Premessa
La partenza
Taškent
«Pravda Vostoka»
Un confinato anarchico
Le risposte del presidente orientale
Dall'alto dei cieli
Samarcanda, l'incomparabile
Di casa in casa
Jan racconta
Il processo ai “basmaci”
Bukhara, città declassata
Verso l'Amu Darja
La cambusa del “Pellicano”
Turtkul
Khiva
I tedeschi di Ak-Mecet
Corsa contro il gelo
Verso il nord sconosciuto
Cinquecento chilometri nelle Sabbie Rosse

Автор: Maillart Ella  

Теги: turkestan   studi culturali   storia culturale   asia centrale  

ISBN: 88-7063-612-7

Год: 2002

Текст
                    
Ella Maillart Vagabonda nel Turkestan
Collana: Aquiloni Vagabonda nel Turkestan è tratto da Des monts célestes aux sables rouges © 1990 Editions Payot & Rivages, Paris Traduzione: Silvia Vacca Redazione e impaginazione: Giuliana Martinat Grafica di copertina: Anna Dellacà In copertina foto di Gaudenzio Vineis © 2002 per l'edizione italiana EDT srl 19, via Alfieri -10121 Torino www.edt.it e-mail: edt@edt.it ISBN 88-7063-612-7 Epub by ArM
Indice Premessa La partenza Taškent «Pravda Vostoka» Un confinato anarchico Le risposte del presidente orientale Dall'alto dei cieli Samarcanda, l'incomparabile Di casa in casa Jan racconta Il processo ai “basmaci” Bukhara, città declassata Verso l'Amu Darja La cambusa del “Pellicano” Turtkul Khiva I tedeschi di Ak-Mecet Corsa contro il gelo Verso il nord sconosciuto Cinquecento chilometri nelle Sabbie Rosse
Premessa Grande viaggiatrice. Ella Maillart agli inizi degli anni Trenta si trova ancora una volta a Mosca, nella Mosca ormai cupa dei grandi processi staliniani. Sta cercando di ottenere visti e mezzi per partire verso l'Oriente sovietico, verso quelle popolazioni nomadi, la cui continua ansia di movimento tanto l'attrae, nella speranza di ritrovare presso quelle genti erratiche un modo di vita ancora intatto, capace di rispondere alle inquietudini dell'uomo occidentale. Il momento, invero, e difficile, poco adatto per chi si proponga di attraversare, con il passo lento delle carovane, quelle regioni frontaliere prossime all'Afghanistan e alla Cina, bruscamente proiettate nel XX secolo dalla collettivizzazione socialista. E la situazione politica incerta — a causa del persistere, specie nella Bukharia orientale, di rivolte a carattere nazionalista sospettate di essere appoggiate da governi stranieri antisovietici — consigliano ai competenti uffici moscoviti la più grande cautela nel rilasciare qualsiasi autorizzazione. Né sono sufficienti le numerose e importanti referenze moscovite della Maillart: Pudovkin, il grande regista di Tempeste sull'Asia, il suo non meno famoso collega Ejzenštejn, il poeta Šklovskij o Boris Pil'njak, nella cui dacia in legno si raduna il piccolo mondo cosmopolita di Mosca. Dopo tre settimane di vani tentativi, l'Asia centrale e gli altipiani kirghizi sono ancora un sogno che sembra destinato a non realizzarsi. Un incontro casuale apre uno spiraglio insperato: una piccola spedizione a cui partecipano due coppie moscovite — Augusto Letavet con la compagna Capa, laureati rispettivamente in igiene e fisiologia, e Volodia, biologo eminente, con la moglie Milla — stanno organizzando le proprie vacanze in quelle regioni lontane, al confine con la Cina, e hanno già ottenuto il permesso dell'Ufficio del Turismo proletario. E un'occasione insperata: Ella si aggrega al gruppo che garantirà per lei presso le autorità sovietiche. Il più è fatto.
Dunque via, lontano da Mosca, lungo l'orizzonte luminoso del Volga, verso quelle contrade desolate, verso il lago d'Arai, lungo la sabbiosa, grigia e monotona pista del Turkestan. Ecco Frunze, città giardino, capitale del Kirghizistan, dove la Maillart incontra Vasili Ivanovič, il deportato trotzkista, assetato di notizie dal resto del mondo. E poi Čolpan-Ata e il porto di Karakul, foresta di verde in mezzo a campi dorati di cereali, ai piedi di montagne altissime. L'Ufficio del Turismo è in centro. Corse affannose per ottenere i buoni con cui acquistare generi alimentari di prima necessità al bazar della città; una visita all'affascinante e pittoresco mercato, frequentato da nobili kirghizi, da donne indigene con enormi e splendidi turbanti, da russi, da uzbeki... Qui tutti vendono di tutto, accovacciati di fronte alla propria mercanzia. Solo l'ansia per il viaggio ancora da compiere impedisce a Ella di abbandonarsi alla gioia di quel luogo. La piccola carovana riprende il cammino verso la Sirte, alla scoperta di quell'Asia che fu un tempo impero dei nomadi turco-mongoli, liberi di pascolare le greggi nelle sue grandi pianure. L'ospitalità, qui, è straordinaria. Si cucina e si consuma un agnello secondo riti antichi: per ora la sovietizzazione è ancora lontana, il montone è l'unica moneta conosciuta, misura primordiale di ogni transazione economica. A 4200 metri di altezza, al limite delle nevi perpetue, il colle di Djugušak. Più in basso, in una vallata a 3600 metri, s'innalza l'osservatorio glaciale del Tian Shan dove la compagnia può finalmente riposare. Otto persone vivono qui per studiare le condizioni climatiche di una piana desolata come l'artico, interamente coperta di neve, centro di un mondo immacolato e abbacinante di sole, dominato da alte catene montuose. Lassù, per chi ne ha il coraggio, è possibile avventurarsi solo a piedi o, come esperimenta la stessa Maillart, con gli sci. Il premio per la fatica è una discesa superba: quasi un 'ora di sci su nevi eterne, non toccate dall'uomo. Lasciati i ghiacciai, si scende lungo la grande pista del colle di Bedel, dove una terra nerastra si sostituisce alle nevi. Sul colle di Ak-Bel i venti dominano incontrastati, e sempre il vento sarà compagno di valle in valle per molti giorni, in un paesaggio desolato e monotono, ravvivato soltanto dall'incontro con tre cavalieri kirghizi.
