meno di dieci minuti per entrare in casa dopo la mia uscita, bloccare l’allarme, impedendo che il combinatore telefonico facesse squillare il mio cellulare, trovare una valigia e rifleere su cosa meerci dentro, forse per cercar qualcosa di prezioso da portar via, e infine, per uscire, immagino senza lasciare alcuna traccia. Dieci minuti dopo la disaivazione, se non si va via da casa, o non si compone un certo numero a quaro cifre sul quadrante del telefono della cucina, l’allarme sonar si reinserisce silenziosamente, e al primo movimento scaa una chiamata al 113. La donna certamente capisce quel che sto pensando, intuisce i miei interrogativi, e la mia paura, perché mi guarda con un’espressione rassicurante, ma senza esagerare, per non correre il rischio di mortificarmi. – Chiuderò a chiave la porta che sta in fondo al corridoio, uscendo. i fuori c’è il bagno. Tra poco tornerò a trovarla, per la colazione. – La colazione? Che ora è? Pensavo d’aver dormito per una mezz’ora, al massimo. – È mezzogiorno. Stanoe ha riposato così bene… – Dove siamo? – chiedo, e mi riscopro Alice in fondo al pozzo. – Nel luogo più tranquillo del mondo, dove non può accadere nulla. Con noi è al sicuro. Il mondo là fuori si è fao molto pericoloso, per lei. – Di cosa sta parlando? – Noi siamo dei medici. Cureremo il male e lei sarà libera di tornare a casa. – Volete dei soldi? – La signora ha già pagato. Basta così. Faccio come se non fosse successo nulla. Non so cosa pensare, tranne che questa cosa ha a che fare con Francesco, dev’essere così. I soldi li hanno presi, ventimila euro, ma non può essere una questione di soldi, altrimenti avrebbero preso la mia collana. Vado in bagno, faccio una doccia, e mi rivesto da capo a piedi. Devo mantenere la calma. Prendo il diario dalla mia borsa – panciuta ed onnivora – e inizio a leggere. Orano – 27 maggio 1941
Ci hanno assicurato che lavoreremo. È una buona notizia. Orano – 31 maggio 1941 È arrivato un cappellano d’origine irlandese, caolico. È piuosto anziano, e ripartirà presto, per tornare a casa. Ha celebrato la messa dinanzi all’edificio del comando. Il suo latino è duro come la pietra e il pelo è rosso come polpa d’anguria. Orano – 4 maggio 1941 Stamani, al contrappello di baracca, Kepì ci ha chiesto cosa sapessimo fare. Sono venuti fuori dei giardinieri, per il campo ufficiali, dei muratori, degli imbianchini, dei falegnami, dei meccanici, dei maniscalchi. Ci sono anche tre camerieri. Ognuno ha trovato cosa fare. Franceschi è in pianta stabile in infermeria. È stato curato e ha chiesto di lavorare lì. L’hanno accontentato, anche se il suo braccio sinistro è perduto. Prima di andarsene, Kepì ha chiesto se ci fosse un cuoco. Non ha risposto nessuno. Per dieci secondi solo silenzio. Non so cosa mi ha preso, ma ho alzato la mano e ad alta voce ho deo che io sì che sono un cuoco, un cuoco, un cuoco! Orano – 5 giugno 1941 Inizierò domani. Non distinguo fra una palea e uno stuzzicadenti, mi cacceranno subito! Dovrei ridere, io che quel racconto l’ho sentito mille volte: gli occhi di mio nonno s’inumidivano, di nostalgia e fierezza; dovrei ridere, ma queste righe mi fanno male, forse perché sono in gabbia anch’io. Sento sbaere una porta molto pesante, probabilmente blindata: il colpo fa tremare tua la casa, e le scosse mi fanno sobbalzare; dev’esser stata la porta d’ingresso, aperta e chiusa molto rapidamente. alcuno è appena andato via. Mi passano un vassoio di cartone, con due involucri ancora tiepidi: pollo frio e patatine. Voglio godermelo, quest’intervallo, o questa fine.
Mi stendo sul divano leo, e tiro fuori dalla mia borsa baule griffata Mary Poppins un libro ingiallito, dai bordi macchiati di grasso e polvere, per aver giaciuto forse in prossimità d’una cucina, di un camino, di una stufa a legna, di un incendio: Il Cancelliere, si chiama; lo squaderno tra me e il vassoio del pranzo. Si udivano ancora le ciaùle risuonare per le strade e la piazzea coi platani e le bordure di vite, e il sole, quand’erano le undici, come per una forma di rispeo, s’infiltrava per le stecche persiane a disegnare sul pavimento una raggiera; il vento, per la casa, sciroccava lieto, fino alla sala da pranzo, che io ripulivo e apparecchiavo come il primo giorno, di tuo punto, in un Gloria di fiandre, porcellane e argenti, e una brocca di cristallo col manico a treccione e lo stomaco per il ghiaccio. Il tempo, in quell’estate del 1904, era un succedersi d’albe repentine e tramonti che se ne calavano grano a grano, come clessidre, e il giorno si stendeva placido e regale, solleticato dalle voci dei venditori, i quali, giunti che erano nei pressi di casa Ventura, flautavano i loro richiami accordandoli al sentimento dell’ora presta: alle oo era già il tocco del pesce, e dunque risuonava quello dei frui e delle verdure, e dell’acqua e del ghiaccio che veniva dall’Etna. Il pane del frumento nostro, di Contessa, si era già gonfiato all’inferneo del forno maiolicato delle cucine di soo, e ora riposava soo un telo di canapa, alleato in un cesto di vimini assieme alle noci e alle mandorle, in un matrimonio di vapori ed essenze che immancabilmente si scioglieva tra le mani nelle vigilie di pranzo, schermaglie di solito disobbedienti alle buone maniere, insofferenti all’aesa puntata del fumisterio delle penne rigate, colate del rosso e del nero del pomodoro e delle melanzane tunisine, appena abbiancate di ricoa, e lusingate dal basilico e dal pepe nero pestato al mortaio. Si presentava a mezzogiorno, il Cancelliere Ventura, ed era per me un Lord Cancelliere, o pur sempre un Barone, degno per caraere e regalità di sedere alla Camera dei Pari e, se ve ne fosse stata una, avrei pensato che di lì veniva, al termine di un Parlamento, seduto alla presenza di un Re per urgenti comunicazioni su quistioni di Stato. Non posso dire che sorridesse, ma tra l’albume e il castano della veduta stava sempre un pensiero lievissimo che di rimando ammorbidiva i muscoli
del viso e fleeva l’amaro del giorno in una malvasia di beldire sulle meraviglie della maina e di racconti sui fai quotidiani e sui codicilli della Real Pretura e del suo Giudice, che indagatore avrebbe dovuto esser per mestiere e invece non era, privo financo del succo del sospeo, se non per la gran quantità di carta che incredibilmente s’inceneriva in ai e fascicoli e convocazioni e sentenze. Malvasia appunto versava in una chicchera azulea e centellinava a sorso a sorso, tenendola sul palato per ricavarne l’affresco di Salina, l’Isola di molte estati, del casale di Malfa lasciato al soprastante, dopo le febbri di Laura, e del mare che dall’alto pareva continuare fino al bordo della terra, senz’altro confine che il cielo. Il pane, dunque, e le noci e le mandorle, e la conca fumante, e il vino e l’acqua, il formaggio di vaccina e il cantalupo, e i racconti, della signora Majorana in abito cremisi che l’aveva salutato con quell’aria di rimprovero per il suo negarsi, ancora, ché di nero al braccio s’era persa la ragione, e del Procuratore Generale del Re, Sua Eccellenza Parisi, il quale si era complimentato, soovoce, per l’intuizione miracolosa che sei mesi dopo l’omicidio del Reverendo Martello aveva condoo ai ferri il Ragioniere Jacona, in procinto di espatriare. Aspeano qualcuno, e nel fraempo lasciano che il mio equilibrio vada in frantumi; mi stanno frollando per bene, a bagno nel silenzio, per intenerirmi quel tanto che ha deciso lo Chef. Alzo una mano fino all’interruore, spengo e tiro su la coperta. Torno a dormire: così come sono, il libro soo il cuscino. Ad uccidere Francesco, potrebbe esser stata la segretaria, penso, o la moglie, e in questo caso potrebbe esser mia, la colpa d’aver dato fuoco alle micce. Dormo di un sonno estenuato, fragilissimo, anche se i miei ospiti evitano ogni rumore. Mi risveglia un clacson. Dieci minuti dopo, gli occhi ancora ostinatamente chiusi, sento bussare alla porta. ando apro, non c’è nessuno. Per terra, un saccheo di carta: contiene dell’acqua, del caè e due brioche. Era stato ritrovato, il prete, don Francesco Martello, vestito di giacca e di cravaa, scure d’antracite, camicia bianca e una penna nel taschino, di lacca
nera e argento, come notaro e non reverendo, al maino di San Silvestro, dalla perpetua in canonica, disteso lungo a pancia in su, a due passi dalle vestimenta oro e vermiglio della Messa di Natale, piegate con cura, la gruccia appesa ad un chiodo, e l’armuar vuoto. Morto era morto da molte ore, ché il braccio sinistro, piegato al di soo del fianco, s’era irrigidito come ramo secco, e i becchini del Cimitero di Santa Maria s’erano industriati di non mutarne posizione, per non frantumarlo: diceva il medico forense che non v’era segno di loa, e il colpo era giunto preciso e non frenato al centro esao della fronte, così neo da spaccargli il cranio. C’era una pistola in Canonica, calibro 32, manico di legno e canna lunga, residuo di Sedan. Mimma Arnodio, la perpetua, aveva indicato al Capitano dove trovarla: nel gran casseo di una consolle del corridoio, avvolta in un panno bleu intriso d’olio e di grasso, le due scatole di proieili da un lato. Improvvisamente, devono esser le prime ore del pomeriggio, sento un rumore, un’esplosione soffocata, seguita da una vibrazione metallica, tre bang, alcune esclamazioni che non riesco a comprendere. Ecco, ci sono dei colpi secchi; avverto dei passi, in tue le direzioni, ma fanno con calma, ora, e sembra che trascinino qualcosa. Stanno aprendo la porta del corridoio, e la mia: compare un tizio corpulento con la calzamaglia nera e una fondina piazzata di traverso, all’altezza dello sterno, che contiene una pistola più grande del normale. Non dice una parola, mentre si piazza sull’aenti su un lato. Capisco che devo alzarmi e andar via, con i bagagli. Meo via il diario, e il libro, e passo davanti a quell’uomo. In fondo al corridoio, c’è un gran fumo, e le luci sembrano spente: è una sala con un paio di divani ed un tavolo tondo simile ad un fungo bianco. Nessuna traccia della donna che mi aveva dato il benvenuto al risveglio. Sul tavolo, ci sono un paio di lampade accese, ad illuminare un computer portatile e una fotocamera digitale: un uomo con la calzamaglia sulla testa li infila con aenzione in una borsa. C’è un terzo uomo, in ginocchio, e come i suoi compagni indossa dei guanti neri: sta ripulendo accuratamente per terra, con una pezza in una mano e una boccea scura nell’altra. Da un’altra borsa, ai miei piedi, emergono dei giornali: riconosco quello in cima, «Le Figaro». L’uomo che mi conduce all’uscita per un braccio, ora mi fa frea.
– Avanti avanti, non c’è tempo. Siamo in un seminterrato, e le scale portano direamente al garage soerraneo. Salgo sulla seconda automobile, mentre la prima parte silenziosamente: due fuoristrada, i vetri oscurati. Andiamo avanti per almeno venti minuti, forse di più. – Dimentichi quel che ha visto. alcuno ha commesso un errore, prendendola, e noi abbiamo rimediato. Non denunci nulla, o i guai ricominceranno. Il Seimo Cavalleggeri, venuto a salvarmi, mi lascia con i bagagli e una busta da leere in mano alla stazione dei taxi, in piazza Buenos Aires. La tensione che mi aveva sostenuto finora, mi abbandona, e quasi mi spengo. Ho paura; non dico nulla, non devo farlo, né pensare a quel che è accaduto in quella casa, a quanti ne hanno ammazzati. ando m’illudo d’aver chiuso la porta sulla cantina dei ricordi e degli interrogativi, però, il serpente del dubbio si riaffaccia. Tre colpi… Spingo ancora sulla porta della memoria, con tuo il mio peso: devo tenerla chiusa, cancellare questi due giorni; meglio, tua la seimana, come se niente fosse accaduto. Tre colpi di pistola, però, possono equivalere a tre obieivi, uno dei quali, per forza, dev’essere quella donna. Chi erano, e chi li ha ammazzati? All’arrivo, mi stanno già aspeando. Vedo due fari accesi. Devono aver capito che non avrei dimenticato, e sono tornati a prendermi. Scendono da una volante, parcheggiata proprio di fronte al bar, e s’avvicinano al mio Bologna 13. Uno dei due polizioi è infastidito. Stava per finire una laina di qualcosa. – Buonasera. È lei la signora Serianni Lorenza, residente al numero civico sei di vicolo della Campanella? – Davvero una vigilanza discreta. – Sono io. Mi dica. – Dobbiamo notificarle un provvedimento di accompagnamento forzato. – Accompagnamento dove? – In tribunale. Lei avrà ricevuto un invito a presentarsi alla Procura, e non l’ha rispeato. Ora dobbiamo trasferirla a Palermo. Le servono dei vestiti? Se vuole, possiamo salire a casa con lei. – Tui gentili, con me, oggi, ma non serve. Ho già i bagagli.
Il viaggio lo pago io, naturalmente. Offro anche il caè, alla mia scorta, al bar di Fiumicino. Un polizioo gradisce una Coca light. In albergo, a Palermo, montano una guardia discreta nella hall. L’indomani maina, come prescrio, mi accompagnano al palazzo di marmo. I loro occhi, me ne accorgo solo adesso, hanno perso le braci, come accade di frequente qui in Sicilia, per quelle offese che sedimentano, e mutano le fiere in animali da macello. – Ci rivediamo, finalmente. – Non mi ero accorta fosse passato tanto tempo. – Signora Serianni, mi ha costreo lei a chiedere un provvedimento urgente. Si renderà conto che non potevo fare altrimenti. Lei non mi ha deo nulla. Di Oliveri, dei vostri rapporti sentimentali e di quelli economici, se è lecito distinguerli: del suo lavoro, insomma. Ricominciamo daccapo, va bene? – Ricominciamo, ma le dico subito che finiremo dove abbiamo finito l’altra volta. – No, non mi sono spiegato. Noi non abbiamo ancora cominciato, in realtà. Ci riproviamo. Le spiace se sentiamo qualcosa, prima? – Un po’ di musica? – Meglio, signora, meglio. Bevacqua si gira sulla sedia e preme un tasto su un radio-registratore alle sue spalle, colorato, da divisione marketing. «Penso che dovremmo vederci», dice la voce, un po’ metallica. «Ho due ore. Ma potrei averne anche tre». «Dipende», rispondo io, nel radioregistratore. «Da che cosa?». Era la prima volta, per Francesco. «Non so se te lo puoi permeere». «Di questo non mi preoccupo». Bevacqua va avanti, fino alla fine. «Cambio di programma. Appuntamento alle undici meno un quarto, al Genio. Non vedo l’ora. Se hai problemi, chiama». L’ultimo messaggio di Francesco. – este interceazioni sono andate avanti per tre mesi, signora Serianni. Non molto edificanti, certo; istruive, in compenso. – Per lei, senz’altro. – Istruive, per farsi un’idea chiara delle sue molteplici aività, con l’avvocato Oliveri e gli altri suoi, come dire, commienti. – C’è stato un provvedimento giudiziario, signor pubblico ministero? Perché i miei telefoni erano soo controllo?
– Non faccia l’ingenua. – Chi mi ha interceata? – Nostre struure. – Se ci sono dei reati, proceda, altrimenti mi lasci andare. – Signora, lei è indagata, ufficialmente, e da questo momento è sooposta a fermo giudiziario, per quel che fa e per quel che dice o che non dice. Potrebbe continuare a nasconderci qualcosa, confondere le carte, o semplicemente andar via, scappare. Dobbiamo tenerla con noi, finché tuo non sarà chiaro. La invito a nominare un avvocato che la rappresenti. – Gentilissimo. Permee una telefonata? – A Giuliano, naturalmente. – Dal telefono della segreteria, se non le spiace. Arrivederla. Le camere di sicurezza sono tue occupate. Non resta che il carcere. Mi fanno la cortesia di accompagnarmi anche questa volta, in auto, e per farmi piacere, fanno suonare la sirena, sicché, quando arriviamo al nuovo rifugio per peccatori e peccatrici sorto ai margini della cià, gli uomini di guardia spalancano il ponte levatoio, quasi io fossi una principessa, e quello il mio castello. La cella alla quale vengo condoa, dopo il rito dell’identificazione e della perquisizione, un paio di flessioni con le mutande in bocca, è una cella liscia, con un leo e una sfoglia di materasso, e in cima un bel cubo coperta lenzuola cuscino. È la mia prima volta in carcere; da detenuta, intendo. esta fogna l’avevo visitata anni fa, durante una messa aperta a giornalisti e telecamere. Le detenute viste di spalle, io all’ultima fila; loro vestite comunemente e tra loro amichevoli; noi intimoriti, privi di grazia. Un inferno ministeriale, ci pareva, organizzato, preordinato: i colori, l’aria, le passeggiate, il cibo. Ho fame. Provo a mangiare ma la carne è di plastica e le verdure si sono sciolte in un budino; il pane è gommoso, coo in un forno elerico sterminato, in grado di accogliere milioni di panini, per tue le carceri del mondo. Dormo benissimo, anche se a digiuno. Mi sveglio per l’ispezione pomeridiana, la luce al neon che dilaga sul viso: oltre le sbarre, intravedo un’occhiata priva di significato. Sono solo una cautelare. La secondina non sa nulla di me, che sono una puana, ad esempio, o che mi trovo qui perché uno dei miei dodici clienti è stato ammazzato a colpi di pistola. Mi tengono qui perché non parlo. Ero in aeroplano quando Francesco è stato
ucciso, e perché avrei dovuto ucciderlo? asi non lo conoscevo. Non avevamo mai discusso del suo lavoro, o della sua vita, non oltre un certo limite. Una questione di principio, per me. Se il pranzo era disgustoso, la cena che servono alle sei resta lì, in un dialogo muto con lo sgabello sul quale è poggiata. Dopo l’annuncio – «minestraaaa» –, nemmeno mi alzo dal leo. Tengo gli occhi chiusi: non sono mai riuscita a fissare il soffio, per saltare il tempo. Mi assopisco, e il sogno mi porta in una vecchia biblioteca, a leggere le pagine ingiallite di un pesante registro, nel quale sono annotati dei pensieri spaventosi, sfuggiti al vaglio della ragione. Ritrovo un’antica sensazione di smarrimento; è ancora una volta come se avessi perso l’innocenza, e non riuscissi a fermare le mie gambe, che insistono per sollevarsi dal pagliericcio e condurmi alla punizione, all’umiliazione. Sono stata chiamata a pagare una colpa dimenticata; nell’incubo, l’avrò riveduta. Ora non ricordo altro. È un viaggio così faticoso, sulla faccia buia della luna, che al ritorno non serbiamo memoria di nulla. Ad alcuni è concesso d’osservare, a pochissimi di portar via un ricordo sfocato. Non è ammesso di cacciar di frodo, in quella riserva. La coperta forma un vortice sul mio viso, dal centro del quale osservo il mondo che sta al di là della porta di ferro, oltre lo sportellino aperto ad altezza d’ispezione, nella luce pallida del corridoio, e così come mi accadeva da piccola, mi lascio araversare da ombre e chiacchiere, rinunciando per un poco alla cecità e alla sordità del sonno, e affinando i sensi. Claustrofilìa. Al maino, una secondina di trent’anni mi dice quasi gentilmente che se voglio posso andare nello spazio comune. «Se vuoi», dice. Allora scelgo, e vado. Trovo detenute d’ogni età. Facce incaivite, incastrate su corpi incuoiati e immobili sulle sedie, le braccia distese su tavoli deserti, senz’altri ospiti. esto grande salone, osceno come una palestra scrostata o il set di alcuno volò sul nido del Cuculo, dev’esser nato di recente, dalla demolizione dei tramezzi originari, poiché i colori sono differenti, per le singolari qualità dello sporco, e il suo svolgimento è a S: può darsi che gli
architei carcerari abbiano dovuto girare intorno ad una stanza segreta, per evitarla. Dei suoni arrivano dal fondo, ed è una trama allegra, di fili luminosi, di voci che sembrano appartenere a dei bambini. Fatico a riconoscere le madri, tra quelle donne in circolo, per terra, e al centro, si trovano davvero dei bambini; una dei tre, di non più di due anni, ruota su se stessa, tenendo sollevato un lembo del suo vestitino, orgogliosa della sua sfilata, al termine della quale tue l’applaudono. Una donna mi fa segno di sedere con loro, e un’altra, tunisina forse, mi fa spazio; ha gli avambracci sfregiati con metodo, piccoli tagli da due o tre centimetri, paralleli: autolesionismo, suppongo (la strada che conduce al suicidio è lunga e sempre sgombra); tagli vecchi, però, e il suo volto è sereno. È il mondo che sta fuori di noi, lasciandoci nel nulla, o siamo noi che, dal nulla che sta fuori, ci siamo prese una vacanza?
Capitolo IX – Serianni! Seeriaaanniii! – Eccomi. – Prendi la tua roba. Te ne vai. Sbrigati. Nel corridoio bianco al neon, accanto allo sportello bocca di lupo per la consegna degli effei personali, tra sbarre medioevali e fondali da caserma dipinti e ridipinti, sbavati e sbeccati, c’è il commissario Paternò. – Lorenza, mi dispiace. – Grazie, commissario, anche per il tuo amico avvocato: immagino abbia lavorato bene – dico, prendendo la mia valigia e le buste di carta da pane con la borsea, l’orologio e la collana. – Il Gip non ha convalidato il fermo. Mancavano i presupposti elementari, ha deo all’avvocato. Ti posso aiutare? – Lo stai facendo, nonostante le mie bugie. – Andiamo fuori, velocemente. Non mi ci trovo, qui dentro, mai trovato, nemmeno quando ci lavoravo. Ero un dirigente dell’Amministrazione carceraria, gran bella carriera. – C’era qualcosa che non mi piaceva in te. esturino e magari secondino. – Ho mollato dopo una rivolta; anzi, dopo il doporivolta. Ero a Badu e’ Carros, ricordi quel che successe? I giornali ne parlarono a lungo. Diedi le dimissioni, per tre volte. Continuavano a rifiutarle. Ho insistito. Le persone valgono di più di quel che fanno. Giuliano apre la portiera dell’auto e resta immobile, mentre io mi seggo; richiude con forza e siede al mio fianco impeccabile come uno chauffeur. – Lo stai dicendo a me o all’inquisita per puanesimo? – No, è che alcuni valgono meno. – Vivo interceata da mesi. Rispondimi: cosa ho fao di grave, d’irreparabile, per la sicurezza dello Stato? – Non è quel che fai: è l’inciampo che conta, il passaggio casuale per un terreno a rischio, soo aenta vigilanza.
– Così può toccare a chiunque. – Interceano migliaia di persone, milioni. C’era forse qualche scrupolo, prima; ora entrano in casa tua: cimici, nanocamere, programmi ombra nel tuo computer, per spiare ciò che pensi, fai, dici, scrivi. Ascoltano e registrano centinaia di migliaia di telefonate: quelle tra le mogli e gli amichei le trascrivono su appositi fascicoli da convalidare all’occorrenza. ando è il momento giusto, scaano le azioni di controinformazione, le campagne sui giornali amici e gli scandali gonfiabili, che crescono e si ritirano, se occorre. elli del Sifar erano degli imbecilli, al confronto con i nuovi imprenditori del ricao: esistono mille agenzie, oggi, che puntano sui loro cavalli e vincono regolarmente, guadagnandoci parecchio. – Loe intestine? – No, anche se di servizi ce ne sono tanti, e in reciproco conflio: tuo avviene per lo più al di fuori di essi, ed è il ricao elevato a business. I servizi, per come vanno le cose, sono fai di sinceri idealisti, al confronto. – Tu parli di soldi, e io di George Orwell: quel che accade è visto registrato analizzato dai funzionari di un’immensa macchina partito. – Se è il grande fratello, è solo quello televisivo: tui spuanati, tui eroi. Contrai pubblicitari, comparsate in tv. Può darsi ti stia capitando addosso una fortuna: soldi, fotografie e copertine, tipo Heidi Fleiss. – Me ne sto accorgendo. Non sto più nella pelle, dalla contentezza. – A qualcuno è andata peggio. Hanno ammazzato un’altra persona, in piazza Rivoluzione, in un bivani con balconata sul Genio. – Gli hanno sparato? – Gli hanno infilato la canna tra i denti, rompendogliene quaro, e hanno fao fuoco. – Dev’entrarci con Francesco! È così? – Due ore prima di morire, il candidato cadavere aveva raccontato ad Imburgia di un tizio in nero, casco e motociclea, che la noe dell’omicidio era rimasto fermo, a lungo, in un angolo poco illuminato della piazza: fino all’arrivo di un altro uomo, Oliveri. Tra i due, gli era sembrato vi fosse stata una discussione ravvicinata: stavano litigando, disse, finché Oliveri non s’inginocchiò; il motociclista s’allontanò – dall’altra parte della piazza s’erano affacciati dei ragazzini – ma tornò poco dopo. i si ferma il racconto del testimone: il nostro amico giurò che all’omicidio non aveva assistito, che si era allontanato dalla finestra, pensando ad una
lite senza importanza. Non dica niente, si raccomandò con Imburgia, il quale, per essere precisi, non ne parlò con nessuno, tranne che con me. – Per telefono? – Lo so anch’io com’è andata. Era una linea affollata. – Però l’avevi trovato il tuo benedeo silenzio, commissario –. Vorrei una sigarea. – Ora è definitivo, il silenzio. – Lasciami in albergo, ti prego. Mi piacerebbe una noe normale. – Passo da te domaina. Cena fredda in camera. Formaggi, frua, e lae. Niente sonno, anche le pecore hanno smesso di saltare la staccionata. Trascorro incosciente da un indolenzimento ad un altro, sacrifico le braccia, piegandole sul cuscino e poggiandoci la testa; provo supina, sulla pancia, con e senza le lenzuola, apro la finestra e raffreddo la stanza, mi raggomitolo soo il coprileo. Poi cedo, e chiamo la portineria. – Una doppia camomilla, per favore. Bollente. Prima di tornare a Roma, devo fare una cosa – devo, assolutamente! – ma i freni non rispondono, ed io continuo a painare sull’asfalto: ci penso fino alle sei del maino. Infine, quando crollo, esausta, torna il mio sogno, per rassicurarmi, e ricordarmi che non sto più in un covo di sequestratori, in mezzo ad una sparatoria, o in un carcere. L’illusione dura un aimo, e il sogno torna ad essere quel che è da molte noi: insieme a Francesco, però, c’è un altro morto ammazzato, e c’è un esercito d’omini neri. Alle dieci e trenta, squilla il telefono, e so già che è Giuliano. Ho bisogno di cinque minuti, gli dico. Ce ne meo quindici, invece, per dare stucco e colore alle occhiaie, profonde, tendenti al marron. Scendo entusiasta dell’affresco, pollice e indice slogati dai pennelli. – Che cosa è successo? Hai degli occhi… – Dovresti provare a distrarti ogni tanto, Giuliano, buongiorno. Spero tu abbia dormito bene. – Io sì. Tu che vuoi fare? Ho tre giorni a disposizione. – Non so se basteranno. Il mio Pronto Soccorso ha tre vetrine su via Libertà, e qui devo liberarmi di quel che ho indossato in galera. Guardo incuriosita la commessa, come fossi al cinema, o dietro un falso specchio. Lei parla, mi osserva, prova ad indovinare, indicando un capo, sorride nell’aesa di una risposta, poi, per
niente delusa, riprende fiato e, senza corde né rampini, s’arrampica sul suo ghiacciaio personale: lei è di gusti semplici – dice – ma ama moltissimo il rosso, che poi serve a mostrare la propria forza e ad indurre il prossimo alla ragione; insomma, potrebbe pure essere una leonessa, anche se appare un po’ timida, e se le va, quest’abitino con le bretelle reversibili e un solo boone a mezz’altezza, sappia che solo lei può portarlo, con il suo fisico, così prepotente… Insiste. Manca poco che citi Desmond Morris, e le rotondità come elemento d’arazione per il primate. A Paternò, partono la mascella e un po’ di bava. È ipnotizzato. Pago e lo trascino via, ma l’incontro con una venditrice di reili e mammiferi ridoi a calzature non va meglio: ha occhi azzurri e affilati, l’imbalsamatrice, e parla soovoce; ascolta, vibrando imperceibilmente, e traduce in scarpe i tuoi desideri. Ultima tappa, un’agenzia di viaggi, posta dal Destino al portoncino accanto: due bigliei per Roma, con l’ultimo volo di stasera. Sosta tecnica ad un tavolino per due. Il cameriere del Caè dei Ficus resta fermo ad un metro di distanza, aspeando il via libera, e solo per questo, si assicura una mancia da record. Non ci sono altri Caè, in cià, morti insieme al Gaopardo, ai suoi manoscrii e alle sue granite: solo dei bar, ricostruzioni di cartapesta, cartoline sbiadite. – Non sono neanche andata al suo funerale. – La galera è un legiimo impedimento, mi pare; e in ogni caso, nessuno te l’avrebbe rimproverato. – ando mai si è visto che una puana vada al funerale del cliente! – Non intendevo questo. Volevo solo rassicurarti. – Uscirò massacrata, da questa storia; e con me, quel che rimane di Francesco, la sua famiglia… Vorrei parlare con sua moglie. Non perde un aimo, Giuliano: carica il telefono e spara. – Salvo, sono il tormento e l’estasi: l’hai visto il film? –… – Un’enciclopedia, sei! Bravo, veramente! Che ti senti, in un quiz? Ascolta, Mike Bongiorno, prendi l’indirizzo della vedova Oliveri e mi richiami, che un giorno te le faccio io quaro domande serie. –… – elle sui film che ti piacciono veramente: ecco, quelli, proprio. Spicciati, ti ho salutato.
Ripiega il cellulare e con calma se lo rimee in tasca. – Se dici che devi andare, andiamo. Vuol dire che mi meerò nei casini. – E l’indirizzo? – Arriva tra un quarto d’ora. Il tempo di prendere qualche cosa, seduti, al Caè. Il commissario è una matrioska vivente, un caraere dentro un altro dentro un altro e un altro ancora, capace per fortuna sua di accorgersi che ci sono tante facce quante stelle nel firmamento. Il cameriere è ancora lì, fermo come un palo. – Chiedi alla signorina. Io prendo un bicchiere d’acqua. Casto e puro. – Un caè non lo vuole, doore? Sicuro? – La verità è che non possiamo essere sicuri di niente. ando chiami a casa e dici sono papà, che ti rispondono? ale papà? Il palo ride, e si capisce che non se la prende. – Ti posso presentare la signorina Heidi? – Neanch’io me la prendo. – Un Martini, – dico, – e che sia perfeo. Casa borghese sin dal pianeroolo di geometria mozzafiato, portoncino laccato bianco bloomsbury, spalancato sull’ingresso: il corridoio è quasi una galleria del vento, con le mussole portoghesi che sbuffano ai lati del salone rigonfie dei venti atlantici; da una stanza vicina, soffia l’eco di un pianoforte in sordina, bauto da mani inesperte sulle note di uno studio di – come si chiama, quello, sepolto nel chiostro di Westminster – Clementi, Muzio Clementi. Avevo cinque anni – io, come Alice, la figlia di Francesco – quando lessi per la prima volta il suo nome sul leggio. – Mi spiace –. E quanto deve spiacermi se adesso dico che non c’era niente tra me e il marito di questa biondina naturale, principessa di schiaa normanna, e che era solo una cosa da bordello, una marchea senza peccato. – Mi spiace – lei ripete. Restiamo a guardarci le mani, gli anelli, le scarpe, i ghirigori sul kilim, fantasie geometriche, evocative della luce che promana da lassù, e io immagino di stare in una moschea, a pregare, la testa china, in un silenzio appena disturbato dal fruscìo delle pagine di cartapecora, delle ginocchia e dei piedi scalzi che strisciano sui tappeti, del respiro. – Parlavamo. Di lei, dei suoi bambini. Del suo lavoro, e del mio. Alla porta mi saluta.
– Lei non c’entra. Anch’io sono stata una puana, per Francesco.
Capitolo X – E quei lividi? Sadomaso? – Devo dirti qualcosa. – Ti sento… – E la sua mano conferma. – Limitati ad ascoltare che di più non c’è. – Vuoi che tenga gli occhi chiusi? – Mi basta che freni la salivazione, non sudi come un cavallo e lasci gli occhi nelle orbite. – Posso pure procurarmi un cilicio, se serve. – Prima di finire in cella mi hanno rapita, per strada, e tenuta soo sequestro in una stanza Ikea per ventiquaro ore. – Non scherzare. – … – Ci guardiamo negli occhi. – Che cosa stai dicendo? Racconto tuo, per filo e per segno: che erano francesi, una di loro almeno lo era, e che non mi hanno traato male; nessuna sintesi, mi lascio andare, e descrivo perfino il libro che stavo leggendo. – Il capo del commando che mi ha liberato, mi ha raccomandato di tenere per me quel che è accaduto. – Per quale motivo potrebbero averti rapita? – Guarda –. Ho nella borsa la ricevuta dei ventimila euro versati in una cassa continua a Roma. – Li avevano presi, insieme ai documenti. Mi ha restituito tuo uno dei miei salvatori. Erano dei professionisti, tipo Nocs: italiani, verosimilmente. O forse no. Non sono certa di niente! – Facevano prima a scipparti. – Non è stato per quei ventimila euro. – Lo so anch’io che dev’esserci qualcosa di più. Ti interceano, ammazzano Oliveri, un tuo cliente, e infine, mandano dei professionisti a rapirti e dei commandos a salvarti. Che hai fao di male? – Anche l’assassino di Oliveri era un professionista. – Uno dei mille sul mercato.
– Un colpo drio al capo, senza esitare. Così dev’essere andata. I due si trovano faccia a faccia, si dicono qualcosa. Francesco ha giusto il tempo di rendersi conto di quel che sta accadendo, s’inginocchia e si fa scoppiare il cuore dalla paura. L’assassino non capisce, s’allontana, per qualche minuto, quando un gruppo di ragazzi araversa la piazza, dalla parte opposta alla sua: poi torna, e spara alla testa del manichino, credendolo terrorizzato, incapace di muoversi, di fuggire. Non lo sa, l’assassino, ma il suo lavoro era già finito, Francesco era già morto, e nessuno si sarebbe preoccupato dell’infarto di un tossico, pur se eccellente. L’assassino, però, agisce in modo perfeo: è irriconoscibile, indossa i guanti, spara un colpo, molla la pistola e spoglia la sua viima di quel che serve a montare la messinscena; o magari sta cercando qualcosa. Commissario, quello era un killer professionista, magari più bravo dei palermitani, non un volgare rapinatore. – Guarda che mi offendo. La scuola killer di Palermo è tra le migliori d’Italia, di lunga tradizione. – Più bravo, ti dico: perché è uno che lavora da solo e con calma, perché ha scelto di sparare alla testa, a pochi centimetri di distanza. Un colpo mirato, di piccolo calibro, che non sfracella il viso; o forse è uno che spara così, e il suo è uno stile che potrebbe aiutarvi a trovarlo, e in ogni caso è uno che sa ammazzare. E poi, quella sparachiodi: se è stata costruita a Palermo, perché lasciarla in giro come un cartello stradale? Indica un senso unico, obbligo di svolta a destra. – Tu non credi al caso? Dovresti. – È un modo per definire quel che non abbiamo ancora capito. – Il fao è che io credo pochissimo alla virtù. – Scendiamo sulla terra: secondo te, io mi figuro delle storie senza capo né coda? – Cosa dovremmo fare, secondo te? – Faeli portare qui, quei meccanici della morte. Bisogna seguire anche le false piste per escluderle: è un prezzo da pagare. – Ci sono altri metodi. I tuoi sono ragionamenti superati, con un rimpianto da ragazzini per l’indagine tua fiuto e istinto. – E tu quanti anni hai, commissario? Non so se per dimostrarmi che di vecchio non porta in giro nulla, o se al contrario per darmi ragione – suggerendomi che, è vero, lui di intuito ne
ha da vendere – Paternò solleva le lenzuola, e mi striscia addosso con la delicatezza di una sanguisuga da palude, sfiorandomi il ventre, teso come un tamburo. – Non ho voglia. – Non sei una cortigiana qualsiasi. – Capisco. Una cortigiana, che raffinatezza. – Tu sei… – Ma che è, tennis? Io lascio cadere la palla e tu ribai? – È l’eccitazione del gioco –. Mi sfiora i capelli. – Adrenalina, testosterone, endorfine… Niente psicanalisi, bastano le analisi chimiche. – Voi le uterine, noi gli ormosfigati. – Riscaate, finalmente. – Non sappiamo niente di noi: l’uno dell’altra, intendo. – Comincia tu. Chi sei? – Paternò Giuliano, classe 1963, figlio unico, nato a Cefalù da Paternò Gioacchino e Clemente Innocenza, deceduti. Segni particolari, scimunito: scelgo sempre il lavoro sbagliato, la cià sbagliata, le femmine sbagliate. – Ce l’hai una donna? – L’ultima l’ho scelta in un bar, una sera, tra due belle e intelligenti, ed era quella da scartare: proprio scopabilissimo, disse all’amica, un paio di giorni dopo la mia danza di seduzione; per me aveva messo da parte una travagliata quarantenne con bambini, con la quale aveva da tempo una relazione, e subito dopo scartò me per un tizio ramo supermercati, declassandomi a brava persona, che purtroppo non capiva… – Le necessità pratiche di questo mondo crudele! – E tu? – Vuoi un elenco, un database delle mie marchee? – Non c’è frea. Sono più interessato alla tua famiglia. – Hai intenzioni serie, allora. Ma non credere di cavartela con poco. Ti faccio storia e geografia. – Sono qui. – Sono anch’io una figlia unica, e lo è anche mio fratello: assolutamente unico, Roberto. Non lo vedo da un anno, ma ci sentiamo spesso, e ci scriviamo, pure. È un musicista, e vive in America, alla corte di un principe del Minimalismo. Lo amo alla follia, Roberto, ma non immaginare
cose come i fratelli Mozart e Leopardi, cacca piscia merda, rapporti esclusivi e telepatici. Eravamo due bambini felici, semplicemente, e felici di mamma e papà: impiegata lei e farmacista lui, molto presi dal loro lavoro, ma aenti a noi. Tanti viaggi, insieme, e tui i fine seimana in campagna. Mai andata a scuola, il sabato, fino a sedici anni. – Una vita tranquilla… – Forse un po’ troppo. Le sole avventure che ricordo sono quelle che ci raccontava mio nonno. – Panoramica sui nonni. – elli materni non li ho conosciuti, morti prima che io nascessi, e non so nulla di loro. Dei miei nonni paterni, al contrario, so moltissimo. I genitori di mio nonno, erano stati emigrati in America con le loro famiglie. Con il taglio che la modernissima via Roma inferse al centro storico, alla fine dell’Oocento, Palermo espulse dalla Vucciria dei pericolosi socialisti, manovali ed artigiani facili allo sciopero, senza Re né Dio; a New York, non pochi furono reclutati dalla mafia, per sfruare altri italiani. I genitori di mio nonno, li avevano emigrati in America con le loro famiglie. Mio nonno tornò in Sicilia a diciassee anni: per speranza, e non per vendea; altri, che stavano dalla parte sbagliata, tornavano per ampliare l’azienda. Dicono sia nata così la mafia novecentesca: dalla deportazione e dal ritorno dei figli corroi. La nonna, invece, era di Trapani: doppiamente orfana, madre morta di polmonite e padre – un gioielliere prestatore, come ce ne sono ancora adesso – di crepacuore; crebbe in collegio, spogliata di soldi, terre e palazzi dalla zia. – Finì sparata, la zia ladra? – Crepò soo una carrozza. I miei nonni si sposarono qui a Palermo, ma dopo la guerra, quando mio nonno resuscitò, si trasferirono a Perugia. – Resurrezione in carne e spirito, dunque. Altra cià, altra vita. – Fu la guerra ad ucciderlo e a farlo rinascere. Aveva già tre figli, mio nonno, ma lo presero lo stesso, gli diedero una divisa e lo mandarono in Africa. Nel ’41, la nave sulla quale era imbarcato fu affondata da un aerosilurante inglese, nel Mediterraneo. Mio nonno, insieme agli altri sopravvissuti, fu preso a bordo dopo lunghe ore in mare, e senza troppi complimenti sbauto in una lurida stiva. Niente soccorsi, niente cibo, niente luce, niente di niente. Sbarcarono in Algeria: direzione, il campo di prigionia inglese di Orano (anglo-americano, in seguito). Mio nonno e i
suoi camerati furono costrei ad un’interminabile marcia a piedi soo il sole, senza una sola goccia d’acqua. Non ci andavano leggeri, gli inglesi. Appena arrivati a destinazione – stremati, puoi immaginarlo –, tra i prigionieri uno strofinò la sua camicia su una parete ricoperta di muschio, bagnata dell’acqua di un rubineo che vi sbaeva sopra: voleva solo inumidirsi le labbra, il viso. Un ufficiale della scorta lo colpì con il calcio del fucile: lo lasciarono sanguinante, urlando che nessuno lo toccasse, lo soccorresse, o avrebbe fao la sua fine. Una lezione, tanto per esser chiari. Mio nonno era un fascista, e lo rimase: anche per quel tentativo di annichilimento, credo, per quella ferita. – Alla quale reagì subito. – Imparò l’arte d’arrangiarsi. Un giorno, al campo, chiesero se ci fossero dei cuochi, per la mensa. Nessuno rispose, tranne mio nonno, che non aveva mai toccato un mestolo in vita sua, ma in compenso parlava perfeamente l’inglese. – elli pensarono d’aver messo le mani su un grande artista. – Nelle cucine si resero subito conto del personaggio, ma non lo denunciarono, e lo presero a benvolere. Così, finalmente, poté mangiare, e con molta aenzione, cominciò a portar via un po’ di roba dalla dispensa. Insomma, i suoi erano furti irresponsabili, grandiosi. Riforniva la baracca, e gli altri italiani presero a rivolgersi a lui, finché il traffico non s’allargò al resto del campo. Nessuno scoprì mai niente, ufficialmente. – E la sua famiglia? – Era in campagna, lontana dalla cià. A mia nonna mandarono una leera, poche righe scrie a macchina e un cazzobollo sulla firma: suo marito è da considerarsi disperso nell’affondamento. Fu così che, per tre anni, mio nonno finì in una foto, sul casseone, dinanzi ad un moccolo rosso. ando bussò alla porta, nel ’44, non lo riconobbero. Aveva imparato a cucinare, a fare le torte salate, e a cavarsela. È morto sei mesi fa, e non aveva mai rivisto la sua Orano. Pensava fosse passato troppo tempo; c’era la famiglia: bisognava tenerla fuori da quelle cose orribili; e c’erano le guerre in Algeria. Negli ultimi anni, nonostante la sua forza, ai miei occhi sovrumana, si sentiva vecchio, inerme. Alla fine, ha vissuto più lui che mia nonna. – I suoi racconti saranno stati straordinari.