Superbi sui loro destrieri, essi cacciano, come falconieri medievali, con l'aquila reale, pazientemente addestrata con sapienza antica. Ecco la Sirte, un tempo regno incontrastato delle tribù nomadi, libere ma rispettose delle proprie leggi, regolate dalle norme antiche della transumanza. Ora quei territori sono di proprietà dello stato che sta cercando, non senza errori, di incrementare l'allevamento del bestiame. A Karakul è ancora vivo, però, il ricordo della repressione cosacca del 1916 e delle violenza dell'esercito rosso. Ancora passi elevati, ancora neve e poi valloni di polvere giallastra: il deserto di Gobi, oceano di sabbia senza confini, e quindi il Sinkiang, e poi ancora Kuldja, Bazaklik con le grotte dei centomila Buddha, gli affreschi tokhariani in cui rivive un 'intera aristocrazia indoeuropea che nel VII secolo fu di splendida civiltà: quanto grande il desiderio di dirigersi verso quelle zone, e quanto doloroso il dovervi rinunciare perché la situazione politica non lo consente. Meglio dunque dimenticare la Cina e restare nel Kirghizistan utilizzando i giorni ancora a disposizione per visitare un kolchoz, per capire sentimenti e speranze dei giovani che vi lavorano. La discesa verso la piana del Kazakistan, a 700 metri d'altezza, è veloce e termina ad Alma-Ata, la capitale, città in grande espansione demografica. E qui la compagnia si scioglie: gli amici di Mosca torneranno verso la capitale sovietica, mentre Ella, in solitudine, riprenderà il suo vagabondare verso le leggendarie mete del Turkestan: Samarcanda, Bukhara, Khiva, il Deserto delle Sabbie Rosse.
La partenza Prima di partire da Alma-Ata voglio incontrare un esiliato politico. Andando da lui passo a visitare il Museo Etnografico: è in via di ristrutturazione, sistemato provvisoriamente nella chiesa principale, ora sconsacrata, ma sulle cui cupole brillano ancora croci splendenti. Confinato un anno fa in questa capitale in formazione, colui che cerco ha subito trovato lavoro presso l'università, dove ha ottenuto una cattedra di storia. Al calar della sera erro tra le aule ormai vuote nella speranza di incontrarlo; un'ala dell'edificio è in ristrutturazione, in “riparazione”, come dicono in russo. Non vedo nessun custode, ma infine tre allievi dagli occhi a mandorla mi indicano l'alloggio del professore, situato poco lontano. In una stanza stracolma di pericolanti pile di libri, in presenza della moglie e di un giovane studente, il professore mi racconta la sua storia: «Sono stato accusato ingiustamente di far parte di una nuova setta religiosa ed esiliato qui, dove mi sono stati offerti un posto all'università e la direzione degli archivi cittadini. Credo peraltro che stiano rivedendo il mio caso e che presto verrò richiamato a Leningrado. In un certo senso ne sono dispiaciuto, il mio attuale lavoro mi piace molto». Lo interrompo per chiedergli un'opinione sui suoi allievi indigeni. «Non sono meno intelligenti dei russi, e talora persino più perseveranti. Il kazako non ha prontezza intellettuale, ma tiene a mente tutto quanto impara; il kirghizo, invece, è più vivace, più intuitivo, forse anche più scaltro, ma di grande onestà». «Sono religiosi?» «I loro genitori erano maomettani poco osservanti e quindi non si stupiscono dell'agnosticismo oggi imperante». «Ritenete che la loro formazione sarà presto tale da permettere che si governino da soli?».
«Senza dubbio, nulla vieta che ciò debba un giorno accadere. Penso anzi che in un futuro non lontano potranno fare a meno anche dei russi». Alla mia domanda se essi ricalcheranno i medesimi percorsi politici dei dirigenti sovietici, il professore mi risponde di esserne certo. Sul tavolo sono sparsi molti giornali francesi, le ultime pubblicazioni della sinistra. Sulle pagine di un numero di «Temps», vecchio soltanto di tre settimane, leggo della morte improvvisa di Virginie Hériot. Poi, aprendo a caso un testo di Durtain, D'homme à homme, mi cade lo sguardo su una frase che compendia tutti i miei pensieri: «Innanzitutto il mondo, poi nel mondo l'uomo, nell'uomo gli altri uomini. Triplice richiesta rivolta dallo scrittore alla pagina bianca, dal lettore alla carta stampata». Giunta come sono dai confini del mondo, questo brusco ritorno nel contemporaneo mi coglie alla sprovvista, mi lascia sconcertata. Prendo infine commiato da quell'uomo, calvo, glabro, sorprendente, che in una lingua ricercata pronuncia a ogni piè sospinto frasi del tipo: «Il 28 aprile del 1912, durante una cena al Petit-Vatel, Jean Moltimportante mi diceva testualmente...». Attraverso a passo rapido i giardini della città sospirando al pensiero di un buon pasto, malgrado preferisca di gran lunga trovarmi qui piuttosto che al Petit-Vatel! Superate le tre arterie principali le strade cadono nell'inquietante oscurità dei vicoli... Non è facile ritrovare il cammino senza smarrirsi. Colpi sordi battuti su un legno risuonano nell'aria: è la guardia notturna che passa annunciando il coprifuoco. Preparativi per il viaggio Ormai non mi resta che partire. Operazione difficile, anche se posso trarre insegnamento dalle esperienze dei miei compagni. Per il tragitto dipendo dalla Società del Turismo proletario. Il capo della “base” compila per me un modulo per la data fissata che certifica la mia richiesta di un biglietto ferroviario, confermando altresì il mio diritto a un bronnjrovannyj bilet, a un biglietto riservato.