– Con alcuni dei suoi carcerieri aveva fao amicizia. Rideva ancora al ricordo di molti episodi. Credo, però, che non mi abbia mai raccontato veramente tuo. – Tuo? – È rimasto via da casa per anni. Ha visto l’inferno e il purgatorio. Mi ha risparmiato il peggio, credo. E qui mi fermo. Voglio un po’ d’aria. – Ho fame. – Sei da ventiquar’ore a Roma e da ventiquar’ore non meiamo il naso fuori. – Sono tuo prigioniero. Vuoi liberarmi? Usciamo. – Voglio una fiorentina alta tre dita e un vulcano di patatine frie, al Girarrosto. – E il cinema a Trastevere. – E un dopo cinema a Campo dei Fiori, soo la statua di Giordano Bruno. – A Roma come a Parigi, da provinciali. È freddo, per la strada. Camminiamo a lungo, lentamente, e a un trao, Giuliano mi tende una mano. A casa, ricomincio a leggere il diario: con lui, stavolta. Orano – 6 giugno 1941 Le cucine del comando sono un campo di baaglia. Ci sono almeno una trentina di cappelloni bianchi. Mi hanno fao sedere da una parte, vicino ai lavelli, e non mi hanno rivolto la parola per tuo il giorno. Tra loro, però, parlano, eccome se parlano. In quel paradiso circola ogni ben di Dio: verdure, carni, prosciui, formaggi. Si cucina al di soo di una cappa che pare una piramide. Ai coltelli, stanno degli uomini giganteschi. Uno si gira verso di me, che è già sera, e con uno scannatore in mano, s’avvicina. Guardo la lama e non mi accorgo che sull’altra mano reca un salame. «Mangia!», esclama. Harry, si chiama così lo Squartatore di Orano, mi guarda e aggiunge: «Che cosa sai fare, Musolini?». Il mio inglese viene fuori morbido e arrotondato. «Nothing». «Va benissimo», risponde, «ma non dirlo in giro».
Si gira e con la testa mi fa cenno di seguirlo. Andiamo alla cella frigorifera. Ho di nuovo paura. Ma lui tira fuori dal tascone dell’altro salame. Nell’igloo, Harry fa le presentazioni. arti di bue appesi, agnelli scuoiati, maiali gocciolanti. Mi spiega come si tagliano, e come si chiamano. I pezzi, naturalmente. «È la tua prima lezione», dice. Orano – 10 giugno 1941 Sto fisso ai lavelli. Le mie mani non sono mai state così pulite. Dice il capo dei lavoranti che vado bene. Pulisco foglia per foglia le verdure che trovo sui carrelli, enormi cespi dai nomi sconosciuti, e ne vien fuori della terra polverosa e pallida. Orano – 19 agosto 1941 Mi hanno destinato all’impastatrice. Devo stare aento. Ad un prigioniero è saltato un braccio all’altezza del gomito. Non è più buono a lavorare in cucina, adesso, e sta ai cessi. Pulisce reggendo la scopa con il braccio che gli resta. Orano – 7 seembre 1941 Non so che succederà, se mai uscirò da qui, se finirà la guerra. Dove sarò tra cinque anni, tra venticinque? Orano – 1 gennaio 1942 Nella baracca abbiamo festeggiato il capodanno alle quaro del maino. Appena finito di ripulire, alla mensa, ho portato via, di nascosto, il cibo che rimaneva: sul mio impermeabile, un trench usato che mi ha regalato Harry. Anzi, mi ha aiutato proprio lui, lo Squartatore, a portare il cibo, e per una volta, ha servito lui. È stato un guastatore, mi racconta dopo aver bevuto. Ora non lo è più. Orano – 8 febbraio 1942
Prima spesa al mercato di Orano. Io sono rimasto sul camion con la scorta armata. La cià mi sembra bellissima. La gente, voglio dire. – Sai cosa pensavo? – Spero qualcosa di tranquillo. – Non sembra la tua casa, questa. – Come la immaginavi? – Non so dirtelo. Pensavo alla tua casa come ad un romanzo di certi scriori sudamericani, dove le parole s’affollano in una babele di significati, e solo per magia e per miracolo s’incastrano l’una all’altra: voce su voce, tono su tono, ricordo su ricordo. – Viaggio dopo viaggio, intendi: qui, però, non voglio fermarmi. – Potrebbe essere la casa di chiunque. Niente che faccia supporre… – Faccio davvero l’arredatrice, se è questo che vuoi sapere. Ho un lavoro pulito. Ne ho bisogno, e non per denaro. Gianmarco mi ha procurato dei clienti, e per Francesco avevo fao degli acquisti, così come per altri; uno di loro, Aurelio, dà le mie ricevute al commercialista: paga doppio e si scarica le scopate. esta casa, però, doveva rimanere così: come l’ho affiata. Non mia. Estranea. I libri per terra. Mi basta quel che vedo oltre le finestre, sempre uguale, e nei miei televisori al plasma: nulla che sia stato girato dopo gli anni Cinquanta. – Hai scelto la tua età d’oro – mi dice, chiudendo gli occhi.
Capitolo XI La luce morbida dell’alba, sorella minore del buio e del silenzio, lascia che un venticello ancora impregnato di rugiada s’insinui per i vicoli e le strade di questa reliquia della cià di un tempo, l’accarezzi, ne autisca i rumori, preoccupandosi di proteggere il sonno di chi dorme ancora, di non guastare il bagno e la vestizione di chi fra poco s’affaccerà sulla via di Panìco. Vado in cucina a piedi nudi, e il pavimento è gelato. Al tè bollente aggiungo un po’ di lae e miele di eucaliptus. Siedo al tavolo, con la tazza tra le mani, il vapore che risale a scaldarmi il viso; il mio sguardo va oltre la finestra. Due ragazze passano veloci, la mano nella mano, verso il Tevere fatale. Il viso di Giuliano è incorniciato dalle lenzuola; dorme come si dorme a due anni, rivoltolandosi, sudaticcio, e dissipando le energie del sogno in faccine e gorgoglii. Piano piano, recupero il diario rimasto sul comodino e salgo su, in mansarda, badando a non far scricchiolare gli scalini. Orano – 10 luglio 1942 Arrivano nuovi prigionieri. Sono italiani. Alcuni di loro sono stati salvati dopo l’affondamento. Noi siamo stati colpiti nella noe tra il 14 e il 15 aprile 1941, racconto ad un Tenente, e la nave si è inabissata all’alba. alche seimana prima, ricordo, gli inglesi avevano fao a pezzi la Regia Marina a Capo Matapan. Migliaia di morti, incrociatori e cacciatorpediniere squarciati dalle esplosioni e precipitati in fiamme in fondo al mare. I maledei sanno sempre esaamente dove trovarci, e non c’è alcun dubbio: le informazioni devono provenire per forza dai nostri quartieri generali, a Roma o a Tripoli. Ma io sono solo un marinaio, e dovrei non saperne nulla di queste cose.
Orano – 12 luglio 1942 Il campo è precipitato nuovamente nel disastro, e i toni dei nostri ospiti si sono fai più duri. In soli tre giorni sono arrivati più di mille prigionieri, laceri e smagriti; nei loro volti, però, c’è ancora un orgoglio e una durezza che noi poco alla volta abbiamo dissimulato, o perduto definitivamente. Mancano di tuo, di scarpe e vestiti, e come sempre accade, in questi casi, per l’accoglienza ai nuovi, i nostri piccoli tesori sono stati sequestrati: lampade alimentate a sego, e raramente a petrolio, coperte infeltrite, piai e bicchieri di laa. Nella mia mensa, il mio rifugio, non è cambiato nulla, per fortuna, tranne i turni, passati da 10 a 12 ore al giorno. Orano – 22 seembre 1942 C’è stato un incendio stanoe. Una baracca è stata cancellata dal fuoco, appiccato, dicono, per disperazione o per follia, da un caporale. Sono morti in tre. I due che avevano tentato di tirarlo fuori, sono rimasti soo un trave. Il caporale si era legato al leo e aveva dato alle fiamme la coperta imbevuta della benzina che era riuscito a procurarsi. Lo avevo conosciuto, era uno dei nuovi, un ragazzo torinese di 19 anni, forte quanto una colonna di Agrigento, allegro come un canarino. Forse, è questo tipo di uomini che s’arrende alla prigionia, che ad un trao, in volo, chiude gli occhi e le ali e si schianta al suolo. I suoi compagni, una cinquantina, stanno soo una tenda, aperta sui quaro lati. Orano – 25 dicembre 1942 Da tre seimane, c’è un secondo Cappellano, Padre Ellio, anch’egli irlandese, ma naturalizzato a Brooklyn. Affiancherà Padre James per sostituirlo alla sua partenza. Stamani, per la prima volta, soldati e prigionieri caolici, soo una pioggia misteriosa, invisibile, hanno recitato il Credo, a testa bassa; quando padre Ellio ha steso le sue mani su di noi, pronunciando ad altissima voce un’antica preghiera del suo Paese, ci siamo tenuti per mano. «Sia con voi la benedizione di Dio, riempia il vostro cuore di tenerezza, i vostri occhi di gioia, le vostre orecchie di musica.
«Dio vi regali sempre di nuovo ciò che è grazia nel deserto: silenzio, acqua fresca e nuova speranza». Orano – 26 dicembre 1942 aro soldati e ufficiali americani hanno suonato nella mensa, per chi era libero dai turni: un quarteo scompagnato, il loro, formato da un violino, una viola, un flauto traverso e un pianoforte. ando hanno terminato, tra gli applausi, e le grida, padre Ellio si è avvicinato al Comandante e gli ha sussurrato qualche cosa all’orecchio. Mi è sembrato che gli desse un’imperceibile carezza sul capo. I quaro hanno ripreso a suonare, dinanzi ad un microfono, e la loro musica è risuonata in tuo il campo. Orano – 8 marzo 1943 Sono stato promosso cuoco del Comandante. Ho chiesto di poter continuare a lavorare qui, anziché nel suo alloggio, nel quale avrei potuto anche dormire, con una stanza tua mia. Meglio così. Orano – 3 aprile 1943 Due prigionieri sono stati ripresi a poca distanza. Non so come, erano riusciti a scappare. Finiranno nel buco: uno scavo reangolare profondo una dozzina di metri, a cielo aperto. Li calano con le corde, e allo stesso modo, una volta al giorno, gli passano l’acqua e il cibo. Non è vietato guardarli. Orano – 18 luglio 1943 Ieri, il Colonnello Stephens, il capo dei migliori guastatori inglesi, l’eroe del 14 aprile, il vincitore dell’epica baaglia contro la mia nave ospedale, il massacratore, è stato trasferito d’urgenza. Gli hanno consegnato un biglieo mentre si trovava a mensa con altri ufficiali inglesi. Due semplici graduati con una fascia al braccio l’hanno salutato baendo i tacchi e facendogli segno di seguirli. Stephens, un orribile nano biondo, dallo sguardo caivo, ha interroo il pranzo e da allora non si è più visto. Dicono che l’assassino sia stato caricato su un camion e accompagnato all’aeroporto.
Orano – 2 agosto 1943 Le condizioni di Franceschi si sono fae improvvisamente più gravi. I dolori si sono intensificati. Il Maggiore medico Catalani l’ha visitato, e Franceschi deve avergli leo dentro. Non mangia più, e non vuol parlare. Vuol lasciarsi andare. L’ultima cosa che ha deo è stata: scusatemi. Orano – 15 agosto 1943 Franceschi è morto. Ho chiesto di poter scavare io la sua buca. L’ho sepolto con la mia Bibbia. Sul frontespizio ho scrio a mio padre: «Mi manchi». Tengo per me la sua Bibbia. Orano – 2 seembre 1943 Nel campo c’è una certa mobilitazione per il cambio delle truppe americane: le nuove arrivano dal fronte, e la permanenza nel campo, evidentemente, la considerano un riposo meritato. C’è chi dice che hanno da poco invaso la Sicilia. Orano – 16 seembre 1943 Harry è rimasto qui. Secondo lui, la guerra finirà presto, ora che siamo alleati. L’Italia ha firmato l’armistizio. Dice pure che si sente a casa, e che è merito mio, in gran parte. Siamo fratelli, dice: in fondo, non è molto diverso dall’Irlanda, qui. Anche qui c’è un tesoro, e sta in fondo al pozzo dell’arcobaleno. Orano – 22 seembre 1943 Ci hanno deo che per Natale potremo scrivere alle nostre famiglie, e spedire loro qualcosa di quel che riceveremo in regalo dal comando. La mia leura si ferma qui, mentre il giorno ricomincia, e capisco che il silenzio serviva ad allontanarmi da casa mia, e a vedere in quel diario, per una volta ancora, mio nonno in viso.
– L’hai finito senza di me! – Nel mio accappatoio di spugna, a strisce bleu e arancio, Giuliano è un baroneo. I capelli umidi, spazzolati all’indietro con cura, i baffi disegnati, le sopracciglia folte, sugli occhi luminosi, e le mani, curatissime. – Buongiorno. Non l’ho ancora finito, ma puoi prenderlo, se vuoi. – Più tardi. Insieme, magari. – Ti va di fare colazione? – Sono pronto. Per due colazioni, almeno. Ho una fame da lupo. – C’è poca roba, ormai. Dovrai accontentarti. – Le tue prelibatezze biologiche sono terminate? Da quanto tempo non fai la spesa? – Non la faccio mai, se proprio vuoi saperlo. Ma c’è un negozieo, da queste parti, che ha una mia lista, con il necessario. ando finisco tuo quanto, faccio solo una telefonata. – Se penso alla felicità di tuo nonno in giro per Orano, con la squadra incaricata di far la spesa… Una vera deviazione genetica, la tua. – Vuoi saperlo? La spesa la portò pure a casa, il nonno, dopo la fine della guerra. Lae in polvere, burro, gallee, carne in scatola: ma era molto meno di quel che avrebbe voluto. – L’hai leo sul diario? – No, me l’ha raccontato lui, anni fa, insieme al resto della sua storia. – Io torno a Palermo. – Va così male, tra di noi? – Sai com’è: non voglio espormi, legami stabili, famiglia… – Hai chiamato la Omicidi, confessa! Non riuscivi a starne lontano. – Hanno identificato i quaro sospei, per la faccenda della pistola, e aspeano me per muoversi. – Cosa farete? Andrete da loro chiedendo, di grazia, chi è stato a vender l’arma? – Lo faremo, forse in modo un po’ meno cortese. – Farete un gran casino, allarmerete chi tiene i fili di tua la vicenda. – Se qualcuno tiene quei fili, li scuoteremo fino a staccargli le mani. – Non so. – Il problema, credimi, è se riusciremo a scuoterli abbastanza. – Non ci vorrà molto a scoprire se hai ragione.
L’idea è stata mia, ma Giuliano, forse, in qualche modo, l’ha suggerita, o ha fao in modo che fossi io ad arrivarci. Così, siamo tornati insieme a Palermo. Io geerò i quaro nel panico – ho deo – e i tuoi uomini si meeranno subito sulle loro tracce. Farò scappare il topo, finché non si caccerà da solo in trappola. Avrebbe potuto farlo anche un polizioo, o una polizioa, in borghese, ma se c’è un filo di collegamento fra l’omicidio di Oliveri e le mie disavventure, allora è bene che a sparigliare vada io. Non so se fila, la tesi, che espongo con l’espressività e la capacità di persuasione di una scatola di tonno. at’s all, folks. Alla Mobile, Imburgia non fiata, stregato dal cartoon che gli scorre dinanzi agli occhi, non aggiunge un commento. ando Giuliano finisce d’illustrargli il piano, fa sì con la testa e s’aacca al telefono con i suoi appunti sulla scrivania. Una polizioa spiega che domaina m’imboirà di microfoni, fili e trasmienti da pochi grammi. – Buone notizie. I quaro si sono ridoi a due. Uno, Commarella Calogero si chiama, ha un parkinson che le sue mani sembrano incollate ad un martello pneumatico. Un altro, Costa Nicola, ha cambiato vita, sta in una comunità, è diventato una specie di antico francescano, con un saio tuo colorato. Ecco i due che ci restano, doore: Muffeini Giovanni e Treppiedi Salvatore. – Salvo, quando ti ci mei… Una perfezione. Le abbiamo le autorizzazioni ai controlli, vero? – Il fax si è roo, a dire il vero, e quando ho telefonato, era troppo tardi, e non ho trovato nessuno… – Nessuno? Hai chiesto l’assoluzione per i tuoi peccati, mentitore? – Al Ministero della Confessione e del Pentimento. Una prece. – E hanno risposto? – Subito, con un segno divino: una firma su un modulo in bianco. – I registratori sono al lavoro? – Sì, ma le serrature delle porte e delle finestre di quei due avranno bisogno di una messa a punto. Sa, il collega di Pisa che ci hanno distaccato ha ancora la mano pesante. – Brancaccio, in via San Pietroburgo, e Acqua dei Corsari, in piazza dei Caduti di tue le guerre. Tu vai con una macchina a noleggio, Lorenza,
una macchina pulita: le nostre sono conosciute, puzzano, e in quelle zone vanno a fiuto; noi ti seguiamo a breve distanza, con delle moto e un furgone. Salvo, tuo pronto, no? – L’autonoleggio è svizzero, doore: tre moto, un’auto e un furgone che i ragazzi stanno preparando. In albergo, prima di tornare alla Mobile, Giuliano prova a dissuadermi. – Se non te la senti, dillo, stai tranquilla, nessun problema, cambiamo programma. – Va tuo bene.