Con questo foglio, la vigilia della partenza mi reco in stazione due o tre ore prima dell'apertura dello sportello. Molte persone sono già in coda. Il primo arrivato ha segnato via via su un taccuino tutti coloro che sono giunti dopo di lui e ognuno viene informato del proprio numero d'ordine: i viaggiatori sono suddivisi in categorie a seconda del documento di cui sono in possesso. Alcuni, pallidi e affranti, sostano dinanzi allo sportello: saranno i primi a partire poiché sono kurortnij in congedo per convalescenza. Ve ne sono già tre. Seguono i comunisti, cui è sufficiente far intravedere il rosso della tessera di membro del Partito. Nessuno chiederà loro altri documenti: il motivo dei loro spostamenti è certamente di primaria importanza. I bronnj, di cui faccio parte, sono assegnati alla terza classe che gode del diritto di viaggiare senza perdere eccessivo tempo. Dopo vi sono i kommandirovka, impiegati inviati in missione dagli uffici dove lavorano; in coda a tutti aspetta chi viaggia per conto proprio, senza dipendere da nessuna organizzazione. Calcolo che, data la mia posizione nella lista, ho almeno due ore a disposizione per andarmene a zonzo. Allo spaccio vanno a ruba panini e fiammiferi e per un rublo è possibile comprare una bottiglia di gazzosa. Al ritorno, il proprio posto è assicurato grazie al numero. Vi è naturalmente qualcuno che cerca di barare entrando nell'ufficio dal retro, subito cacciato a gran voce con piena soddisfazione degli onesti. Arriva un ritardatario che dice: «Krasnij» e si mette in coda proprio dietro l'ultimo comunista; quando gli viene richiesta la sua tessera mostra di sfuggita una carta di un vago colore rosso, palesemente falsa. «Ma vengo per mio fratello che è membro del Partito!». «In coda, imbroglione! Non stiamo qui da tre ore a guardarci le punte dei piedi perché uno come te ci passi davanti!». Per converso, quando sopraggiunge una donna dall'aria smunta e con un bimbo in braccio, la persona a cui spetta passare acquista subito il biglietto anche per lei. Ad Alma-Ata, stazione di partenza di numerosi convogli, è facile trovare posto; per Taškent pago trentaquattro rubli, ma la prenotazione è valida soltanto fino ad Arys, dove passa la linea ferroviaria principale, e là dovrò cambiare treno.
Così l'indomani salgo su un vagone e mi sistemo sul duro sedile corrispondente al mio numero, mentre una nuova coda sta formandosi davanti allo sportello; sotto la pensilina aspettano, appoggiandosi ai loro fagotti, i viaggiatori ancora in attesa. Il paesaggio è stupendo. Maestose montagne si innalzano a 5000 metri sopra la verdeggiante città: il blu nerastro delle loro pendici si sbianca di neve fresca da metà altezza fino alla vetta. Con questa linea del Turk-Sib ogni anno dovrebbero essere trasportate dalla Siberia 960 000 tonnellate di cereali, indispensabili per nutrire il Turkestan, paese in cui il cotone ha quasi del tutto sostituito ogni altra coltura. Alla “base”, dove il capo mi ha ceduto un po' di viveri, ho venduto a prezzo di costo piccozza, corda e ramponi. Nella mia sacca hanno preso posto abiti, scarponcini da alta montagna, quattro chili di pane, due di zucchero e due di riso, biancheria, un vocabolario e il doppio sacco a pelo. Nello zaino, il cui peso supera di molto i consueti quindici chili, ho sistemato tutto il resto: fornello, una tanichetta di alcool, pellicole, macchina fotografica, impermeabile, medicine, calze, altra biancheria, burro, tè, miele, un chilo di porridge, due di mele, l'inseparabile padella per friggere e... la pipa per le veglie solitarie. Arys o la perpetua migrazione Ad Arys sorgono le prime vere difficoltà: occorre ottenere un posto per Taškent. Poso i miei bagagli contro il muro della stazione. Là vicino aspetta un uomo, forse un contadino, con lunghi baffi biondi e l'aria sveglia; facciamo conoscenza e vengo così a sapere che parla dall'infanzia il kazako-kirghizo e che è diretto a Taškent. «Arrangiatevi in qualche modo per ottenere una prenotazione», mi consiglia, «nel frattempo sorveglierò i vostri bagagli. Portate con voi il mio biglietto». Nell'atrio della stazione non riesco quasi ad avanzare: gruppi compatti sono accampati da ore, forse da giorni, in attesa di partire
verso un nuovo lavoro, migliori condizioni di vita oppure per diffondere ovunque il verbo socialista. Alle due del pomeriggio lo sportello per Taškent è chiuso: il treno per quella destinazione, che passerà fra un'ora, è ormai completo. Bisogna ritornare questa sera, alle dieci, prima del treno della notte; alcuni coraggiosi sono già in fila e compilano la lista dei presenti secondo l'ordine d'arrivo. Decido di giocare d'astuzia e cerco di arrivare allo sportello passando dal retro, ma la porta è chiusa a chiave. Approfitto del momento in cui esce un impiegato per sgusciare dentro con l'aria indaffarata, ma mi trovo in un'anticamera davanti a un altro sportello. «Signorina, come devo fare per arrivare a Taškent? Sono giornalista e ho molta fretta». «Ah sì? Anch'io ne ho; ritornate questa sera e rivolgetevi allo sportello principale». Mi pare evidente che non è questo il modo di procedere. Mi rifiuto nondimeno di ricorrere all'ufficio della Ghepeu dove, per favorire una straniera, forse mi darebbero un posto, a scapito però di qualcun altro. Al buffet la zuppa di cavoli è buona, ma la carne macinata è veramente immangiabile. Faccio il giro della stazione per sistemarmi all'ombra. Di fronte a me c'è un giardino cinto da una siepe: il terreno è pieno di semi di anguria, di scorze di semi di girasole, di lische di aringa, di mozziconi e... di gente accampata. Alla mia destra un gruppo di famiglie tzigane, sporche e rumorose, attira la mia attenzione. Gli uomini anziani hanno capelli lunghi, barbe folte e occhi profondi da fachiro; i giovani, magri e dalla pelle color caffè, saettano sguardi sotto le sopracciglia irsute, simili ad animali da preda in cattività, pronti ad attaccare; tra le donne, la più vecchia, vera decana della tribù, gesticola senza sosta con le mani inanellate, si adira contro le nuore, gli occhi scintillanti. Ma all'improvviso vedo che cerca di ingraziarsi un brigante dai grandi baffi, che tiene la borsa: una gonna rossa dalle mille pieghe, offerta da una contadina, la tenta follemente. Una giovane donna mi colpisce: è pallida, con i capelli biondoramati, indossa abiti dalle tinte smorzate, color mattone la gonna,
viola il corsetto, rosa il fazzoletto legato sotto il mento. L'ovale del viso appare perfetto, il naso è largo, aquilino, ma gli occhi verdi quasi spariscono sotto le palpebre arrossate e gonfie: posa la testa sulle ginocchia della sua vicina perché le metta le gocce. Ne piangerà per un'ora intera, asciugandosi le lacrime con un batuffolo d'ovatta. La sua bambina, con gli occhi nel medesimo stato, avrebbe anche lei bisogno di cure. Il brigante intanto ha dato con gravità qualche rublo a un ragazzino seminudo perché compri un'anguria, le cui fette, tagliate con la lama di un pugnale, saranno poi spartite fra tutti. Coda al rubinetto dell'acqua fredda per lavarsi; coda al rubinetto dell'acqua calda per i bollitori del tè. Ho perduto il treno della notte; nulla è valso, neppure andare dal capostazione a tentare un colpo di fortuna. Riprendo dunque posto nella fila in attesa davanti allo sportello. Una donna indigena, sdraiata sulla strada, tossisce: la sento nella notte ogni volta che mi risveglio. Alla mia destra, addossata al muro, riposa protetta dalla sua coperta una giovane russa; graziosa, il colorito giallastro, le labbra violacee, fuma senza interruzione sigarette del colore della sua pelle, che si arrotola da sé. «Avete del chinino?», mi domanda. Sporgendoglielo mi informo da dove viene. «Dal Tagikistan. Un inferno... Cotone..., malaria... Laggiù capitano cose folli, tanto assurde da uscirne pazzi. E voi, siete straniera?». «Sì... Ma ditemi... Non potevate procurarvi il chinino là dove eravate?». «Il poco che c'è viene usato, mescolato con lo iodio, dalle ragazze per abortire... E per quegli immani lavori gli operai non vengono pagati e così sono costretti a rimanere. Perché mai tanta gente deve rischiare la vita per costruire una centrale elettrica tra montagne disabitate? Forse per stupire l'India?». Il suo bel bambino, seduto a gambe incrociate, è impassibile: un piccolo Buddha reincarnato. Sui suoi occhi semichiusi si è posato un grappolo di mosche, quasi a formare una stella. Sotto un albero, davanti a me, sono sedute su un tappeto due coppie kazake. Le donne portano una giacchetta di velluto verde, il
capo avvolto da uno splendido scialle di lana finissima, un lembo del quale passa sotto il mento inquadrandone perfettamente il volto. Si sciacquano le mani con il tè prima di mangiare l'anguria; hanno gesti nobili, persino quando si tratta di reggere il bimbo che ha la dissenteria; la tzigana bionda però manifesta apertamente il proprio disgusto e all'improvviso mi sembra volgare. Quanto al treno del pomeriggio, ho deciso che non ripartirà senza di me. Eccolo, finalmente. Ma i controllori sbarrano ogni accesso. E il vagone ristorante? È vuoto. Forse è una possibilità, mi informo. «Posso salire qui? Sì? Devo andare soltanto fino a Taškent». Una corsa a prendere i bagagli e ritorno immediatamente: il treno è già in moto e non mi resta che guardarlo allontanarsi. Un desolante spettacolo mi distrae dalla cocente delusione. Due ragazzine, pulite ma sgraziate — bocca grande, orecchie a sventola, occhi infossati —, sembrano decise ad accalappiare due kazaki, ben vestiti, intenti ad assaporare un pollo dall'aspetto appetitoso. Uno scheletro vagante passa dinanzi a loro: è un giovane biondo con il viso deturpato da croste nere, un mendicante. Riceve quel che resta di un'anguria, la raschia con le unghie, ne beve il succo tremando d'impazienza, morde la polpa senza quasi prendere respiro. Come ringraziamento intona con voce tremula una canzone e sorridendo pietosamente si mette a mo' di copricapo il mezzo cocomero ormai svuotato... Davanti allo sportello qualcuno dice: «Pazienza, prenderò il Maksim». «Un Maksim parte per Taškent?», domanda un altro. «Sì, è fermo in stazione». Sarà forse un treno di mitragliatrici Maxim, sul quale si ha il diritto di appollaiarsi? No, si tratta di uno dei treni di quarta classe, i Maksim-Gor'kij, tavar-passadjirov, che vengono talora inseriti su una linea per decongestionare la stazione. Il Maksim-Gor'kij