Capitolo XII esta maina il sole è in ombra, a strigliarsi le macchie, svogliatamente, e a sforacchiare le nuvole, nere di sabbia e di malaugurio, sulle vele del giorno drizzate all’orizzonte. Foro Italico, Sant’Erasmo, la mia vecchia pescheria, Ponte dell’Ammiraglio, girare a destra, passaggio a livello. La radio è ad un volume insolitamente alto, sintonizzata su un canale che dà soltanto jazz. Una voce nasale, calda e malinconica, intona una ninna nanna in siciliano. Mi guardo intorno, nell’aesa che passi il treno. Una ragazza sta rannicchiata sui talloni, nel suo balcone, al primo piano di una palazzina fatiscente, parla al telefonino e non si muove di un centimetro, ma è tesa come un grillo, pronta a spiccare il volo. A nemmeno sei metri di distanza, un ragazzo in canoiera, al balcone dell’edificio di fronte, la osserva svagatamente, oscillando sulle gambe posteriori di una vecchia sedia impagliata e fumando una sigarea. Da qui al traguardo ci saranno un paio di chilometri. Uno scooter nero, di grossa cilindrata, mi sta aaccato al paraurti da una decina di minuti; a bordo, due ragazzi con il casco aperto e gli occhiali da sole. Non sono certa che si trai della polizia. – Cercavo Giovanni Muffeini, sono Lorenza Serianni. – Non ho capito, chi parla? – Serianni, Lorenza Serianni. È lei il signor Giovanni Muffeini? – Mi avvicino al citofono. – Non c’è, mio fratello è uscito, e non lo so quando torna –. È figlio unico, il bugiardo: l’ho leo sulla sua scheda. – Signor Muffeini, se mi apre un aimo, le lascio un messaggio per suo fratello. – Non posso, in questo momento. – Guardi che è importante. – Un aimo solo.
Abbassa la cornea. Provo a richiamarlo, ma non risponde. Che cosa devo fare? Un minuto, due minuti. Clack, un rumore secco, lo scao della serratura. Lascio accostato il portone d’alluminio giallastro. A destra, le scale si perdono nel buio del soerraneo; al primo piano, una porta aperta. Mi accoglie un tizio in vestaglia, barbea grigia, vecchia di una seimana, e occhiali brezneviani. Uguale alla foto segnaletica. – Mio fratello non è rientrato. Come ha deo che si chiama? – Lorenza Serianni, forse ha leo di me sul giornale. Sono l’amante, o meglio, ero l’amante di Francesco Oliveri, quello ammazzato alla Vucciria con una pistola che era un capolavoro. Forse suo fratello mi può aiutare. ello mi vede con la coda e le corna. – Lei ha bisogno di un prete, signora, per i suoi peccati e per l’anima del suo amico. Io sono solo un vecchio pensionato, e non capisco di che cosa sta parlando. La prego di accomodarsi. Arrivederla. Mi chiude la porta alle spalle così rapidamente che sento l’aria e le fiamme del fosso eterno spostarsi prima del boo e della caduta dei calcinacci. – Ho bisogno di un arezzo, uno dei suoi, di suo fratello. Torno domani – dico alla porta chiusa. L’agente provocatore ha esaurito la prima fase del suo compito. Per la seconda, riaraverso il passaggio a livello, imbocco strada e ponte per la litoranea, e giù fino ad Acqua dei Corsari, ad un gigantesco caseggiato che per consuetudine porta il nome del boss mafioso al quale lo sequestrarono. ando l’occuparono, vent’anni fa, non c’erano una porta, una finestra, un cesso. Un inferno. Di citofoni, manco a parlarne, ancora oggi. – Cerco Salvatore Treppiedi. – Turista, turista… Du iu spik inglisc? – Il ragazzino non aspea la risposta: soddisfao dell’esibizione, torna al suo gruppo lentamente, rigirandosi un paio di volte, con il volto enigmatico di una maschera plautina. – Cerco Salvatore Treppiedi. Sono dell’assistenza sociale. Mi può aiutare a trovarlo? È per la pensione. – Io personale non lo conosco. Mi informa se qualcuno lo conosci. Sempre che abita veramente qua –. Non s’abbassa fino al finestrino, resta in piedi e continua a guardarmi araverso gli occhiali da sole. Parla sgrammaticato, un italiano tuo buche e pozzanghere, l’Ercole biondo
avvolto in pelle nera. Entra in un portone sulla destra del baglio di cemento armato e mi fa segno di aspeare. Resto in macchina, non si sa mai. Mi guardo intorno. Penso alle mie inchieste sui pedofili in berlina tedesca; al processo, i ragazzini raccontavano degli «zii» e dei regali degli altri signori, «quelli con le macchine grandi». Alcuni genitori – sussurrarono gli avvocati – pensavano ai soldi persi per sempre: tua colpa dei preti del quartiere, avrebbero dovuto farsi i cazzi loro! – A posto? – chiede Giuliano. – Lo stanno cercando. Cinque minuti dopo, il giovanoo in nero va via sul sellino posteriore di una motociclea guidata da un grassone, dal casco del quale fuoriescono dei lunghi capelli rossi; accelera, s’impenna, si piega su un lato e infila a velocità da incoscienti la litoranea in direzione dell’autostrada. – Io vado –. E l’ho già fao tra pensiero e parola. Lascio la macchina aperta sul marciapiede e mi avvicino all’ingresso. Il portone è spalancato. Mi sbuccio le nocche sulla prima porta, al piano terra. La donna che appare sull’uscio mi fa segno che Treppiedi vive pure lui al piano terra, nel corridoio a destra: quando sta qui; certe volte sì, certe volte no, e non si vede per seimane. La porta sembra chiusa, ma la serratura è stata distrua con un arezzo robusto. – Giuliano, che devo fare? Hanno forzato la porta. – Prova a spingere. I ragazzi sono dietro di te. La voce nell’auricolare non ammee esitazioni. Ingresso, salone e ancora nulla. Corridoio. Il puzzo di cordite è molto forte. Lo seguo. Treppiedi è steso per terra, in cucina. Gli hanno appena sparato alla schiena: è in una pozza di sangue, ha gli occhi fuori delle orbite, il braccio destro è scomposto, la mano sembra incollata al portellone del frigorifero, in cima al quale vedo due apparecchi auricolari. alcosa aveva intuito, prima che lo spacciassero. – L’hai trovato? – Morto, gli hanno sparato – dico, e mi accorgo che con me sono entrati in tre, armati e silenziosi. – E tu, neanche un urlo? – Sto per vomitare.
– Vieni via, ora. – L’hanno appena ammazzato. Hai visto quella motociclea che fuggiva dalla piazzea con quei due tipi in nero? – Pensi siano stati loro? – Loro. – Imburgia, dai l’allarme: fermare una moto fuoristrada con due uomini, abiti scuri, vanno verso Villabate, verso l’autostrada. – Giuliano? – Sì? – Gli hanno sparato alla schiena. Hanno aperto la porta, facendo un gran casino, gli sono arrivati alle spalle, e vuoi sapere una cosa? – Non ha sentito niente. Era sordo come una campana. Ho qui la scheda preparata da Imburgia. Non sono stata io a fermarlo, il biondino in nero. È stato lui ad avvicinarsi, e a fermarmi. Voleva esser certo di poter lavorare in pace. Certi inseguimenti stanno solo nei film. Piani sequenza da infarto. Vocabolari di sangue: da assassinio a zampillo. Dieci, venti, quarantaquaro minuti per ricostruire la rapina più famosa d’America. Dovrebbero costruire delle strade apposta, qui, per gli inseguimenti. A Palermo, solo strade stree, da spiate, da agguati, da esecuzioni. Sconfii, restiamo a fissare l’asfalto, appoggiati alle auto, senza una parola. – Non troveranno nulla – sibila il commissario. – E le registrazioni ambientali? Forse c’è qualcosa. – Rumori di fondo, passi e gli sbuffi del silenziatore. La motociclea la ritrovano tre ore dopo, sulla spiaggia orientale di Romagnolo, in un rudere senza più il teo, che doveva esser stato alcova sul mare magazzino bar camera della morte stanza del buco: è bruciata benissimo, in modo uniforme, insieme agli abiti di pelle, sulla destra della tanica extra-large, liberatasi del tappo con un’esplosione. C’è un borsone, anch’esso quasi in cenere: doveva contenere il cambio per i due killer. Di orme sulla sabbia, ovviamente, non vi è più traccia: le hanno azzerate curiosi e polizioi, noi tra gli altri. Il mio Lincoln crollerebbe giù dalla sedia a rotelle, per la rabbia, e Kay scriverebbe al Capo della Polizia, al Sindaco, al Governatore, alla Corte Suprema; Hyeronimus, lui, stenderebbe a cazzoi il primo scemo con le scarpe sporche. Tui e tre, poi, ci
direbbero che sarebbe stato meglio fermarlo, Salvatore Treppiedi, e interrogarlo in estura. Forse, risponderei, non sarebbe cambiato molto. Tra i diversi modi d’avvicinarsi alla verità, le indagini di polizia rappresentano a volte quel che meno somiglia ad un procedimento scientifico, se non per un aspeo: l’essere anche qui applicabile quel principio enunciato dal professor Heisenberg, che consiste nella mutazione di alcune caraeristiche di un oggeo in seguito ad un’aività d’osservazione. Vale per la scena del delio; vale per gli esseri umani. ale sospeo, infai, al primo cenno d’indagine, al setaccio di un interrogatorio, sia pure di una leggera spremitura, non ridefinirà la propria identità – scremando la realtà, privandola d’ogni possibile indizio di colpa – o al contrario, non smarrirà la certezza della propria innocenza, mutando in favoreggiatore complice assassino agli occhi dell’interlocutore, dell’opinione pubblica, persino ai propri? Vi è un eccesso di logica formale, una burocratizzazione dell’intuito. La fortuna, quando capita, è nella pietruzza che fa inceppare la macchina, sposta lo sguardo, e svela l’arcano. ando per radio informano che c’è un altro morto, Giuliano s’aacca al cellulare. Strabuzza gli occhi, come se l’avesse di fronte, il cadavere, e riferisce che hanno fao fuori anche Giovanni Muffeini. La sola certezza di un aimo prima, scossa dal riso del demonio, corre a farsi benedire: per sciogliere il mistero della pistola e del silenziatore basta un solo armaiolo, due sono troppi. Il secondo, l’omeo in vestaglia e occhiali modello Piazza Rossa, sta nel suo laboratorio soerraneo in via San Pietroburgo, e al posto dell’occhio destro ha un tunnel scavato da una calibro 45 silenziata, una delle sue, che l’assassino, finito il suo lavoreo, ha educatamente riposto sul tavolo da lavoro, ordinato più di un carrello da sala operatoria, pinze, lime, calibri, pezzuole, grasso e cacciaviti. La porta è stata scassinata. Stessa tecnica usata per Treppiedi. Anche qui, le registrazioni servono a poco. – Una delle due è una morte inutile, decisa a scopo diversivo. – O magari, entrambi gli omicidi costituiscono una sola falsa pista, un vicolo cieco, con l’intenzione di trasformare l’assassinio di Oliveri in un affaire di mafia – dico. Giuliano tiene streo il telefono, come s’aendesse dell’altro. – alcuno sta giocando.
– Ma chi? La chiamata arriva dopo pranzo, alla Squadra Mobile, soo forma di una porta che si spalanca di boo – i cardini piangenti, la maniglia piegata fino a perdere la molla – e di un estore che s’affaccia rosso di rabbia come Lucifero dopo la cacciata. – Paternò, le dispiace accompagnarmi in ufficio? – dice, e neanche aspea, se non per un solo lunghissimo istante, nel quale i suoi fulmini illuminano la stanza, e inceneriscono il poco entusiasmo che resta. Passano venti minuti in fila, e in un silenzio da riempire con ipotesi, sensi di colpa, autentiche visioni, al termine dei quali la porta si riapre con un sussurro, la maniglia ancora inerte, incapace di risollevarsi. Si traa stavolta di un cadavere solo presunto: poche ossa in fondo ad una vasca ricolma di acido solforico. Hanno anche trovato l’intelaiatura corrosa di un distintivo – in oro e smalto, forse – e un passaporto maltese ancora integro, aribuito a Paul Fraud. – Andiamo – conclude Giuliano, fermo sull’uscio. La litoranea è interroa, sin dalla stradina d’ingresso al palazzo di Treppiedi. I polizioi di guardia fanno largo per noi tra i curiosi – allegri e ciacolanti per l’estraneità dei morti, l’eccitazione, l’odore del sangue fresco – e sollevano il nastro bicolore, per farci passare. el che resta del cadavere del mio finto marito sta in un ristorante chiuso da anni, sulla cantina del quale si favoleggia ancora, a nemmeno cento metri dal rudere sulla spiaggia con installazioni sulfuree, zang-bumbum. Il passaporto è nella ventiquarore di pelle rossa poggiata sulla sedia, e parzialmente coperta da una giacca. Giuliano guarda delle foto: io, io, io, e ancora io, a Palermo, a Roma; ed una copia fotografica del diario di mio nonno, lea e debitamente soolineata. – Commissario. – Door De Filippo, già qui? – Il medico legale porta una specie di tunica impermeabile, bianca, lunga sulla corporatura graffa, e una mascherina verde calata sul mento. – Ero in zona. Per i due morti ammazzati a Brancaccio e ad Acqua dei Corsari. E con questi siamo a quaro. – Che vuol dire, a quaro? – Che qua ci sono due femori, e in leeratura medica, che io sappia, non si dà il caso di un uomo con una gamba più alta e slanciata ed una più
bassa e tozza, per di più con le ossa orientate nello stesso verso: questi sono due femori destri, e appartenevano a due cristiani d’altezza e corporatura differenti –. De Filippo mostra due ossa: bianchissime, perfeamente scarnificate, sigillate in una busta di plastica. Uno più corto ed uno più lungo. – Doore, ma i risultati di Oliveri, quello della Vucciria? Il primo ad essere ammazzato, mi spiego? – Ho capito, ho capito. Oggi non riesce a parlarmi senza punto interrogativo. La relazione è pronta; ve la spedirò. – Ma quanti esami avete fao? – Centinaia. Volevamo baere il record dei colleghi di Cogne, commissario. – Posso avere un’anticipazione? – Oliveri poteva tranquillamente risparmiarsi le palloole. Il suo muscolo cardiaco si è fracassato, quella noe. ando la pistola ha sparato, la sua anima già si chiedeva che strada prendere. – Faceva uso di cocaina – dico. – Forse da troppo tempo. Se non fosse morto quella sera, sarebbe capitato presto. Il cuore era in frantumi –. Il doore mi risponde convinto che io sia almeno un’isperice, e s’allontana, salutando il commissario con un braccio tergicristallo e le sopracciglia levate in su, allusive. – E questi sono i killer di stamaina –. Giuliano distoglie lo sguardo, spaventato. – adra – rispondo, e la sua paura è la mia. – Tui i morti portano a te. Sono sei: Francesco Oliveri, il testimone, i due armaioli e i killer. alcuno stava alle calcagna dei motociclisti: ha lasciato che ammazzassero Treppiedi e Muffeini, e che si sbarazzassero della motociclea, per poi occuparsene in modo definitivo. Te però non ti toccano. – Devo avere un santo proteore. – Con un forte istinto teatrale: la sua messinscena è stata accuratissima, con la valigea, il diario, il passaporto; perché di teatro si traa, anzituo per far sapere a te e a chi indaga chi sono i morti, questi due sciolti nell’acido, almeno. Uno di loro, il tuo amico biondo, Paul Fraud, ti ha tenuto soo controllo, è entrato nel tuo albergo, e insieme al suo complice, o a più complici, ci ha fao terra bruciata intorno, seccando chiunque
potesse aiutarci a scoprire chi ha ammazzato Oliveri, e forse sono stati questi due a farlo fuori. Ricordi l’uomo in motociclea a piazza Rivoluzione? – E il mio sequestro? – È opera di un gruppo diverso, altra gente, capace di mostrarsi in viso, con altri obieivi. Devono esserci almeno tre distinti gruppi al lavoro, concentrati su di te. – Gruppi? – Servizi segreti, procedure militari, commando, squadre d’assalto – ché di questo si traa, viste le modalità operative – e gli uni contro gli altri armati: i sequestratori, i liberatori, questi due allo stato liquido. – I due motociclisti ammazzano Muffeini e Treppiedi, e poco dopo vengono uccisi a loro volta. Tu dici che qualcuno li seguiva. Perché? Non è una vendea, per i due omicidi, che potevano essere evitati. E dunque? – Potrebbero essersi sbarazzati di loro, dopo il lavoro. Oppure, potrebbe essere un messaggio, anche questo. Più gruppi al lavoro, ricordi? Più di due. – Il Seimo Cavalleggeri e il mio santo proteore potrebbero essere italiani. Che cosa c’entra il diario, però? – Dev’entrarci, per forza. Non è particolarmente importante che l’abbiano fotografato e studiato, il diario. Era un ao dovuto, per un testo potenzialmente utile a non sappiamo cosa. Il fao, però, è che il tuo angelo custode te l’ha fao ritrovare: fotografato, leo e debitamente soolineato. alcosa, il suo gesto teatrale, scenografico, deve per forza significare. – Francesco doveva saperlo, cosa c’entra il diario: cambia programma, per vedermi quella sera stessa, senza lasciarmi nemmeno il tempo di passare per l’albergo; non può aspeare il giorno dopo: vuol vedermi subito, ma non riesce a dirmelo direamente, e allora lascia un messaggio alla segreteria del mio cellulare. Va via in frea da casa, o dallo studio: distrao, agitato, perché trascura di coprirsi, rischiando una polmonite. – C’erano un soprabito su un divano dello studio, e delle tracce di cocaina sulla lastra di vetro che ricopre la scrivania. E qualcuno, dopo di lui, ha visitato accuratamente ogni stanza, aprendo ogni casseo, sfogliando ogni libro. Un lavoro eccellente. – Non abbastanza, visto che te ne sei accorto. – I dorsi dei libri soosopra e i segni sulla polvere.
– Io vado via. – Aspea, qui ho finito, vengo con te. Lasciami solo un momento. Giuliano torna a parlare con De Filippo, e con Imburgia. C’è pure Bevacqua, adesso, e mi ha anche visto; va lui da Giuliano, e gl’indica me. Giuliano gli dà una pacca sulla spalla, anzi, lo spolvera, con piccole manate sulla giacca. – In albergo, di corsa. Il tuo diario… Dobbiamo farne una copia, e meere al sicuro l’originale. Potresti ricevere delle visite.