Trovo a fatica il treno in questione: un'umanità rassegnata è stipata in ogni dove, i passeggeri sono quasi uno sopra l'altro. Nessun posto disponibile, neppure un angolino. Tre donne kazake salgono e si accovacciano sulla passerella metallica che collega i carri bestiame; io mi sistemo più al riparo, sulla piccola piattaforma in cima al predellino, già parzialmente occupata da due vecchi. Una di quelle donne è forse la più bella creatura che abbia mai visto. Mi colpisce soprattutto l'immenso turbante di cachemire: dall'intreccio sfugge una frangia, criniera lanosa che le scende a cascata sulle spalle. La fronte è incorniciata da tre fasce ricamate color rosso cupo, mille pieghe parallele imprigionano la testa. Il sottogola, bordato anch'esso di rosso, prolungandosi in un immenso velo nasconde quasi l'intero corpo e completa magnificamente questa sontuosa acconciatura da monaca. Il delicato ovale, così incorniciato, esprime nobiltà e malizia al contempo. Si tratta forse di una discendente dell'illustre tribù degli Adai dell'Orda d'Oro, a cui apparteneva il giovane Abdul Khair, arciere invincibile che uccise il “golia” kalmucco? Con le loro duecento famiglie, o kibitka, gli Adai costituiscono l'aristocrazia kazakokirghiza. I turco-mongoli si gloriano di discendere da Lupo Grigio e da Cerva di Luce. Vi sono immagini impossibili da descrivere: le proporzioni delle linee, l'armonia dei volumi sono come un canto dell'anima. Quella donna ne è un esempio: i sottili occhi a mandorla brillano d'intelligenza, le sopracciglia fini e sinuose accentuano il profilo diritto del naso, la bocca carnosa ma serrata sembra dire in una smorfia indulgente: «Posso anche trovarmi sulla passerella di un carro bestiame, ma ciò non mi sminuisce affatto». La giovane porta al dito a guisa d'anello una larga fascia incisa e al polso molti cerchi d'argento cesellato. In una coperta impunturata regge un bimbo con il tipico copricapo, una tiubetejka ornata di monetine, che tende poi alla madre, una donna dallo sguardo vivo, ma dalla pelle ormai rugosa e scura che contrasta con il pallore del piccolo. La terza viaggiatrice, meno fine, ha il viso più rotondo; sulle sue tempie luccicano perle di sudore che asciuga con un gesto brusco della mano.
Crepuscolo. Ogni quindici chilometri il treno devia su un binario morto per lasciar passare i convogli regolari. Ho mal di schiena per lo sforzo di star seduta in equilibrio precario: potessi allungare le gambe! Mi infilo nella fodera di gomma del sacco a pelo per proteggermi dalla sporcizia del pavimento, mi appoggio ai miei fagotti, sistemo i piedi dietro le ceste di due russi... e mi addormento. A più riprese vengo svegliata da crudeli calci nelle costole e sento qualcuno che passando borbotta: «C'è gente che si permette addirittura di distendersi sul passaggio, mentre altri non sanno dove sedersi». Quanto i kazaki — che un tempo giudicavo primitivi — superano tutti questi russi in dignità innata, testimonianza certa di una cultura di cui ancora rimangono le tracce! Lento arrivo a Taškent; brilla una falce di luna, il cielo si rischiara sui campi e sui giardini cinti da muri costruiti con fango essiccato.
Taškent Folla variopinta alla stazione. Riesco a portare ambedue le sacche sistemandone una sulla schiena e l'altra sulla spalla, ma devo reggere quest'ultima con l'altro braccio perché non scivoli giù. Tram fino a piazza Voskročenskij e poi alla Ikanskaja: l'ufficio della “base” è ancora chiuso. Entro dal cortile e mi preparo il tè. Arriva un'impiegata, che fa colazione con una mela e un po' di pane. Poi arriva anche il segretario e finalmente posso mostrare i miei documenti; vengo così mandata alla vera “base”. In via Lenin risalgo sul tram e lascio la città russa passando per un corso fiancheggiato da filari di pioppi, da aryk e da case basse. Appena giunta nel quartiere indigeno, scendo alla fermata di Shai Khan Taur. Pochi gradini, una porta ad arco, e poi un passaggio lastricato, costeggiato di botteghe di barbieri, ancora una strada alberata sotto i cui pioppi file di uzbeki vendono le loro mercanzie: mele, uva, angurie, carote spezzettate, dolciumi. Moschee abbandonate. Dalle finestre di un basso caseggiato vedo scolari chini sui banchi. Affissi ai montanti della grande pedana di una čajkana all'aperto, i ritratti dei capi dell'Urss. Ancora un vicolo... Devo fermarmi, ho assoluto bisogno di riposo. Giungo infine alla seconda grande arteria e al numero 58 entro nel cortile ombreggiato di un lungo fabbricato composto da due dormitori, di cui uno, riservato alle donne, conta una decina di letti. Una ragazza mi accoglie e mi assegna l'ultimo posto disponibile. Questa “base” era un tempo l'iškari, vale a dire l'alloggio dei componenti femminili della casa di un ricco bek. Per mangiare bisogna andare fino in città, ma ogni sera ritroverò qui le mie compagne di camera, giornaliste, economiste, studentesse; qualcuna ha un marito che vive nel dormitorio attiguo. Abbiamo così occasione di scambiarci impressioni, di condividere le nostre scoperte.
A spasso per la città Pil'njak qualifica Taškent come luogo di assoluta noia, ma senza dubbio egli si riferisce alla parte russa di questa immensa capitale di 500 000 anime; se è lecito, come dice Kiš, contare fra le anime i comunisti che la negano e le donne musulmane, cui il Corano ne rifiuta il possesso. Per la prima volta mi trovo in una grande città orientale e voglio scoprire questo mondo prima che le ultime vestigia dell'antica vita scompaiano definitivamente. Tutto mi stupisce: l'intrico delle strette vie lastricate, quasi un labirinto; le tante donne velate, vaganti sagome funebri, chiuse nel duro blocco del parandja. Spesso reggono in equilibrio sulla testa un pacco o un cesto. Parlare di velo non è tuttavia esatto. Bisognerebbe piuttosto dire traliccio, tanto è rigida quella tela di crine di cavallo che scortica loro il naso e che esse trattengono con le labbra quando si chinano per valutare la qualità del riso da acquistare, guardando attraverso lo spiraglio del čador perpendicolare ai loro occhi. Quando si rialzano, in corrispondenza della bocca resta un piccolo segno umido e tondo, subito cancellato dalla polvere svolazzante nell'aria. Se troppo usati, i čador diventano rossicci e sfilacciati, come rosi dalle tarme... Gran parte delle donne porta abiti corti, calze e scarpe confezionate a mano. Eccone tre, figure informi viola e grige, ammassate al fondo di una carriola, senza dubbio un harem che trasloca; alla guida, ben saldo in groppa al cavallo, i piedi appoggiati sulle stanghe, vi è un uomo con giacca e copricapo ricamato, probabilmente il marito. L'arba, il veicolo indigeno, mi pare assai bello con gli immensi raggi delle sue due uniche ruote, alte più di due metri, pratiche per procedere nello spesso strato di fango o di sabbia; i cerchioni non sono di ferro ma rinforzati da enormi chiodi a testa rotonda che luccicano al sole lasciando sull'argilla umida curiose impronte a cremagliera. Le stanghe sono piazzate tanto in alto da farmi temere a ogni istante che sbilanciandosi sollevino il cavallo. Si sentono scorrere i piccoli canali sotterranei che, incontrandosi, vanno ad alimentare uno stagno, immoto. Tutt'intorno l'armonia dei colori è incantevole: verde cupo dell'acqua all'ombra,
verde chiaro al sole, verde argento di un salice dalla sagoma arrotondata, giallo della sponda e dei muri di terra, giallo quasi bianco delle quattro arba là abbandonate, con le stanghe a terra. La strada è ostruita da un immenso carico di fieno, più largo che alto, trasportato da un cammello dal grande gozzo. In cima a quella sorta di rettangolo è appollaiato un uomo. Cerco di raggiungere per vie traverse Urda, la città indigena, perdendomi di continuo. Lungo un muro una porta sormontata da un piccolo torrioneminareto mi lancia il suo richiamo ed entro. A destra, in un giardino, un pioppo tremulo, alberi di fichi, cactus e uno stagno; a sinistra due file di colonne scanalate di legno sostengono un'ampia veranda chiusa fino a metà da una leggera parete di legno traforato; per terra, dinanzi al mihrab, la nicchia orientata verso la Mecca, sono stese alcune stuoie per la preghiera dei fedeli. È una moschea. I muri sono intonacati a gesso. Quiete, sole, solitudine... Fantasie mi attraversano la mente mentre lascio errare lo sguardo sui cassettoni del soffitto, scolpiti e miniati con disegni arabescati. Immagino che anche nei templi cinesi esistano decorazioni simili. Scoperte al mercato locale Ecco l'incessante movimento della folla. I barbieri eseguono le loro “operazioni” agli angoli delle case: il paziente del momento china la testa in avanti a guisa di condannato e protende l'asciugamano che ha avvolto intorno al collo per farvi cadere i capelli. Davanti alla panetteria è in attesa dell'apertura un'imponente fila; rasente il marciapiede, su un'arba dal tetto arcuato, sono accatastati pani neri. Gli uomini indossano il khalat, ampio mantello imbottito a righe verticali, verdi, viola, nere e bianche, che fanno apparire le maniche simili a enormi bruchi. Il grande fazzoletto usato come cintura disegna il suo triangolo sulla schiena. Un ponte si incurva sull'acqua verde; dall'affine parte una stradina ripida fiancheggiata dal porticato di una moschea. L'altra riva rivela la sabbia gialla della falesia tra le travi e le palafitte che
sostengono miserabili catapecchie, destinate a essere distrutte. La scarsità di alloggi è in parte causata dalle molte demolizioni effettuate nella città vecchia, dove invero si costruisce più lentamente del previsto. Sette barbieri lavorano fianco a fianco, protetti dal grande grembiule da cameriere di caffè; uno di loro, un vecchio, ha una barbetta bianca, a pizzo, occhialini di ferro sul naso, e un inesistente ciuffetto di capelli che esce dal suo copricapo ben calzato. Il cliente corruga la fronte: il suo povero cranio, per metà ancora coperto da una folta capigliatura nera, risplende, perfettamente candido, sull'altra metà. Un salice piangente si china sulle acque rapide di un aryk centrale, alla cui sponda un portatore d'acqua viene a riempire due secchi appesi a un robusto bastone; poi il canale si inabissa sotto la pedana di una fresca čajkana dove crepitano su un braciere spiedini di montone. La via risale verso l'immensa