Capitolo XIII asi centriamo un barbone, che, spaventato, si gea per terra. Giuliano fa per aiutarlo, ma quello si rialza, come se avesse intuito che l’uomo che gli si fa incontro è un polizioo: scappa, s’arrampica, scivola, arranca e sparisce tra i resti di un vecchio arsenale, bombardato dai Liberators il 9 maggio del ’43. Dai tavolini del bar ricavato tra le macerie, un camion frigo da ambulanti e quaro ombrelloni, si levano in tre – muniti di birra, pantaloncini e canoiera – e osservano, muti. Giuliano sale su un cumulo di vecchi conci e resta lì. Osserva. Urla: – Dove sei? Che ti sei fao? Male? Ti sei fao male? Scendi, disgraziato, fai vedere… – ello è già lontano. Scendo anch’io dall’auto, tranquillizzo Giuliano, non l’abbiamo nemmeno sfiorato, dico, e mi guardo intorno. Due infermieri fumano una sigarea sulla soglia di una vecchia clinica privata dall’aria dimessa; fumano e osservano. I tre della birra hanno già digerito l’emozione, e sono tornati al loro tavolino. Gli architei del Comune hanno deo che a Palermo tuo dovrà rimanere così com’è, i palazzi nobiliari e le fabbriche, le chiese: pure se a pezzi, irriconoscibili. Il sacco edilizio del dopoguerra fu uno stupro: trauma difficile da cancellare. esta cià non vuol più gear via niente, nemmeno gli avanzi del pasto, né liberarsi di pustole, e putredini; non più. Conserva. Osserva. La gioielleria è dietro l’angolo, incastonata con la sua insegna in una palazzina a due piani, dalle parti di San Giusto. Vetrine incorniciate d’oro, e dentro, anelli, braccialei, collanine e prestiti a strozzo, così si direbbe. Io resto fuori, mentre Giuliano sbriga la faccenda. La signorina Lo Jacono ha una camera blindata che un tempo era il cuore del Banco dei Pegni della Cassa Siciliana, al centro di una ragnatela di scale e scaffali fradicia di lacrime e disperazione. Comprata a poco prezzo, come un roame, la camera blindata è stata smontata e rimontata da espertissimi ladri due metri sooterra. Un bunker difeso da un buon allarme e dai tre orangutan
nipoti della signorina, al quale il commissario può accedere in nome di non so quali crediti. Giuliano approfia pure della fotocopiatrice, e nel giro di dieci minuti, esce con un fascio di fogli in mano. La signorina lo saluta sulla porta, apprensiva, come una vecchia zia. – Torniamo in albergo. Dobbiamo studiare – dice Giuliano, accendendo il motore. Orano – 4 oobre 1943 Speravo che l’armistizio cambiasse le cose, che potessimo oenere una libertà maggiore, e in breve tempo, persino andar via. Invece non è così. In fondo siamo sempre dei fascisti. Lo dicono le nostre divise. Ci hanno schierati al centro del campo e ci hanno deo che restiamo prigionieri. Ma potremo giocare a calcio, in compenso, e avere una nostra squadra. Da oggi cominciano gli allenamenti. Due ore di corsa e di esercizi: per tui, nessuno escluso. Orano – 15 oobre 1943 Harry torna a casa. Pure lui. Mi ha abbracciato, abbiamo parlato di quel che è stato, nel campo, e nella follia di questa guerra. Mi ha raccontato della sua terra, degli elfi, del pozzo di San Patrizio e dell’arcobaleno. Te lo devo, mi ha deo. Orano – 21 oobre 1943 Preparo un piccolo pacco dono per te, carissima Antonia, e per i bambini, per farli crescere bene. Orano – 12 novembre 1943 Nella partita di pallone tra Italia e Gran Bretagna, i nostri fanno cinque goals. Loro ne hanno segnati tre. Io sono rimasto in panchina, esultando ad ogni passaggio, contento come un bambino. Gli undici che hanno giocato sono davvero i migliori, tra di noi. Gli inglesi applaudono tue le buone
azioni, anche le nostre, ma i loro volti, a guardarli bene, restano caivi. Noi proprio non ci riusciamo a fingere, e li fischiamo con tuo il fiato che abbiamo nei polmoni. Tra qualche seimana, forse, giocheremo con gli americani. Orano – 20 dicembre 1943 Ci portano via, finalmente, e chiedo di poter salutare Franceschi, e con lui gli altri ragazzi che non ce l’hanno faa. Non hanno disposto alcun festeggiamento, alcuna cerimonia ufficiale. I sudditi di Giorgio VI e di Roosevelt pare siano troppo impegnati a smobilitare la piazzaforte. Si cambia fronte, evidentemente, così pensiamo. Il diario si chiude così, senza alcuna emozione. – Niente che possa farmi pensare ad una ragione sufficiente a scatenare la metà della metà di questa guerra. – Pensaci bene. Può traarsi di due cose: informazioni oppure soldi, e parlo di molti, molti soldi. – I soli oggei di valore che mio nonno abbia posseduto, a dispeo delle sue virtù prestigiatorie, e solo per un aimo, prima di farne dono a mia nonna, sono contenuti nel pendaglio di questa collana: tre diamanti. Ce n’erano degli altri, ma le servirono a sopravvivere. Mia nonna ricevee le pietre ancora grezze insieme al cibo che lui le spedì dal campo di prigionia, dentro una scatola di carne in gelatina. La nonna capì subito di che si traava – era il fiuto di famiglia – e rimase a bocca aperta; vendee molte pietre, per necessità, e la collana servì a conservare quel che era rimasto. Pensò ad una truvatura, un miracolo: le pietre provenivano da mio nonno, dall’oltretomba; e il nonno redivivo confermò, dicendo d’averle ricevute in regalo da un amico, un elfo. – alcuno pensa che tu abbia il suo tesoro –. Scartabella il diario, con furia. – Calmo… – Leggi qua. Leggi cosa scrive il 16 seembre del ’43. Orano – 16 seembre 1943
Harry è rimasto qui. Secondo lui, la guerra finirà presto, ora che siamo alleati. L’Italia ha firmato l’armistizio. Dice pure che si sente a casa, e che è merito mio, in gran parte. Siamo fratelli, dice: in fondo, non è molto diverso dall’Irlanda, qui. Anche qui c’è un tesoro, e sta in fondo al pozzo dell’arcobaleno. – Harry dice qualcosa, a tuo nonno: si fida di lui, è un italiano, caolico come un irlandese, ed è il suo solo amico, lì dentro. Forse è una scelta d’impeto, ma più avanti, quando va via, si decide ad un gesto che in quel campo è comprensibile: gli regala dei diamanti grezzi, roba che vale poco, o nulla, in quelle condizioni. – Poteva anche significare la speranza di tornare a casa. – C’è un’altra possibile motivazione, per quel dono: una colpa da scontare. Harry era stato un guastatore, e forse aveva fao parte della squadra del massacratore, il Colonnello Stephens. Orano – 15 oobre 1943 Harry torna a casa. Pure lui. Mi ha abbracciato, abbiamo parlato di quel che è stato, nel campo, e nella follia di questa guerra. Mi ha raccontato della sua terra, degli elfi, del pozzo di San Patrizio e dell’arcobaleno. Te lo devo, mi ha deo. Orano – 21 oobre 1943 Preparo un piccolo pacco dono per te, carissima Antonia, e per i bambini, per farli crescere bene. – Dev’esserci un pozzo, o qualcosa di simile, nel campo. – Esao. E tuo nonno, sapendo che potrà spedire della roba a casa, ci tuffa le mani dentro, e dal buio del futuro, cava un pugno di pietruzze che serviranno alla sua famiglia. – Se tuo questo è vero, il problema è che cosa resta oggi, nel pozzo. – Abbastanza da far muovere tre o quaro governi: tuo nonno voleva farci crescere i figli; potrebbe esserne rimasto qualcuno, i diamanti non si sciolgono, col tempo.
– Che ci facevano quei diamanti in un campo di prigionia? – Boino di guerra, o di saccheggio. – Francesco sapeva, e questo impensieriva qualcuno, visto che aveva intenzione di vedermi in frea, forse proprio per raccontarmi ogni cosa. Ma come aveva fao a sapere quel che stava succedendo? – Non lo so. Era un tuo amico. – Niente affao. Era un cliente, uno dei dodici, da tre mesi. – Cosa sai di lui? – Era un avvocato di successo, e aveva una famiglia. Stop. Ho già deposto, commissario, ricorda? – Tu non ti rendi conto. Sei morti e potrebbero non bastare ancora. Io non mi ci vedo a parlare in una relazione ufficiale di un intrigo internazionale, di un diario e di un tesoro nascosto da qualche parte in Algeria. Con questa roba posso dire addio all’inchiesta e alla carriera. Se c’è del vero, in troppi si stanno dando da fare per nasconderlo, e se è tuo un abbaglio, rischio il ricovero. Sull’ultima frase si rialza, passandomi il diario. – Fine del programma? – Torno in estura. Devo fare qualche verifica. L’indagine rischia di fermarsi qui. – Hai paura di pestare dei calli eccellenti? – elli li abbiamo già frantumati. Aggiorno i miei appunti sulla morte di Francesco. I primi risalgono alla lunga aesa negli uffici della Mobile, all’indomani dell’omicidio. Infarto da coca e da pistola puntata in faccia, scrivo, e traccio un cerchio intorno. Francesco è morto di paura alla sola vista del suo assassino, che non ha capito, e gli ha sparato addosso, certificando l’omicidio premeditato. E con lui, sono stati uccisi il testimone, gli armaioli e i loro assassini. Roba da telefilm americano, tecnica ed effei digitali. Ho voglia di dormire, e mi addormento, di colpo, anche se per pochi minuti appena. Solita precipitazione dal cielo alla nave in tempesta, e quando arrivo al fondo, e tocco il pavimento della stiva, nel buio di una noe di fantasmi, al freddo, con il puzzo del pesce ammuffito, il sogno si ripopola: c’è il Coroner, con la mascherina, e sul tavolo di marmo, Ella Fitzgerald, sventrata, che non smee di cantare.
Il mio è un cellulare di ultima generazione, un computer con tastierina. Le prime note di Summertime segnalano l’arrivo di un SMS. Ti mando i miei saluti. Alberto. Significa che ha spedito un’e-mail al mio indirizzo di lavoro, Lorenzaviam@yahoo.it, tredici interlocutori, me compresa; oggi dodici: Adèle è solo un’avventizia. Nella sala leura, accanto al bar, c’è un computer. Mi ha scrio un tuo amico. Scusami se non te l’ho deo prima, ma sono stato in giro. Mi sembra preoccupante, quel che dice. Ho dato una scorsa, pareva uno scherzo, ma forse non lo è. Alberto. P. S. Avrà avuto il mio indirizzo da una tua e-mail colleiva. Siamo in troppi, ormai. «Non ci conosciamo, mi chiamo Francesco e vorrei che riferisse presto del messaggio in allegato alla nostra comune amica. Non usi il telefono. Pericolo». L’allegato non c’è, l’antivirus ne segnala l’avvenuta distruzione. Fatico a riconoscermi nella donna che lentamente solleva lo sguardo e mi osserva, nello specchio, con un’espressione stravolta. Così è andata, allora. Francesco voleva parlarmi di tua la faccenda, quella sera. Aveva spedito un’e-mail ad Alberto, che nel mezzo del suo eleronico cammino era stata interceata e contaminata. Io non gli ho risposto, e lui ha capito d’esser stato scoperto, ha avuto paura, e si è deciso a raccontarmi tuo, di persona. Forse è stata una reazione istintiva: voleva proteggermi, chi sa da che cosa, oppure voleva togliersi un peso dalla coscienza, e l’hanno fermato. – Giuliano? – Sono in riunione. Posso raggiungerti tra un paio d’ore? – Te ne prego. ando torna, ha la faccia che avevo io allo specchio. Gli hanno ingiunto «in latino» di non fare più nulla – indagini, interrogatori, impronte – chiuso per metà del pomeriggio in una stanza con due pezzi grossi del Ministero, di un Ufficio che in teoria nemmeno dovrebbe
esistere, sepolto da scandali, commissioni parlamentari, processi e riforme. La signorina Serianni, hanno aggiunto, può continuare ad incontrarla. «La sua vita privata non ci interessa. Non adesso». Potrebbe tornar loro utile, un giorno, ricordargli che non sta bene andare con le puane. Non è solo questo che vuol dirmi. Mee una mano in tasca e tira fuori il mazzo di chiavi di un’auto, che fa tintinnare a dieci centimetri dal mio viso. – Sono quelle chiavi? – elle di Oliveri, e il portachiavi – fa il commissario, indicando l’orseo che regge il mazzo, il caro Winnie – non è un portachiavi. È una memoria portatile, da computer. C’era questo, dentro –. Mi porge una pagina. L’allegato. Sei in pericolo. Un pericolo vero, che non immagini. Il tuo Gianmarco ha fao una sciocchezza, mostrando i ricordi del nonno ad un suo cliente, uno storico, che ha trovato foto e diario molto interessanti, e ha avviato una piccola ricerca sul campo di Orano, interpellando l’archivio militare inglese. Ha svegliato un cane rabbioso che dormiva da sessant’anni. Gli inglesi nemmeno ci pensavano più ai diamanti africani, alla grande rapina in motoscafo, alla strage della nave ospedale. Scusa, ti spiegherò dopo cosa voglio dire. Il punto è che con il ritrovamento del diario di un prigioniero e le curiosità di un vecchio professore universitario in pensione, si rischia uno scandalo. I francesi sanno tuo, e vogliono usare la vicenda, recuperare il diario che ti ha lasciato tuo nonno, e i diamanti. Sono stati loro ad assoldarmi. Mi hanno promesso tanti soldi. Ma ho paura che possano farti del male. Io mi tiro fuori. Ho già altro di cui pentirmi. Ti chiedo scusa. – Ora è il mio turno di stupire: c’è qualcosa che tu non sai. – Non mi meraviglio più di nulla. – ando sono tornata a Palermo, la sera che hanno ammazzato Francesco, una donna, fisico atletico, vestita con un giubboo nero da motociclista, mi ha guardata con insistenza, mi si è avvicinata, e mi ha infilato in tasca un biglieino. Eravamo al Ritiro Bagagli. Io ho aspeato la mia valigia per due ore. Lei è andata via subito, parlando al cellulare. La sera che siamo andati alla «Rosa di Alessandria» era lì anche lei, con un
uomo che forse era il marito e forse non lo era. Le ho mandato con una cameriera il numero del mio cellulare. Ci siamo viste, quella noe stessa. ando sono andata via, al maino, ho notato una splendida motociclea, una BMW di grossa cilindrata, parcheggiata in giardino. E sai cosa? – Cosa? – Adèle aveva un chiarissimo accento francese. – Non posso nemmeno farla sorvegliare. – Forse il divieto dei tuoi voleva impedirti proprio questo, di sorvegliare la donna. Lei arriva insieme a me in aeroporto, e vorrebbe aaccare boone. Ma la chiamano al cellulare, le dicono del cambio di programma dell’avvocato Oliveri, dell’appuntamento con me al Genio; infila un biglieo nella mia giacca, corre in motociclea fino alla Vucciria, e ammazza Francesco. – E la pistola? Se l’omicidio è stato anticipato per una decisione improvvisa, come avrà fao l’armaiolo a consegnarle la pistola, tra l’aeroporto e piazza Rivoluzione? Lei non poteva averla con sé in aeroporto. Avrebbe rischiato di essere fermata al metal detector. – Non so. A meno che… – A meno che? – Si è scontrata con un uomo, uscendo dalla sala Ritiro Bagagli. Ha perso il bagaglio a mano, e quello l’ha raccolto, l’ha tenuto in mano per qualche secondo, e ha parlato con lei: per scusarsi, ho pensato. Ma non sono riuscita a vederlo in viso, ero troppo lontana. – Ha una logica. O forse, si traa solo di coincidenze. – Io non credo alle coincidenze, e qui ce ne sono una decina in fila. – Oliveri non ti aveva chiesto del nonno, del diario? – Prima che lo ammazzassero, non sapevo neanche dell’esistenza del diario. Può darsi che gli abbia raccontato del bauleo, però. Noi parlavamo di tuo, da amici, in fondo era il mio solo cliente palermitano, l’ultimo legame con Palermo. – Clienti? Ti circondi di banditi e nemmeno te ne accorgi, distraa come sei dai soldi. – Il tuo tono è sbagliato, e tra un po’ cominceranno i risentimenti. Non voglio saperne. – Nessun risentimento. Solo che non capisco come tu possa fare la puana e dimenticare chi sei, facendo a meno persino di guardarti intorno.
– Cazzate. – Dovresti smeerla. – Neanche tu vai troppo per il soile. – Io le arresto, le puane, e questo per me ha un senso. – Potresti farlo. Manchi solo tu all’appello, del resto: mi hanno minacciata, arrestata, sequestrata, e i morti mi stanno grandinando addosso –. Sulle mie guance arrossate scivolano due lacrime testarde, mentre la mia voce si lacera come vecchia pergamena. – Scusa – dice soovoce, avvicinandosi. – Di cosa ti stai scusando? – D’avere alzato la voce, d’aver deo delle stupidaggini. Restiamo così, respirando lentamente, accartocciando quel che resta della sua morale in un ammasso da fiamma ossidrica e pompieri. – Perché hai smesso di far la giornalista? – Non lo so. – Perché? – Leggimi le labbra: non-lo-so! – Mai capito il labiale. Perché hai smesso? – È un terzo grado, il tuo, commissario? Devi aver saltato la lezione, al corso. Servirebbero una lampada puntata sul viso e un paio di manee per incatenarmi al tavolo. – Sto aspeando. – Vuoi che ti racconti di quando, come e perché con un articolo ho buato giù, dal Paradiso all’Inferno, due santi che sulla coscienza avevano undici omicidi, commessi da un mafioso per conto proprio e in nome dello Stato? Omicidi che i santi in questione avrebbero dovuto impedire, ad ogni costo. I due monumenti non hanno gradito, commissario, e il direore ha deviato il siluro dal suo culo al mio. – Avresti dovuto resistere… – No, era tempo che… – Ti decidessi a difendere i sacri principi… – Giusto tu dovevi capitarmi… – Lo so, sono insopportabile. – ando iniziai, credevo che il senso penultimo, quello che spea al genere umano di elaborare, fosse sepolto da qualche parte, soo il giorno per giorno, e che il mio compito fosse di ritrovarlo. Non ci ho messo molto
per accorgermi che non c’era assolutamente nulla, in fondo. Il mio compito era di rassicurare, di far quadrare il cerchio. Per la cronaca, potevo scegliere tra cause sociali e degenerazione morale; per il resto – politica, cultura, economia – tra guelfi e ghibellini. Non cercavo nulla, non trovavo nulla. Ho lavorato a Roma, nella redazione di un seimanale femminile, e la mia rubrica dava dirio a qualche comparsata in tv. Sui monitor vedevo quel che vedevano in regia: una marocca da copertina, un décolleté serigrafato come un anfiteatro e due cosce di proporzioni auree. E finalmente ho capito: se non puoi sconfiggere il tuo nemico, scopatelo –. Alla fine dell’arringa, la mia lingua è secca come un pollo dimenticato nel forno. – Una puana colta non si trova ad ogni angolo. – Le cose cambiano. Più sai, più roba hai da vendere. Il punto è cosa e a quanto. Vale anche per gli uomini, il teorema, intendiamoci. – Dunque anch’io… – Sei tu quello che giudica, tra noi. – i sei tu che sbagli. Io faccio il fureo, azzanno la preda e la porto nelle mani del signore col fucile. – Ecco la tua mercanzia. Fiuto, gambe e denti. – Per le gambe, facciamo metà prezzo, e le schegge di piombo che stanno ancora dentro, sono in omaggio.
Capitolo XIV Dopo l’assai franco scambio d’opinioni di ieri, Giuliano si è addormentato sul divano, rileggendo il diario, scrivendo qualcosa, sul suo piccolo computer portatile, e pentendosi dei suoi peccati. Niente sesso, tra mercenari. Fatica e riposo, per lui. Mille e una noe d’insonnia, per me, macinando pensieri, schivando elfi, pigmei e cannonate, e risalendo a galla dopo un naufragio da siluri. Ora però ho tuo chiaro, so quel che devo fare. Mi rivesto in perfeo silenzio, faccio i bagagli, indosso la collana e richiudo delicatamente la porta alle mie spalle. Neanche un clack. Al portiere chiedo di rintracciarmi un taxi. ando torno, un’ora e mezza più tardi, Giuliano è ancora in catalessi. – Sveglia, sveglia, sveglia, sveglia, sveglia… – dico, alzando gradualmente la voce, mentre gli sbao un cuscino sulla testa: una, due, tre, quaro volte. – Dobbiamo fare in frea. Prevenire il disastro, e andare in Algeria, ad Orano. – Cosa, cosa, cosa vuoi fare? – rantola. – Prendere le mie precauzioni, evitare che ci ammazzino: facendo arrivare un messaggio a chi di dovere, e recuperando quel che è mio, se c’è ancora. Poi sparirò. Se vuoi, puoi accodarti. Il suo silenzio è sufficiente, posso prenderlo per una risposta. Divido i compiti. – Tu cerca di capire in che modo possiamo raggiungere Orano. Dovrebbe partire una nave, da qualche porto, Palermo, Trapani o che so io. Servirebbe un’auto, forse un fuoristrada: vedi se possiamo noleggiarla all’arrivo. Io andrò a parlare con Bevacqua. Devo prendere l’iniziativa. – Prudenza. Devi essere prudente. – Tasterò il terreno. – Altrimenti? – Andrà tuo a puane!
La segretaria non mi fa neanche finire di parlare e mi passa il «doore». È cortese, al telefono, Bevacqua, e risponde che sì, mi riceverà subito. Se lo aspeava. – Troppi morti, doore, non crede? – Spero non s’accorga della maschera che indosso. – Un fao eccezionale, sì. Confido che abbiano finito di sparare. – Sono proieili internazionali. Potremmo chiedere alle pistole che li hanno sparati, se ancora restano dei colpi in canna. Magari lei riuscirebbe a rintracciarle. – Io provo della simpatia per lei, signora, più di quanta non gliene abbia manifestato finora. In altri tempi, io e lei ci saremmo dedicati al nostro lavoro – alle nostre vocazioni, direi – con maggiore soddisfazione. – Bisogna sapersi adaare. Lei ha un’idea di quel che sta succedendo? – Incredibile che su fai vecchi oramai di sessant’anni si dia luogo ad un conflio, non crede? – Sta parlando di mio nonno? – Suo nonno si trovava su una nave ospedale di ritorno dalla Libia. Non riusciva a spiegarsi gli inglesi come riuscissero a sapere tuo, di noi. Ci stavano addosso, ma non vi era alcun traditore: loro riuscivano a interceare i messaggi in codice della nostra Marina Militare e di quella tedesca, e a decifrarli. «Enigma», ricorda? – Sì, l’MI5, l’MI6, Churchill, e tuo il resto. – L’affondamento della nave ospedale avvenne il 15 aprile del ’41, per opera di un aerosilurante di Sua Maestà Giorgio VI. Ora, le dirò ciò che non dovrei dirle, e che, all’occorrenza, negherò d’averle deo. – Non chiederò conferma –. I teorici della recitazione apprezzerebbero la freddezza con la quale lo invito a proseguire, tacendo la mia curiosità sulle fonti miracolose delle sue conoscenze. – Tra i feriti di El Alamein e i medicinali, c’erano due cassee da moschei, piene di diamanti, confiscati dagli italiani ad un convoglio inglese. Una squadra britannica, su un motoscafo veloce, andò a recuperarle. Pochi uomini senza scrupoli, guastatori guidati dal Colonnello Alexander Stephens, che per godersi la vecchiaia pensò bene di denunciare la scomparsa, tra i flui, di una delle due cassee. Non gli credeero, e lo lasciarono marcire in galera, per punirlo del massacro. Mi ha seguito, fin qui?