cupola di una moschea attraversando un portico decorato di rosse banderuole. La ressa è tale da impedire il cammino. Ora, poggiati per terra su fogli di giornale, si succedono grandi mucchi di foglie gialle: appartengono ai venditori di tabacco che non si separano mai dalla loro pipa, una sorta di zucca sormontata da un fornello e munita lateralmente di un lungo cannello di bambù. Tafferuglio, due uomini si azzuffano; una venditrice impaurita si alza portando via i suoi piatti di burro. La seguo e per quindici rubli ricevo una piccola quantità di quella pasta molle e paglierina: «E puro burro di vacca», mi assicura. Alcuni uomini, accovacciati a cerchio, non hanno permesso che il trascurabile incidente disturbasse il loro pasto. Un uzbeko — fazzoletto bianco, gilet nero sull'ampio camicione candido — vende il plov, il riso condìto misto a carote spezzettate, contenuto in un catino di smalto che ha sistemato sopra un secchio riempito per metà di brace. Con un rublo se ne ottiene una porzione appena sufficiente per coprire il fondo di una ciotola che viene sporta insieme con un cucchiaio di legno, posata di cui si servono sia i giovani sia i russi, ma non il mio barbuto vicino che preferisce usare ancora le dita, opportunamente incurvate. Un altro mangia senza
peraltro essere incomodato dal grande sacco pieno di semi che regge sulla testa. Davanti a me, con un cesto al braccio e in compagnia di una bella signora bionda, scorgo la figura incredibilmente smilza e gli stivali di tela grigia di uno dei nostri vicini di Colpan-Ata. Cerco di raggiungerlo, ma a causa di una rissa selvaggia scoppiata dinanzi a una rivendita di sapone, lo perdo di vista. Infine ritrovo il mio uomo e ambedue siamo assai stupiti di rincontrarci qui. «Sì, il nostro viaggio nella Sirte è stato splendido; spero che anche voi abbiate concluso bene le vostre vacanze». «Ma figuratevi, esco ora dall'ospedale dopo una violenta dissenteria, di cui non capisco ancora oggi la causa. Per fortuna non posso lamentarmi delle cure ricevute». Mi informo su dove è diretto e mi risponde che sta cercando un po' di carne per il brodo. Andiamo insieme verso il capannone dei macellai; per raggiungere i vari banchi occorre farsi strada tra la folla degli acquirenti. «Si trova solo carne di cammello», mi dice. In effetti riconosco quelle immense costole poco arcuate, simili a quelle disseminate lungo le piste del Tian Shan. «Non ha un gusto cattivo, ma questa volta voglio proprio del bue, anche se costerà certamente più caro, forse quattordici o quindici rubli al chilo». Lo lascio alla sua faticosa ricerca e mi allontano in direzione dei sellai; sul marciapiede alcuni ciabattini vendono quegli stivaletti morbidissimi che le donne calzano sotto le calosce. A Parigi, Vera mi aveva chiesto di portargliene un paio. Offro quindici rubli. «No, venti, è cuoio... Molto bello!». Insisto sui quindici rubli rifiutandomi di pagarli di più dato che alla cooperativa costano soltanto dodici. «Cooperativa, pelle cattiva». Tutt'intorno un forte odore di polvere, di paglia trinciata, di escrementi di animali, di cammello o di cavallo, ma anche umani; questi ultimi riconoscibili dal tanfo dolciastro.
Lascio quei venditori irremovibili per andare a riposare in una čajkana dove potrò godere di un minimo di refrigerio. Un russo e un uzbeko discutono fra loro. Quando il primo si allontana offro una zolletta di zucchero al suo interlocutore, la cui aria simpatica mi invoglia a chiacchierare. «Sì», dico, «la vita qui è veramente interessante; io vengo da lontano, sono curiosa di vedere come funzionano le cose in questo paese che vorrei tanto visitare. Ma il plov è davvero caro!». «Ah! Siete straniera. Da voi, nella terra di Francia, il riso cresce? Forse non sapete che cosa hanno combinato qui. Poiché avevano impartito l'ordine di piantare ovunque il cotone, è passato l'aratro distruggendo tutti i canaletti delle nostre risaie, mantenute con tanta cura. In seguito però, rendendosi conto della scarsa produzione delle nuove colture, hanno voluto che ripiantassimo riso su un terzo del territorio. Ma ora non è più possibile, i canaletti sono prosciugati... E c'è dell'altro: le chiavi, per esempio. Un tempo non se ne conosceva l'esistenza, tutto rimaneva aperto, case e negozi. Adesso ci roviniamo per comprare catenacci, ma il furto è sempre all'ordine del giorno». Desiderando visitare l'istituto femminile torno indietro per una via parallela. A ogni passo mi fermo, attratta dai vari tipi umani che passano: pallidi iraniani dai baffi neri, bronzei tzigani dall'ampia fronte ossuta, tagiki dai volti simili a quelli incontrati sul Mediterraneo. Dieci donne sedute sul marciapiede, al riparo dietro la cortina del loro velo nero, tengono sulle ginocchia una pila di camiciole da vendere. Quarti di cavallo sono appesi all'angolo di una casa. Un uzbeko è indaffarato con due splendidi dromedari accovacciati, il cui fiero profilo aquilino non è avvilito da alcun foro; portano soltanto una museruola formata da una catena. Lezione di lettura All'angolo della piazza una grande tipografia e nel mezzo un giardino dove, davanti a un'antica madrasa — l'università musulmana — la