– Non perfeamente. – Il punto è che della seconda cassea, dopo molte ricerche, non vi fu più notizia, e i Servizi di sicurezza britannici finirono per archiviare la pratica, estremamente scomoda: quei diamanti erano costati una strage di italiani: medici, ammalati, infermieri. La squadra inglese aveva sparato più del dovuto, e i sopravvissuti avevano aeso a lungo di esser ripescati: solo tre o quaro ore dopo l’assalto del motoscafo di Stephens, erano giunte delle lance, che li avevano condoi su un incrociatore inglese. Su tuo, diamanti, viime, colonnelli, s’abbaé il silenzio. Fino alla morte di suo nonno, e al ritrovamento di quelle pagine, rimaste segrete. – Il diario? Cosa potevano saperne? – Lei conosce Gianmarco Baaglia, antiquario con gallerie a Roma e a Londra? Diciamo pure che vi frequentate con profio. Sei mesi fa muore suo nonno, lei consegna il bauleo a Baaglia, perché lo ripari: lui però ne osserva il contenuto, ne rimane incuriosito, ne parla in giro, e la pratica è riaperta. Tuo chiaro? – Gianmarco è legato ai Servizi inglesi? – No, non risulta. Oliveri, invece, verrà reclutato da quelli francesi, interessati ai diamanti, certo, ma anche al diario: a quel che mancava del diario, soprauo: al racconto della strage, vista da un testimone oculare del capolavoro di Stephens. Sa, uno scandalo, con la Gran Bretagna sul banco degli accusati, in questo momento di gravi tensioni, tra chi è a favore e chi è contrario all’offensiva in Medio Oriente, avrebbe forse giovato ad una certa ripresa del dialogo, in Europa e con gli Stati Uniti. – Era ricco, Francesco, però: aveva tuo quel che si poteva desiderare. – Soldi ne aveva pochini. Aveva esagerato con la cocaina, in una festa nella quale una ragazzina era finita in coma. Oliveri era precipitato in un’inchiesta che aveva fao scandalo, ed era stato mollato dai suoi amici e dai suoi referenti politici. Sei mesi in clinica per smeere e lì era stato contaato dai francesi, che gli avevano proposto, in cambio di molto denaro, di darsi da fare con lei, di entrare nel giro dei suoi clienti. Un posto si sarebbe liberato presto. – Guido Mori… – L’ingegnere, proprio lui. Cinquantoo anni ben portati, morto improvvisamente a Merano, per un collasso cardiocircolatorio. – L’hanno ucciso?
– L’omicidio resta solo una probabilità, nonostante l’esumazione del corpo e l’autopsia. Se c’era una traccia, il tempo l’ha cancellata. Le analisi non hanno rivelato nulla. Ma la probabilità è decisiva, dal nostro punto di vista, se corroborata da altri elementi indiziari. Mori non aveva mai avuto problemi al cuore. E un infarto può essere indoo in molti modi. – È stato Oliveri? – Non credo proprio. Uccidere qualcuno è un’arte: lei lo sa! Oliveri era un bracciante occasionale, che non ha reo, e ha ripreso a sfamarsi di cocaina, chiedendo soldi, tanti soldi, e minacciando di rivelarle tuo. I francesi hanno reagito. Dovevano assolutamente evitare che Oliveri parlasse. i entra in campo un’altra sua recente conoscenza. – Di chi sta parlando? – Ricaccio indietro le lacrime, non voglio che mi veda piangere. – Della reclutatrice di Oliveri, suo primo e unico contao con i francesi: Adèle, alias Magdalene Chaillers. Aveva preso in affio una deliziosa villa a Mondello, in via Primavera: al numero uno, se ricordo bene. Il proprietario, per trentamila euro, aveva acceato di lasciar dentro tue le sue cose. Magdalene ama vivere nel lusso, sa? Suo padre era un atleta senza medaglie, e nel tempo libero, un ladro d’appartamenti, mai pizzicato in Francia. Si trasferì a Palermo, alla fine della carriera, ebbe una figlia e inaugurò un circolo tennistico. Dieudonné Chaillers resistee una decina d’anni; prescrii i suoi reati, tornò in patria e si fece ammazzare da un impiegato miope in vestaglia e pantofole. Magdalene è una specialista in truffe e omicidi, perfea per i francesi: doppia nazionalità e spregiudicatezza unica. Ha ucciso Francesco Oliveri e ne ha preso il posto, profiando della sua disponibilità, signora, ad accogliere esponenti di entrambi i sessi. Una straordinaria esibizione, con il capolavoro dell’incontro casuale al ristorante: sembrava fosse deato dal destino. ella sera, a casa sua, lei non aveva con sé il diario, no? – No, era a Roma –. Lo guardo drio negli occhi. – Il sequestro, da parte dei francesi, era inevitabile, dopo l’insuccesso della loro agente che, dopo averle inutilmente vuotato la borsa, per rimediare prese possesso, quella stessa noe, di una stanza prenotata nel suo albergo, a pochi metri dalla sua, lasciandola dopo meno di un’ora. – Abbastanza per una perquisizione.
– Certosina. Lei dormiva di sasso. Avranno usato qualcosa, per assicurarsene. Uno spray. – Ma se era il diario che cercavano, non bastava un crimine più semplice di una cospirazione di queste proporzioni? – Lei e il diario. La Chaillers cacciava due prede. – Conoscete ogni suo movimento, per non dire dei miei. Avreste potuto arrestarla. – Neanche per idea. el che ha fao la Chaillers, che per sua informazione è tornata ad Avignone già da un paio di giorni, riguarda la Francia, paese del quale ha la ciadinanza. Mia cara signora: su di lei, sul tesoro del nonno e sul diario, hanno lavorato i francesi e gli inglesi, in modi che sono stati ritenuti intollerabili. – Sono stati gli italiani a liberarmi, facendo fuori i francesi? – L’Italia tutela i suoi ciadini, l’inviolabilità del proprio territorio; cerca di costruire nuove alleanze nel Mediterraneo. Lei s’è trovata in mezzo ad un maldestro tentativo di far risorgere vecchi rancori e vecchie egemonie. Non le succederà più nulla, visto che il diario non dice nulla di compromeente, faa salva la morte di quel tale, Franceschi. Lei però dovrà sforzarsi di tacere, e dovrà chiedere al suo amico commissario – un amico che mi dicono esserle molto vicino – di fare altreanto, e di non agitarsi. Il tesoro, dia rea a me, non c’è più, e quel diario, pur se mancante di qualche pagina e sostanzialmente innocuo, farebbe meglio a tenerlo ben conservato. – I morti, però, non contano nulla. Italiani che uccidono francesi e inglesi, francesi e inglesi che ammazzano italiani e si scannano tra loro. Sempre che sia andata così. Non riesco ancora ad esser certa di chi ha ucciso chi, e perché. – Difficile dirlo: è un intreccio troppo fio, come la rete d’interessi che sta dietro a questa guerra. – Ma è come se ci fosse stata davvero una guerra, per lei. Sono morti… – Preferisco parlare di caduti, e non s’indaga sui morti in guerra. – Door Bevacqua, vuol dirmi che non ci sarà un’inchiesta, su Mori, Oliveri, il testimone, gli armaioli, quei due sciolti nell’acido? – Un’inchiesta ci sarà, eccome. Sarà molto lunga, ed approfondita. – E non porterà a nulla. – Lei parla l’inglese, signora?
– Discretamente –. Devo frenarmi, o smeerà. – Sa cosa vuol dire whitewash? Pulire, o sbiancare. Il peggio che io possa farle, adesso, è non meerla sull’avviso per quel che l’aspea. Il carcere può essere persino un luogo di ristoro, nelle sue condizioni. – Per chi lavora, lei? Per lo Stato italiano, per le sue leggi, o per che cosa? – Non so se ha già deo abbastanza, ma non lo reggo più. – All’imperfezione dei codici, in alcuni specialissimi casi, soccorrono le ragioni più intime dello Stato: mai coincidenti con la verità ufficiale e i sentimenti dei più. Un tempo, esse fondavano l’autorità sugli individui, sulle loro qualità specifiche, non su gruppi indistinti. L’ho lea in un vecchio libro, questa frase, e me la ripeto, ogni tanto, come una litania, quando non capisco un ordine, ma sono costreo ad eseguirlo –. Ha l’espressione straniata dell’uomo di legge che intervistai per la tv francese: prima di rispondere sull’omicidio di un sacerdote, volle rendere omaggio alla troupe, leggendo Montesquieu per mezz’ora, in francese. – Arrivederla e dorma bene, cara signora. Mi saluti tanto il door Paternò. Scivola fuori dalla sua scrivania e mi conduce alla porta con un sorriso forzato. La segretaria parla soovoce al telefono, e l’argomento deve divertirla molto. L’uomo incarcerato nella gabbiea panoica delle informazioni ascolta paterno le confidenze di due o tre inservienti. Esco dal palazzo giurando a me stessa che non vi rimeerò più piede. Il mio rito di purificazione prevede nuovi acquisti. Pantaloni e camicie in fibra leggerissima, elastica: per me e per il commissario. – Tuo bene? – Giuliano ha in mano due valigie e due bigliei, per la nave che tra un paio d’ore partirà per Orano. – È andata, e dovremmo esser tranquilli, finalmente. Tu avevi ragione su tuo, ma la storia è molto più intricata di quel che si poteva immaginare –. Lo carico anche del pacco con il nécessaire per il Sahara. Nei dieci minuti del mio racconto sul colloquio con Bevacqua, Giuliano mi ascolta immobile, dinanzi all’albergo, dimenticando persino di poggiare le valigie per terra. ando finisco le sue mani sono di un colore rosso porpora. Il viso, bianchissimo, non ha più una goccia di sangue. el che gli leggo dentro non mi fa piacere. Vorrei dirgli dell’altro, vorrei che la pensasse diversamente, vorrei provare a convincerlo che le cose stanno in un certo modo…
Ma non c’è tempo. Andiamo al porto, in taxi. – Ho lasciato la mia casa, a Roma. Le mie cose stanno in un magazzino. Gianmarco si è occupato di tuo. Non dice una parola, il commissario. Pensa. Pensa. Pensa. – Cosa hai deo al lavoro? – gli chiedo. – Ho ferie arretrate per un anno di vacanze. Ho chiesto un mese, per cominciare. Non è troppo. E a ripensarci, avrei potuto chiederne subito sei, me li avrebbero dati: era felicità quella che ho visto negli occhi del estore. Spezzeerà le indagini, ogni omicidio per i fai suoi, e salverà il culo. Il suo e il nostro. La donna che ci sta davanti, nel corridoio che conduce alle scale per i ponti superiori, si blocca d’improvviso, geando uno sguardo piccato all’indietro. Le sarà sembrato che il culo in questione fosse il suo: ragguardevole davvero.
Capitolo XV È una nave da trasporto merci, e ha poche cabine riservate ai passeggeri. La nostra, con un po’ di fantasia, è una suite: un leo da una piazza e mezza ed una sorta di soggiorno, con due divanei d’alluminio. Mi chiudo in bagno per una doccia bollente, e dall’oblò osservo le onde che s’aprono soo la chiglia; mi fingo donna del capitano, del corsaro, del re dei mari, asserragliata nel castelleo di comando. La navigazione è serena. Tocchiamo terra il giorno dopo, all’ora stabilita, le 17. Noleggiamo una Range Rover bleu, una Rolls da deserto. Se solo sapessimo dove andare! Potremmo affondare tra le dune, perderci in un mare di sabbia finissima, nella polvere di cometa che ricopre la patria delle geometrie universali. C’è una leggenda che racconta di un asteroide che spazzò via le foreste, polverizzò ogni genere d’animale, e in cambio lasciò il sapere misterioso delle stelle. Non trovo differenze, tra questa parte d’Africa e l’egiziana. Gli stessi contrasti di colore, su un fondo bianco e pastello, i medesimi volti bruciati dal sole, e gli sguardi carichi d’intenzione. Che se ne faranno, gli uomini del deserto, dei confini, delle linee ree tracciate sul nulla da europei senza passione? Ci trasciniamo dalla Dogana al posto di Polizia, con due valigie bleu elerico che paiono fari al tramonto, e araggono navi e zanzare, bambini e divise cachi. Subito ci dividono, e Giuliano finisce in una stanza illuminata a giorno, dietro una vetrata: alla porta, c’è una donna, una polizioa, o forse un’impiegata civile. Me, al contrario, mi scortano in un ufficeo in penombra, il soffio basso, e sporco. Due uomini parlano tra loro, e non muovono un muscolo quando accenno un saluto. Mi seggo e mi guardo intorno, con discrezione. Un armadio metallico trabocca di registri e faldoni ingialliti; le sedie, grigie, sono appena ingentilite da una polverosa imboitura color vinaccia. Sui tavoli, dei telefoni bianchi, senza visore;
uno ha la cornea fuori posto. Tum tum tum, tum tum tum, tum tum tum. Occupato. Un’ora dopo, ho esaurito ogni risorsa. Uno dei due polizioi, quello grasso, dorme profondamente. L’altro si contempla le unghie verdastre e ricurve, intento in un lavoro di ripulitura condoo con un coltello a serramanico d’avorio, dalla lama finemente cesellata, lunga e lucente; ogni tanto, mi osserva, di soecchi. La porta si apre e il polizioo intento alla manicure solleva lo sguardo, ed è un tu’uno con la precipitosa chiusura del serramanico e lo scaare in piedi, quasi sull’aenti. L’uomo dietro la porta dice qualcosa che non capisco, in arabo. Vedo solo le sue scarpe, eleganti, italiane. Chiude la porta, non prima di ricevere dal suo interlocutore l’omaggio di un mezzadro, cappello in mano e abbozzo d’inchino. Tra i due polizioi, il graduato dev’essere il grassone, perché l’altro lo sveglia rispeosamente e a voce bassa gli riassume l’ordine appena ricevuto. La traduzione è in un «Madame», e in una porta che si apre. Come dire: può andare. Giuliano parla con la donna intravista prima, che ha un fare autoritario. – Era il capo, la brunea: una mia pari grado – chiarisce il commissario, restituendomi borsa e documenti; le valigie sono già nella macchina parcheggiata all’ingresso di questa scalcagnata stazione di polizia. Per la strada, mi racconta della conversazione: avremmo dovuto annunciare il nostro arrivo, e il suo soprauo, quello di un commissario della polizia italiana, armato e senza un fax di preavviso. – Per un aimo, avevo pensato ad un arresto, o ad un sequestro, per abitudine. E invece, era solo un benvenuto. – Un poco risentito. Hanno voluto la mia pistola. – E tu gliel’hai lasciata? – Ho deo che si traava di una missione improvvisa: dovevo accompagnare un testimone soo protezione lontano da Palermo. – Il testimone sarei io… – La pistola, comunque, se la sono tenuta. Hanno chiesto se avessimo bisogno di una scorta, e ho avuto paura che la vicenda prendesse le vie formali delle autorizzazioni ministeriali. Ho deo di no, che non potevano trovarci, i criminali, qui in Algeria. Ad ogni modo, tra due giorni al massimo voglio andar via.
– Due giorni non basteranno. – Ce li faremo bastare. In albergo, la doccia porta via un’ora delle quarantoo a nostra disposizione. Acqua fredda e sapone in busta. Poi passo ai miei intrugli miracolosi. Il telefono squilla poco dopo la liquefazione del balsamo di tigre. – Madame, siamo qui – fa una voce, e capisco istantaneamente di che si traa. – Commissario, la scorta –. Gli passo la cornea e Giuliano si pietrifica, che nemmeno il tocco della Medusa… Al telefono, dopo un hello! tintinnante e dieci secondi di silenzio, dice che non intendiamo allontanarci, che passeremo la noe qui, e che alla sorveglianza in camera basta lui. L’indomani, ce li ritroviamo nella hall, inespressivi, e nella sala da pranzo, per la prima colazione, un po’ a disagio. Giuliano, dopo una discussione di un certo valore, in euro, torna al tavolo con la faccia monella, dicendo che uno dei due si è sentito male, improvvisamente, e che abbiamo dieci minuti per andar via. Al portiere, raccontiamo che vorremmo fare un giro turistico, e chiediamo qualche consiglio: lui risponde, illustra il percorso e, senza saperlo, si prepara a riferire ai due polizioi della Sezione ietovivere, o forse ai colleghi che verranno a rilevarli. Al tassista, invece, diciamo di portarci al campo. Non so, dice, non so cosa sia, dove sia. Lo aiutiamo a ricordare con una medicina universale, quella che ha steso la scorta, e lui dice di aver capito, ma non vuole arrivare fino in fondo: può lasciarci nei pressi di un bar a tre o quarocento metri dal nostro obieivo. Non dice altro, passa dal francese all’arabo, e sputa per terra. La strada è irregolare, arata da ciclopiche ruote di autocarro e dai cingoli di chi sa quali mezzi pesanti: carri armati ed autoblindo, si direbbero; ma forse stanno solo facendo dei lavori nei dintorni, e si traa di ruspe ed autotreni. Il bar è chiuso, e la sola presenza vivente è quella di un paio di corvi, che si fermano a tre o quaro metri da noi, sulla cresta di un solco d’argilla, e restano a guardarci, neri e bellissimi, due demoni. Le finestre delle tre palazzine sono chiuse, e al citofono non risponde nessuno. Anche il campo
è chiuso, e sulla rete metallica che lo circonda non c’è un solo filo ossidato; nuova di zecca. Può darsi che intendano farne un grande parco naturale, un luogo della dimenticanza. Mi giro per istinto e vedo due uomini che mi guardano da una jeep scoperta, un Hummer, al di là del recinto, con una livrea militare che mi ricorda l’Africa Korps di Rommel. Uno alza un fucile mitragliatore, bofonchiando una minaccia, ma l’uomo alla guida fa retromarcia, lo ziisce, e gli fa segno di meere giù il cannone. – Erano due fantasmi? – Forse, ma stavano per spararci. Al nostro ritorno, i due polizioi, ancora loro, dormono su un divaneo. Non li svegliamo. Nel pomeriggio, andiamo al Municipio: è nella cià vecchia, e i nostri gorilla pensano ad un altro giro turistico. Gli impiegati del Comune non sanno nulla, e ci rinviano alle Informazioni per Stranieri. Proviamo con gli anziani seduti per strada, i negozianti, i mendicanti, con tui quelli che ci capitano dinanzi agli occhi, purché abbiano almeno seant’anni; fotografiamo tui, e ci facciamo fotografare con loro, come vecchi amici: recitiamo la parte degli italiani stronzi e invadenti. Poi scaa la domanda. Di quel campo, però, nessuno ricorda l’esistenza. Un entusiasta si dichiara mio poggiandomi una mano sul culo, le cinque dita che si aprono e si chiudono, a ventosa, guardandomi fisso negli occhi. Io e Giuliano ricambiamo all’unisono il gesto affeuoso, stringendo una chiappa per ciascuno, e quello quasi si mee ad urlare, mentre s’allontana, di corsa. Sento il pianto di una bambina, acutissimo, inarrestabile, e lo inseguo. Dietro l’angolo, c’è una vecchia giostra. A disperarsi è l’unica ospite: avrà due anni. La madre è uno scheletro di quaranta chili che guarda la figlia con occhi di resa, e le fa un segno con le mani, come per abbracciarla. L’uomo che sta ai comandi, accosta al viso un cerchieo di plastica, soffia, e delle bolle di sapone, lentamente, s’alzano in volo. Le veuree della baracca elerica sono devastate dal tempo, fasciate di scotch marrone, prive del volante, e i finti comandi, le frecce e il cambio, penzolanti o senza più gioco.
Torniamo in albergo, fra vacanzieri maschi del Toscana Club Fuoristrada Tour, funzionari di imprese petrolifere, ingegneri, progeisti, faccendieri, e francesi bene imbiancati alle prese con il rilassamento dei visceri e dei ricordi coloniali. Tu’intorno, cresce il solito muschio d’albergo, uguale da Casablanca al Cairo, incluse un paio di colleghe in tiro: colleghe mie, stavolta. Due africane, nigeriane forse, passate per chi sa quale carovana, e a che prezzo. Sono vestite di bianco. Due spose che subito mi strizzano l’occhio. Ma è una sera castissima, la nostra, pure se insidiata da spezie e afrodisiaci: a cena, riesco a malapena a distinguere tra verdure e agnello, la lingua in fiamme. Spegniamo l’incendio in tre, a leo: io, Giuliano e una vedova di vent’anni, imboigliata Clicquot Ponsardin. Lascio il bicchiere vuoto sul comodino, e mi addormento, sfinita. La tassa ietovivere, l’indomani, ha subito un ritocco: cento euro contro i cinquanta del giorno prima. È l’altro polizioo a sentirsi male, stavolta: il sooposto. Un problema di gerarchia, di dignità del grado, questo dev’essere. Il tassista s’avventura coraggiosamente fino al bar vicino al campo, molto lentamente, e con la promessa di un extra. Prende i soldi, arabeggia e sputa per terra, anche lui. La saracinesca è chiusa, ma c’è un uomo seduto soo la tenda sfilacciata, un vecchio dagli occhi soili. So poco, dice: il campo, una volta, era una prigione, nella quale, insieme ai caivi, stavano i buoni; entrambi, poi, hanno preso a scambiarselo come una saponea. Il vecchio si interrompe, e il suo viso assume i trai del silenzio, di chi sa e non dice; dietro quelle fessure biancolivastre, ci studia aentamente, valuta se e fin dove può mostrarci il sentiero. Fa segno a Giuliano di avvicinarsi, e in un orecchio gli sussurra di incontrare una donna che vive dall’altra parte di Orano, sorella di un uomo che conosce bene il campo (ne è quasi la memoria vivente, avendo lavorato per gli alleati): il suo nome e la strada in cui vive, tracciati dal vecchio sul retro di una ricevuta, sono un incomprensibile cumulo di curve e puntini. Il tassista legge e annuisce.
Capitolo XVI – Je m’appelle Amelie. Venez avec moi. Je vous indiquerai où vit Omar –. A piedi, però, e i suoi muscoli allungati, nonostante la schiena curva, di trenta gradi all’incirca, non perdono un passo. Va veloce, fino ad una scuola, un edificio di concezione moderna, fasciato di larghe vetrate, specchi incorniciati da pilastri di cemento armato; risalirà agli anni Seanta. Ci fa segno di aendere al di là della cancellata malconcia, Amelie. Apre una porticina turchese, l’unica sul vecchio cubo bianco in fondo al cortile polveroso, ridoo ad un deposito rugginoso di ferraglie. Urla qualcosa, verso l’interno del casoo, guardandosi bene dall’avvicinare il naso all’uscio, e torna indietro. Ci passa davanti senza dire nulla, e va via. – Merci, Amelie. – Pas de quoi, les italiens. Omar dort. La porticina resta spalancata. Non sappiamo cosa fare. Restiamo lì, ad aendere gli eventi. Omar vien fuori dieci minuti dopo, vestito di un camicione bianco, lungo fino ai piedi. In testa, porta un cappello da baseball, nero come la pece. – C’est vous les italiens? What do you want? – Parla un eccellente francese e un inglese metallico, risonante. – Oui, nous sommes les italiens. Ou plutôt, les siciliens –. Sorrido, per geare un ponte tra noi e quella salamandra avvizzita. – Mafieux. Killers –. E il suo è un modo per troncare subito. – Nous ne sommes pas des assassins. Siamo qui per vedere il campo, la prigione americana. Mio nonno è stato prigioniero, nel campo, tra il 1941 e il 1944. Potete accompagnarci? – Meo su il viso più pietoso che ho in repertorio. – Je ne peux pas. Non posso, ho dimenticato tuo. Sono troppo vecchio perché ricordi quei fai. Non mi piace viaggiare nel mio passato –. Si fa nervoso, la voce tremula, che scende di tre oave, i denti serrati, gli occhi come booni troppo piccoli per le due asole sfrangiate dal tempo.
– J’ai besoin de votre aide – dico, senza guardarlo. – Au revoir. – Je peux payer. – Adieu. Ha messo una ventina di passi tra noi prima che io possa replicare, e supplicarlo nuovamente di darci una mano. – Sai come si dice? – fa il commissario, che per l’intero scambio è stato a bordo campo. – Passo. – Pregare o pagare. Non ha funzionato. Il vecchio è duro, incazzato col mondo. Dovremo trovare qualcun altro che ci accompagni. – alcuno che sappia del campo quanto ne sa il vecchio! – Raddoppio. – Si è fao tardi. Possiamo cercarlo domani? Nemmeno ci siamo accorti che, lui a destra e io a manca di quella stradina bianca, sfregando gli intonaci polverosi di calce, stiamo seguendo Omar, il quale, cieco e sordo di noi, ci accompagna per le vie della cià. È un vecchio ancora in carne, e i suoi baffi sono più voluminosi dei baffi di mio nonno. ando entriamo in una locanda, l’uomo saluta l’oste e i due uomini seduti all’ingresso. Le donne hanno il capo coperto: mi guardano male. Il cibo, però, è cucinato sui fornelli del Paradiso. Omar ci ha visto, e noi reggiamo il suo sguardo appuntito. Uno, al suo tavolo, si alza e va via. Ci dimentichiamo in frea del perché siamo lì, e ci alziamo solo dopo aver lustrato il piao dell’insalata di cetrioli con l’ultimo frammento di pane, poco lievitato: chi sa se anche qui, come in Palestina, lo chiamano pia. La strada del ritorno è illuminata a giorno; il volto della luna è preoccupato, e ci segue con lo sguardo. Ho l’impressione che qualcun altro ci stia alle costole. Scaccio i caivi pensieri, e mi lascio avvolgere dagli odori e dalle suggestioni. Poi succede. Solo gli imbecilli non si fidano delle prime impressioni. Me lo ripeto mille volte mentre mi prendono a boe, sul sedile posteriore di una vecchia auto, due uomini avvolti fino al capo in due lenzuola. Sento le urla di Giuliano, che ci corre dietro. L’autista sgomma, e s’allontana. Uno mi stende il braccio con forza, e offre la vena alla siringa
del suo compagno. Non protesto, non urlo. Meglio star buona, buona, buona, buo… Non mi calo da vent’anni. Solo una canna, di tanto in tanto. Ora, invece, mi sollevo di un paio di metri, e sparisce ogni rumore, intorno a me, e mi sento leggerissima, della stessa sostanza dell’aria, e del pulviscolo che si fa visibile in ogni sua microscopica fibra al mio cristallo potentissimo… egli uomini si sgonfiano nei loro sacchi di cotone, e io vedo un fiume di sangue che si tinge di azzurro e si riversa per la strada, un maremoto psichedelico che mi raggiunge, e mi trascina soo, soo, soo… Non respiro, affogo, sto per morire. Precipito in un buio infinito, un pozzo che mi conduce al cuore oscuro e spento della terra, ed è la fine d’ogni ordine e d’ogni speranza. Non c’è alcuna luce, niente! Un sussulto, e riapro gli occhi con un forte dolore alla nuca, alla fronte. Mi tocco la testa e scopro che mi hanno imposto lo hijab. Mi strappo faticosamente dal capo quello straccio che mi soffoca. Il sole cade a piombo sul budelleo nel quale mi ritrovo, sul mosto sfrigolante d’ogni possibile lerciume, tra i rifiuti accumulatisi per anni; qui, nel vicolo posteriore delle buone coscienze. Provo a rialzarmi, ma la droga che mi hanno inieato mi piega le gambe e mi toglie il fiato. Resto lì ancora un poco. Dormo. La donna che mi accudisce, al risveglio, ha due occhi nocciola così grandi che sembrano uova di piccione, e dei segni di vaiolo sulle tempie e su quella porzione di volto che sfugge al velo. Le sue mani sode mi accarezzano, mentre un uomo pompa nello sfigmomanometro che mi stringe il braccio sano: l’altro, mi accorgo, è devastato da un’iniezione eseguita male, parzialmente ricoperto di ceroi, e lucido di medicamenti. Sono in una stanza d’ospedale, distesa su un leino di ferro che avrà il triplo dei miei anni, rasserenata dalle mura bianco celesti, illuminate da un lampadario al neon. Fuori, sta albeggiando. Avverto ancora un forte dolore al capo. Mi assopisco, nuovamente. Sogno mia nonna. Velata, anche lei. Stringe la mano di mio nonno, e aspea, su una panca. Altre mani mi accarezzano, adesso. Apro un occhio. Giuliano. – Ti cerco da due giorni. E tu, che fai? Dormi! – Anche qui… – Non riesci a tenerti lontana dai guai.
– Perché? – Ti hanno riempita di sedativi ma, a parte le boe, non ti hanno fao altro. Forse, volevano portarti via, per sapere qualcosa, da te, e non ci sono riusciti. Ora dormi, stai tranquilla. – Il vecchio… – Omar… La sua baracca è vuota. Sparito. Torno a mia nonna, e a mio nonno. Ora so che sto dormendo, e voglio farlo il più a lungo possibile, su una nuvola di piume, a mille metri da terra. La flebo fa il suo lavoro. Acqua, zuccheri, depurativi. Il quarto risveglio assomiglia ad un miracolo. L’affanno, la pesantezza sono scomparsi: si è diradata la nebbia che m’oundeva il cervello. – Buongiorno. – Cosa è successo? – Ti hanno drogata e bastonata. Ora, hai espulso il veleno, poco per volta. Una donna ti ha trovata in una specie di discarica, e ha dato l’allarme. Io avevo denunciato la tua scomparsa all’ambasciata italiana e alla polizia algerina, e ti ho trovata in quest’ospedale. Sei viva. – Non è ancora, ancora… – Insomma, quasi. Fuori della camera, rivedo la panca del sogno, solo che ad occuparla, adesso, sono i due polizioi, il sooposto e il graduato grassone, baffuti, gli occhi innervati di sangue e bile. Si alzano, con calma. Erano lì per me, e il loro turno è finito. ando rientriamo in albergo, la reception è deserta. Il portiere è scomparso. Giuliano scavalca il bancone e recupera le chiavi. Nella stanza, è passato un uragano: lenzuola, vestiti, tuo per aria. Cerchiamo i passaporti che, inaspeatamente, sono al loro posto. Giuliano si precipita sul telefono. Ora il portiere risponde: sostiene che non ne sa nulla, si è allontanato per qualche minuto; vuol sapere se manca qualcosa. Capita, spiega. C’è un cartello, all’ingresso: la Direzione declina ogni responsabilità… Neanche lo lascia finire, Giuliano, e riaacca. La noe passa quasi in bianco. Ci scrolliamo di dosso la paura, e riusciamo ad inventarci un passatempo, a metà tra un massaggio thai e un bagno turco, finché non scivoliamo l’una sull’altro, sudati, esausti.
L’indomani, Omar ci aspea nella hall. Ha un occhio nero, e una fascia bianca intorno alla testa. – Siciliani, eh? – Ora parla anche l’italiano, la salamandra, arrotando lievemente l’erre. – Mafiosi. Assassini –. Torno a scherzare. Incredula. – Le camp nous aend, avec ses anges, et ses diables. Il vecchio è un altro uomo, gentile, perfino. Zoppica e mi accorgo che la sua gamba destra è fuori uso: devono averlo pestato per bene. Un bel trio, con me e Giuliano. Tira fuori da non so dove una tenaglia, con la quale esegue un foro nella rete, e ci porta a visitare le baracche, le zone di lavoro, la mensa, il campo da gioco. Un teatro di guerra. Ovunque, proieili, tizzoni anneriti, rifiuti, tende ancora montate, che paiono esser state abitate fino a ieri. – Cela faisait longtemps que je ne revenais pas ici. Vietato. Cartelli, guardie, soldati armati. Ora sono andati via, hanno smontato l’accampamento che stava sul gran prato. – Il prato? ale prato? – Juste derrière le réfectoire, gli americani avevano fao un campo da football. Avevano tolto le pietre, portato la terra, seminato un prato. Rainbow Team, così si chiamava la squadra. Eccola, la leggenda irlandese, il prato, il pozzo di San Patrizio, il tesoro. La cassea era stata sistemata soo le docce, dove finisce l’arcobaleno: rainbow. Andiamo, allora. – Les diables sont partis. Ils étaient nombreux. – E gli angeli, Omar? – Ils étaient seulement deux. Sono arrivati sei mesi fa. E per una seimana, hanno fao impazzire i diavoli, volando ad un paio di metri d’altezza. Un uomo e una donna, credo: lui la trascinava amorevolmente per la mano, mostrandole il campo. Io stavo là dietro, come ogni sera –. M’indica un rudere, oltre i confini del campo. – Madame Serianni… – Una voce, da lontano. Mi guardo intorno, terrorizzata. Un uomo sta accanto a due jeep chiare – due Land Cruiser lunghe come pullman – e con lui, stanno tre uomini. Sono tui in giacca e cravaa. ello che sembra il capo, ora s’avvicina a grandi passi, tendendomi la mano destra spalancata. Omar è scomparso, fuggito via in un lampo, per la seconda volta.
Capitolo XVII – Madame Serianni, Monsieur Paternò. Mi dispiace di non essere riuscito ad arrivare in tempo al porto e all’albergo. Vi aspeavamo. Capirete, questi sono stati giorni difficili. Ma tuo si è risolto per il meglio, mi pare –. Nel dirlo, accarezza la Range con lo sguardo. – Chi è lei? – Scusate, non mi sono ancora presentato –. Il suo italiano è buono quanto il mio francese. – No, non ancora – lo fulmina Giuliano. – Sono un suo collega, commissario. Sono il delegato Shakri, Mohamed Shakri. Immagino che vorrete vedere la cassea lasciata qui dal signor Serianni. Seguitemi, è in macchina. Non credo ai miei occhi e alle mie orecchie, e la salivazione è azzerata. i, come a Palermo e a Roma, tui sanno tuo. Spiano, rapiscono, uccidono, e non appena il lavoro è terminato, infilano una maschera di gentilezza e sorridono come se non avessero fao altro, in vita loro, che frequentar saloi e tennis club, portando vestiti e scarpe di gran classe: quelle del delegato sono italiane, Ferragamo. Shakri fa un segno ad uno dei suoi uomini, che spalanca il portellone posteriore di una delle jeep e solleva il tappetino e la lastra metallica del cassone: nel doppiofondo, avvolta in una pesante coperta grigia, c’è una cassea sporca di terra. L’uomo la spolvera un po’ e la schioda con un cacciavite, senza difficoltà, come fosse stata già aperta, e tira fuori una sacca di pelle soile – di capra, immagino – che passa al Delegato. Shakri mee dentro un braccio e recupera un fagoino e un quaderno. – Cominci a legger questo –. Mi porge un foglio, staccato dal resto. Orano – 1 gennaio 1944 Potresti esser tu, a legger quel che ho scrio, mio figlio, nipote, amico, o sconosciuto, capitato qui per caso, o per fiuto.
Lascio qui la prima parte del mio diario; se me la trovassero addosso, sarebbero guai. Porto con me la seconda parte. Non voglio dimenticare. Chiunque tu sia, fa in modo che si sappia quel che è accaduto. Un saccheo di pietre è tuo quel che ho lasciato, insieme al diario. Il tesoro del Colonnello Stephens, rubato da quel forziere che io ritenevo una semplice nave ospedale, la mia, adesso dovrebbe essersi trasformato in una splendida chiesa di maoni rossi, in un campo di calcio, in una casa per gli anziani e in una scuola, da qualche parte, alla periferia di New York. Padre Ellio ha fao tuo per bene, meendo i diamanti nel fondo delle sue casse, tra le statuee e il crocifisso. E dire che io nemmeno me la ricordo più, New York; Brooklyn, per me, era una specie di Sicilia. – Vorrei che leggesse tuo. Io ho il compito di riportare indietro quel che era contenuto nella cassea: questa parte del diario, soprauo, la prima; della seconda, è sufficiente la copia fotografica che ci è stata inviata qualche giorno fa. Sto accovacciata sui talloni. Il caldo fa dell’ossigeno materia solida, e i miei polmoni respirano a fatica. Il diario, poi, è come se mi togliesse quel poco di fuoco che mi resta, e cerco un sostegno, un masso sul quale appoggiarmi, prima di perdere i sensi, e ritrovarmi lunga distesa sulla sabbia. Vado avanti, saltando dalla prima pagina – sui primi giorni di guerra di mio nonno – all’ultima, che racconta dell’affondamento della nave. Orano – 17 aprile 1941 Sono riuscito ad asciugare il diario, con il fiato, tenendolo sul corpo. Voglio ricordare quel che è successo. La nostra nave era un grosso mercantile requisito ad una compagnia di navigazione privata, verniciato di bianco e trasformato in ospedale, con infermerie, corsie, sale operatorie e dormitori. Nella noe del 10 aprile, aveva raccolto a Bengasi, appena riconquistata, un centinaio di feriti, e dell’equipaggiamento, per tornare in Italia: avrebbe fao tappa a Trapani e quindi si sarebbe direa a Napoli. Con noi c’erano anche dei bambini, che dovevano esser curati da specialisti.
Non avrebbero dovuto toccarci. Sulla ciminiera avevamo dipinto una croce rossa alta quanto una palazzina: una nave di soccorso può viaggiare con le luci accese, e ha una sorta di speciale immunità. Invece ci hanno colpito, e dopo un po’ sono saliti a bordo: erano in pochi, cinque o sei, mascherati, e un paio di loro sono rimasti sul motoscafo. Si sono fai strada sparando. Avranno subito ammazzato una ventina di soldati, e di medici, che tentavano di fermarli, di impedir loro di passare tra i feriti più gravi e i bambini. Li guidava un tizio non molto alto: dava ordini secchi, con le mani; sparava lui per primo, anche sui leini, e sulle culle, per terrorizzarci. Ridevano, ubriachi, posseduti dal più feroce tra i diavoli. Sono scesi giù nelle stive, e hanno portato via qualcosa che doveva interessar loro parecchio. La nave imbarcava acqua rapidamente. Avevano anche lanciato delle bombe a mano, laggiù, per farci affondare più in frea. Non appena sono andati via, abbiamo calato le scialuppe, e abbiamo salvato quelli che potevamo salvare. elli che non riuscivano a reggersi sulle loro gambe, inclusi i 24 bambini, sono tui morti. I soccorsi sono arrivati molto tempo dopo. Siamo su una nave inglese, e stiamo tornando in Africa. – Avreste potuto prender tuo. Perché non lo avete fao? – Il diario lo prenderemo noi, signora. Volevo però che, almeno una volta, leggesse su queste pagine ciò che era accaduto a suo nonno. el che resta dei diamanti, poi, tolta la giusta percentuale speante al nostro governo, ha ancora un discreto valore. Un’eccellente eredità, i miei auguri – dice, porgendomi il paccheo, e una busta sigillata (una copia del diario, ipotizzo, piegandola); nel prenderli, manca poco che li lasci cadere. – Il diario piacerebbe molto alla Francia, vostra grande amica: potrebbe meerlo su un piao della bilancia dei suoi rapporti con l’Inghilterra. – esto diario è stato solo un pretesto, mia cara signora. Non è stata questa piccola enquête en sommeil a solleticare il mostro: non quest’indagine in sonno. – Non capisco. – esto campo racconta la storia del nostro Paese, e anche di più. Dopo il ’45, gli algerini cominciarono a pensare alla loro indipendenza, ma i francesi non erano d’accordo. La Legione Straniera assoldò ex nazisti ed
ex fascisti, e l’OAS, ad Orano, guidata da Guerin Serac, addestrava qui i suoi uomini, tra le baracche e il filo spinato lasciati dagli anglo-americani. est’organizzazione razzista, dal ’59 al ’62, anche dopo l’Indipendenza, fece migliaia di morti: bombe, incendi, torture, ad Algeri, Bona, Orano, Urgla. Gli archivi francesi saranno inaccessibili per chi sa quanti anni ancora; dopo, ne sono certo, non si troverà più alcuna traccia di Serac e dell’OAS. – La morte ha accompagnato mio nonno fin qui, ha giocato con lui, e l’ha lasciato andare. Aveva la faccia di un colonnello inglese. – La morte ha molte facce. Mio padre è morto a Parigi il 17 oobre del 1961, durante la ratonnade, la caccia al topo organizzata da un uomo che non è mai stato punito per i suoi omicidi. Mio padre era un funzionario coloniale che aveva deciso di farsi francese. Lo presero una sera, per strada, e lo obbligarono ad un tuffo nella Senna, dopo averlo pestato a sangue. Mia madre lo ritrovò il giorno dopo, sulla riva, e riuscì a riportare il suo cadavere ad Orano. Partimmo senza nemmeno fare i bagagli. E ricominciammo da zero. Sperando che fosse finita. – E invece no! – Trent’anni dopo i francesi, sono arrivati i terroristi. Hanno sgozzato, sventrato, decapitato migliaia di donne e di uomini. Poi è finita, o quasi, non so più come. L’ho dimenticato. Bisogna dimenticare, per andare avanti, non crede? –… – Mi scusi, arrivo al punto. Ora le cose sono cambiate. I francesi, dopo gli ultimi scandali, non hanno più voglia di mandare qui degli uomini. Si limitano a manovrare. – i è successo qualcosa. Ora. Non sessant’anni fa. – Fino a pochi giorni fa, da questo campo – una grande fiera militare delle reali finalità della quale non avremmo dovuto formalmente saper nulla – passavano armi, munizioni, diamanti, da e verso la Guinea Bissau, la Sierra Leone, la Costa d’Avorio, il Rwanda, il Burundi… – Devono aver contato sul sostegno di qualcuno, in Algeria: vuol dirmi questo? O forse, da queste parti, la polizia è molto, molto distraa. – esto era un supermarket dell’orrore, gestito da un ex mercenario passato al business.
– Hanno devastato tuo: cingolati, autoblindo… – dico, e mi viene in mente che in questo dannatissimo mestiere si sono esercitati, con profio, tanti pargolei illustri, e un paio di teste in aesa di corone posticce, senza più regni. Forse anche qui i complici stanno in alto. – Gli siamo stati addosso, finché il fastidio si è fao insopportabile. Lei sa che quel diario ha fao saltare i pistoni fuori dei cilindri? Si è sparato molto, da queste parti, di recente, mentre lei dormiva in ospedale: da terra e dal cielo. Abbiamo vinto noi. – E gli inglesi? – Sapevano, ma a loro bastava sapere. – Capisco –. Oro puro, per l’Archivio Misfai e la Divisione Ricai. – I francesi, invece, avevano previsto perfeamente i rischi della situazione che poteva crearsi: il diario avrebbe finito per far saltare tuo, come una cicca accesa in una polveriera, se solo la notizia fosse arrivata alle orecchie sbagliate. – Anche voi avete giocato a questo gioco. – L’Algeria è tanti paesi insieme, Madame: da un lato il governo di Bouteflika, che sa dialogare con l’Occidente, dall’altro i terroristi, i nostri, ancora caldi, soo la cenere, e pronti a divampare nuovamente, nel vasto incendio che si prepara, da Baghdad a Rabat. In mezzo, ci sono tui quelli che credono nelle scorciatoie. – I più pericolosi… – Noi vogliamo crescere: dobbiamo farlo. Deve cercare di capire. La Francia ci è amica, diciamo così, ma dovremmo chiederle di esserlo in modo diverso, e la Gran Bretagna potrebbe aiutarci, anche a costruire delle buone relazioni con i nostri vicini mediterranei, e con quelli che in teoria dovrebbero esserci nemici. – E i diamanti? – Fa sempre comodo avere dei contanti che non passano da bilanci ufficiali o commissioni ministeriali, dei quali non rispondere a nessuno. – Fa comodo a tui –. Specialmente ai servizi segreti: incluso il tuo, Mohamed. – Troppi per giocare ad un solo tavolo. – Mancavano solo gli israeliani. – Lei ne è proprio certa, Madame? –…
– Anche il Mossad! – Deflagra, finalmente, mon commissaire. – Voi italiani vi siete comportati molto bene. Guardando quando c’era da guardare, e girando la testa dall’altra parte al momento opportuno. Lo salutiamo stupiti, e facciamo per andar via, ma la chiave gira a vuoto: la Range Rover è morta improvvisamente, di un male sconosciuto. Gli occhi di Shakri sono fissi su di noi. ando sconsolati richiudiamo il cofano, s’avvicina. – Posso aiutarvi? – e in mano ha le chiavi della sua auto. – Potreste approfiare del doppiofondo. Non è igienico, per voi, trasportare quei diamanti in una borsa. Ci penserò io a far ritirare la vostra auto. Mohamed Shakri è un galantuomo, e nelle sue vene scorre certamente il sangue di un’antica dinastia di cavalieri in blu. Noi, comunque sia, abbiamo paura che ci ripensi, lo salutiamo ancora, e più calorosamente. Giuliano lo bacia sulle guance, al solito suo. Saliamo sulla jeep e andiamo via di corsa, schizzando fango tu’intorno. Guido io. – Dovremo far sparire tuo quanto, in qualche modo. O alla prima perquisizione, s’accorgeranno del doppiofondo e di quel che contiene. – Dovresti meer via anche la collana. – Già fao. – Nella cassaforte dell’albergo? – In una nota gioielleria di Palermo, in vendita. Se ne occupa Imburgia. Non ti dispiace che gli abbia chiesto di aiutarmi, vero? E poi, la signorina Lo Jacono è persona di fiducia. Ha già dato un anticipo. Il resto, dopo la vendita. Una buona quotazione, la sua. – Non capisco. La collana di tua nonna? Non ne avevi alcun bisogno! – Io no, ma conosco un mao con tre case e seicento figli, a Palermo, che ne aveva un bisogno urgente. Di quei tre diamanti. E di questi altri che portiamo. Indossa anche lui un saio colorato. Come quell’ex armaiolo che vive in comunità. – Salvo Imburgia dice sempre che c’è un gran bisogno di pazzi, in questo mondo. – Visto che ci siamo, ai pazzi: Imburgia mi ha fao un’altra piccola cortesia. – Sì? E quale cortesia? Ti mei a trafficare con i miei uomini, ora? – Non sembra sorpreso, forse ha già notato una certa complicità con il suo uomo.
– Ho trovato una fonte aendibile, commissario, e il tuo vice mi ha aiutato ad indossare nuovamente microfoni e trasmienti, prima di tornare da Bevacqua per quell’interessante conversazione. Abbiamo anche fao le prove, con Salvo: pronto pronto pronto, uno due, uno due; poi mi ha aspeato in macchina, a trenta metri dall’ufficio del Procuratore. La mia migliore intervista: poche domande dietro un’espressione insignificante. Alla fine, Bevacqua mi ha pure accompagnato alla porta. Salvo era contento come un bambino, mi ha deo che la registrazione è venuta benissimo. L’ha riversata su una decina di cd come questo, tui ben conservati: non ho avuto ancora il tempo di ascoltarla. esta macchina avrà un leore, no? Ti va di sentirla? A Giuliano sta per cascare la lingua, mi guarda con una faccia ebete, apre il finestrino e tira fuori la testa, tenendola un poco controvento; poi, si gira verso di me. – L’intervista coi microfoni, Bevacqua, quaro o cinque servizi segreti, le armi, i diamanti… Ti hanno arrestata, sequestrata, bastonata e drogata, fin quasi ad ammazzarti. – Me ne ricordo. Ho ancora qualche livido, la nausea, e ho paura di tornare a camminare da sola per la strada. – Non ti rendi conto… Siete stati dei perfei incoscienti, tu e Imburgia, a meervi contro non sapete neanche chi… – E dire che a Bevacqua mancava un solo pezzo importante per completare il puzzle. – ale, di grazia? – Il commissario s’acquieta, incuriosito. – Il silenzio. – Il silenzio? Cosa cambia, con il silenzio? – Tuo quanto. Ricordi la faccia del silenzio? La cercavi quella noe in piazza Rivoluzione: tui sanno, e tui vogliono mantenere il silenzio; gli inglesi, i francesi, gli italiani, e gli algerini –. Sembra perplesso, il commissario. – Posso andare avanti? – Ti prego – dice. Non aspeava altro. – È solo un’ipotesi, niente di più. Diciamo che gli inglesi sanno del diario, e ne hanno intuito l’enorme potenziale: quelle pagine possono curare, e anche uccidere. La strage della nave ospedale è una vergogna da nascondere ad ogni costo, per l’esercito di Sua Maestà. Ma in quel campo c’è una santabarbara, controllata da Parigi, che può fare esplodere un
pezzo d’Africa. Loro, gli inglesi, sono informati da tempo: dal loro controspionaggio o dagli americani, non so. Vogliono giocare una partita rischiosa, per piegare i francesi, e indurli a smobilitare il campo. Forse pensano di mandare degli uomini ad Orano, quando il terreno sarà sgombro, per scovare i diamanti nascosti dal Colonnello Stephens in un pozzo: li avevano cercati inutilmente, per anni, durante la guerra. Meono su un’operazione coperta che, se riuscisse, e questa è l’ironia, li condurrebbe ad un altro risultato, imprevedibile: il rinvenimento della prima parte del diario, con la sola testimonianza rimasta della strage. – Anche i francesi sanno tuo, così aveva scrio Oliveri nel suo messaggio: del diario, della strage, delle intenzioni degli inglesi; e corrono ai ripari. – Hanno molto da perdere; dalla loro, contro gli inglesi, hanno una sola carta da giocare, la strage. La scoperta del campo militare, gestito da un loro emissario, provocherebbe uno scandalo internazionale, che travolgerebbe il silenzioso governo algerino; e poi ci sono i diamanti, sporchi di sangue. elli usati dagli africani per pagare le armi torneranno a casa, con i trafficanti. Il tesoro di Stephens, però, potrebbero rivendicarlo gli algerini, legiimamente. – Una situazione difficilissima. – I francesi potrebbero aver deciso di meere in scena una commedia: fingono di cedere a chi sa quali richieste inglesi, per non insospeirli, e nel fraempo, cercano di arrivare al diario. Provano a rubarlo dal deposito di Gianmarco, ma non ci riescono: è più sicuro della Torre di Londra. Cambiano strada, ma commeono una lunga serie di errori. – Il primo è scegliere un uomo ricaabile, Francesco Oliveri: troppo fragile, dopo la ragazza in coma, lo scandalo, la droga. – Lo meono al posto dell’ignaro Guido Mori. ando Francesco punta i piedi, i francesi lo minacciano, spedendo le nostre fotografie alla segretaria; e potrebbero spedirle anche alla moglie, questo intendono. Ma Francesco reagisce, prova ad avvertirmi del pericolo che corro, e i francesi mandano a Palermo Adèle, Magdalene Chaillers, per ripetere il gioco: omicidio e sostituzione. Adèle compra la sua pistola a Palermo e la gea via dopo l’omicidio, ed è il secondo errore. Uccide un morto, ed è il terzo errore; il quarto è farsi notare da un testimone, ucciso anch’egli,
inutilmente. ando noi arriviamo sulle tracce dell’armaiolo, però, non sono i francesi a meersi in mezzo. Ed era questo che non mi tornava. – Sono stati gli inglesi ad intervenire. – Erano qui da tempo: ricordi il biglieo in albergo? Ti sono vicino, diceva. – Chiaro. È la regola del conflio, o del silenzio, se vuoi: gli inglesi sanno di quel che hanno fao i francesi a Palermo, sanno dell’assassinio di Francesco Oliveri, e quando noi imbocchiamo la via giusta – che parte dall’armaiolo, Muffeini o Treppiedi –, loro intervengono, ammazzandoli entrambi, per fermarci, e per confondere ulteriormente le acque; ed è come se dicessero che la partita si gioca al tavolo, mai fuori. – E fin qua ci siamo. Ma chi ha ammazzato i due inglesi? – alcuno che stava loro addosso, da tempo. Potrebbero esser stati i francesi, no? – Lo dice e non ci crede, Paternò. – Certo, potrebbero esser stati loro. Io, però, ci ho fantasticato sopra, dopo aver parlato con Bevacqua. Lui sostiene che l’Italia ha difeso la sua sovranità, e le sue alleanze. Credo che dica il vero. Penso che siano stati gli italiani a far fuori gli inglesi: in fondo, erano già intervenuti, con le armi, dopo il quinto errore dei francesi: il mio sequestro. E in questo modo, avrebbero lanciato anche loro un messaggio: «Fuori tui!». – Salvandoti la vita, probabilmente, e chiudendo il cerchio. Ma a te non sta bene lasciar le cose come stanno. O no? – Non è a me che devi chiederlo, Giuliano. esta faida sarà giustizia per gli africani trucidati in massa con le armi di Orano? Per Francesco, Guido e il testimone di piazza Rivoluzione? Per tui i morti? Per le loro famiglie? – Il testimone, quasi ce ne dimenticavamo! Chi l’ha ucciso, secondo lei, cara Miss Marple? – Si allunga sul sedile, il commissario, e accavalla le gambe, cinico in posa fotografica. – Abbiamo identificato, con certezza, solo due degli assassini in gioco: Adèle e Paul Fraud. Se non loro, avranno sparato gli italiani. – Li punirai tui, con questo compact disc? – Ho ancora degli amici, tra i giornalisti. Ieri ne ho chiamato uno: Bill Armstrong, del «New York Times»; anni fa l’avevo accompagnato in giro per la Sicilia, per un’inchiesta. È stato davvero molto gentile. Gli ho spedito una busta con un cd, in esclusiva. Falso miente e destinatario
sconosciuto: un suo amico. Ti spiace se ci fermiamo ad un telefono pubblico? Sai, per gli aggiornamenti, le novità algerine. – Sai cosa sto pensando? est’auto dev’esser piena di cimici e trasmienti. Non credo che la nostra Range Rover si sia guastata così, d’improvviso, per caso. Gli uomini di Shakri avranno roo qualcosa, e lui era lì, pronto, con le chiavi della sua jeep tra due dita. Sorride. – Ma è questo il bello. Shakri ha piazzato microfoni e trasmienti per ascoltarci, per esser sicuro che avessimo capito. Perché, altrimenti – secondo te – ci avrebbe raccontato tuo? Perché si sarebbe esposto così tanto, anche sul suo Paese, sulle complicità tra la parte grigia del suo governo, i grandi trafficanti e l’amatissimo nemico francese? Shakri s’aspea che facciamo il nostro dovere! Giusto, signor delegato? La cabina che ci è assegnata, sulla roa per Barcellona, è più piccola di quella occupata nel viaggio da Palermo, e ha due lei a castello. A Giuliano, per l’eccitazione, non tira. – Stanoe si dorme.
Capitolo XVIII Il viaggio fino a Cabo Verde, via Spagna e Portogallo, è durato oo giorni, con due valigie che nascondono un tesoro. Abbiamo applicato alla leera le prescrizioni del Manuale del buon fuggiasco, cambiando direzione più volte, mutando il nostro aspeo e liberandoci d’ogni cosa che potesse lasciar tracce: documenti, cellulari, carte di credito. alcuno, per i notevoli servigi resi alla sua parte, non so quale, ce ne ha regalati di nuovi, raccomandandoci di farne buon uso. Mi restano solo i segni dell’ultima bastonatura. Poco male. ando vuoi liberarti delle camicie di forza che ti sei cucita addosso – legami, presunzioni, errori – per ripartire da zero, in te miracolosamente prende a scorrere l’energia di un reaore nucleare. Io ho ricominciato pensando ai miei nonni angeli, al loro primo viaggio insieme, ad Orano. Sembrava finita, quando ho chiamato i miei genitori, a Perugia, in casa di un’amica, ad un giorno e ad un’ora che ci erano stati comunicati. Sembravano molto ansiosi di avere mie notizie. el poco che sapevano, li aveva spaventati, più della mia scomparsa improvvisa, e di tua quella polizia intorno. – Che cosa vi hanno raccontato? – Nulla. Abbiamo leo, piuosto. Un tuo amico, americano, ci ha spedito un giornale. – Gli avevo dato il vostro indirizzo, scusatemi. – C’è un articolo con una storia incredibile. L’hanno spedito via fax. L’introduzione è anonima, da aribuire alla Direzione. LE GUERRE SEGRETE DI PARIGI E I SILENZI DI LONDRA A Palermo, un’inchiesta su una lunga catena di morti sembrava essersi arenata definitivamente: nessun colpevole, dopo il nulla di fao delle indagini. Ma l’intuito di un magistrato, e la sua fermezza nel respingere ogni forma di pressione, hanno consentito che si facesse luce su un intrigo internazionale di prima grandezza. Tuo comincia da un diario, quello di un prigioniero italiano nel
campo anglo-americano di Orano, in Algeria, durante la seconda guerra mondiale, e finisce per svelare i reali interessi auali di diversi paesi su una parte importante del continente africano e, in particolare, gli interessi della Francia, che in cambio di diamanti ha fornito armi sia ai governi sia alle fazioni antigovernative di almeno cinque paesi. Anche l’Inghilterra ha giocato pesante. La storia è davvero molto interessante. E prima di raccontarvela va deo che per 12 ore abbiamo inutilmente aeso una risposta ufficiale del ai d’Orsay, del Foreign Office, della Farnesina e di altri Ministeri degli Esteri: in primo luogo, di quello algerino. Francesco Oliveri era passato in pochi mesi dal Codice Civile a ben altri codici: quelli usati per comunicare con il servizio segreto francese. Era un avvocato, e finì ucciso in una piazza di Palermo. La piazza per eccellenza, nell’antico Mercato popolare della Vucciria. In francese, Vucciria, Boucherie, si traduce macelleria… C’è una doppia firma in fondo all’articolo, sulla prima pagina del «NYT»: quella di Bill Armstrong e la mia, Lorenza Serianni. Devo aver dimenticato di dirgli che ho cambiato mestiere.
Capitolo XIX Siamo a Cabo Verde da tre mesi, oramai, e forse resteremo qui a lungo: non è Malindi, quest’isola, e gli italiani sono pochissimi, e non fanno colonia. L’ultima tessera del mosaico è una leera del commissario. È stato lui a mostrarmela, sullo schermo del suo piccolo computer da viaggio: l’ha scria poco dopo il nostro arrivo. Mi ha giurato d’averla subito spedita al destinatario, e di non aver più alcun obbligo, con questo. Spe. Ufficio 7 Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare SEDE Oggeo: Rapporto conclusivo. Caso «Orano». Il sooscrio, PATERNÒ Giuliano, Commissario Capo P. S. presso la Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Palermo, per quanto di propria competenza, relativamente alla richiesta di collaborazione avanzata da codesto SERVIZIO per la vicenda di cui all’oggeo, invia rapporto conclusivo su positivo esito indagine e servizio di protezione testimoniale di «SERIANNI Lorenza». Segue Rapporto. N. 18 pagine. Ora capisco le sue tante licenze, le rivelazioni, i giudizi, l’avermi esposta, per proteggermi, il nervosismo e i contrasti con quegli altri, il gruppo «B». Al suo posto, avrei tenuto per me il segreto, ma gli uomini innamorati confessano sempre, si sa, anche le sveltine.
Post scriptum È vera, pure se in diversa forma, la sola storia del nonno: fu caurato dagli inglesi, lui soldato e fascista, dopo l’affondamento della sua nave, maltraato e rinchiuso in un campo di prigionia, ad Orano, dove rubò in abbondanza e imparò a cucinare (ne ho dolcissimi riscontri), e vera è la vicenda del soldato assetato, e percosso per avere imbevuto un fazzoleo; falsa, naturalmente, la parte del tesoro. a e là ci sono dei brevi spunti biografici, misti ad autentici fai di cronaca. I piccoli echi, le citazioni, i riferimenti leerari o storici non alludono a chi sa quante allegorie, incastrate soo la superficie del testo: sono, per lo più, parte di un divertimento, in un Pantheon tuo mio, affollato di morti e di vivi. Il resto – intendendosi con ciò i personaggi principali e secondari, i due romanzi citati (Sangue nella palude, Il Cancelliere), molti dei tanti aneddoti, la descrizione di Orano, mai vista – è fruo d’invenzione, così come la scena e l’azione dell’intrigo calato in questa nuova guerra fredda, che stiamo vivendo davvero, e che ancora una volta oppone ideologie e massacra uomini e donne, con il solito pretesto del paradiso in terra. Le nostre categoriche categorie perciò non se la prendano troppo con i singoli maltraamenti espiatorii, farmaceutici: Yin e Yang danno vita al mondo (e in Occidente, forza alle cosiddee passioni civili). Vorrei ringraziare chi ha dubitato, leo, annotato e incoraggiato; chi si è visto rubare del tempo in cambio di quasi niente, carta e inchiostro (bianca campagna e nera semenza, scrisse Sciascia). Ma quest’anno i ringraziamenti sono stati dichiarati fuorilegge, e dunque, chi si riconosce, apprezzerà. Dimenticavo. Gli autori americani contemporanei di thriller e spy story trovano le robe occorrenti alla messinscena con cura maniacale, viscontiana, ricostruendo precisamente il contesto e i singoli fai evocati: grandi
scenari e deagli infinitesimi, dal codice identificativo del volo fino al numero esao di divisioni su un terreno di guerra. Non ne sbagliano una. Pazienza.
Indice Lorenza e il commissario Dedica Epigrafe Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo XVII Capitolo XVIII Capitolo XIX Post Scriptum