statua di Lenin tende per sempre il braccio alzato; ancora qualche passo ed ecco l'istituto, edificio del tutto simile a una scuola. A un custode che non capisce il russo chiedo del compagno Ahmetof. In un'aula al primo piano si svolge una lezione di lettura con l'ausilio di un opuscolo che racconta la storia del proletariato. Una quindicina di giovani donne e di ragazzine segue con grande attenzione; hanno appoggiato i parandja e i rigidi čador sul davanzale della finestra. Con un tratto di ombretto nero hanno unito le sopracciglia che, se congiunte, sono segno di temperamento passionale; i caratteri del viso, pallido e rotondo con grandi occhi, sono quelli tipici dei turchi ottomani. Per non disturbarle mi sistemo su una panca sperando di passare inosservata. La mia vicina sta allattando il figlioletto disteso su una coperta: il piccolo è praticamente nudo, a parte una camiciola troppo corta con il colletto alla marinara. La giovane donna segue il testo con la mano destra, ma talora è costretta ad alzarla per immobilizzare i piedini del suo marinaretto! Aspetto la fine della lezione: tutte rimettono il loro parandja sul capo. Vedendo che mi avvicino per esaminare meglio un čador, me ne porgono uno facendomi segno di provarlo, cosa che le diverte moltissimo. Il maestro, che porta la giacca, spiega loro che vengo da lontano e poi mi accompagna a visitare l'asilo, l'infermeria, la biblioteca e infine, al pianterreno, il salone per le riunioni. «Questa sera terremo una conferenza, dovreste venire». Trovo la scusa di essere già impegnata perché non oso confessargli quanto mi annoino simili riunioni, eternamente uguali ovunque si tengano, a Nalčik, a Karakul o a Mosca. Mi fanno pensare alle ruote da preghiera tibetane: necessità di sviluppare la cultura fra gli indigeni, di educare le masse, di edificare il socialismo grazie al livellamento delle classi. Il socialismo, soltanto il suo avvento salverà il mondo dal crollo capitalista. Ebbene, anche se esso è la nostra comune salvezza, bisognerebbe orchestrarlo con un po' più di fantasia. Dopo innumerevoli peregrinazioni nella città vecchia, arriviamo alla casa del maestro che ha acconsentito a farmi conoscere sua moglie. Al fondo di un vicolo buio chiuso da un muro si apre una porta: superatala, mi trovo dinanzi a un cortile minuscolo, delimitato
a sinistra da una parete di vimini e sul lato opposto da un peristilio; di fronte intravedo una stanza assai pulita, il cui solo mobile è un letto, sicuramente fatto con un'asse, tanto mi sembra duro. Per terra pile di libri scolastici; nei muri, divisi in pannelli simmetrici e intonacati a gesso, sono scavate piccole nicchie per riporre ciotole, teiere, piatti; sul pavimento, un tappeto, un baule e alcune coperte. Una tovaglia è poggiata sul tappeto; i pasti si preparano fuori. La moglie lascia le babbucce sulla soglia di casa e a piedi nudi porta su un vassoio di rame una zuppiera contenente il lapša, che mangiamo con un cucchiaio di legno. La giovane donna mi piace: il corpo sottile sotto il vestito informe, gli occhi grandi e vivaci, le efelidi sul viso, i ricci capelli castano chiaro legati in lunghe trecce, lo sguardo espressivo che ne lascia trasparire l'intelligenza. Purtroppo però non conosce una sola parola di russo. Il maestro si stupisce che la trovi graziosa, non è del mio stesso parere. «Studia all'istituto pedagogico. Certo, non porta più il velo». Mi accorgo che sta aspettando che il marito finisca il suo pasto, per mangiare e bere a sua volta; il bambino intanto gioca sul pavimento con una scarpa. Usciamo insieme senza che l'uomo le abbia fatto un cenno di saluto. La distribuzione dell'acqua si effettua ovunque grazie agli aryk; solamente nei quartieri più moderni hanno iniziato i lavori di sistemazione idraulica tramite canalizzazioni. Si tratta di un'impresa enorme dato che la città, con le sue case costruite a un solo piano per timore dei terremoti, copre una superficie vastissima. Finisco la serata al teatro uzbeko, dove una compagnia indigena offre un adattamento assai interessante della Fuente Ovejuna di Lope de Vega, commedia che già avevo visto, recitata in maniera eccellente da attori del teatro ebreo dei russi bianchi, a Mosca due anni fa, in occasione delle prime Olimpiadi teatrali.
«Pravda Vostoka» Finora nessuno mi ha chiesto il visto: assumerò dunque l'atteggiamento disinvolto di chi ne è in possesso. Mi reco a visitare la sede del giornale «Pravda Vostoka», la «Verità dell'Oriente, organo russo del partito comunista: molti uffici, attività febbrile. Alto, simpatico e con gli occhi azzurri, giovane malgrado la calvizie, il direttore Tselinski, seduto sul tavolo, mi ascolta con interesse. Gli offro il mio libro — vuole che gli scriva una dedica — raccontandogli da dove vengo e dicendogli che vorrei vedere una piantagione di cotone. Approfitto dell'occasione per confessargli che il ristorante al quale ho diritto è troppo costoso per i miei modesti mezzi. «Accomoderemo ogni cosa», mi tranquillizza. «Ecco qualche buono con cui potrete mangiare gratis alla nostra mensa sindacale, laggiù, al piano interrato di quell'edificio sull'altro lato di Voskročenski. Riguardo al vostro secondo desiderio, vi manderò qualcuno della nostra sezione cotoniera per farvi accompagnare in un kolchoz». Convocato però il giovane Naskov, ricevo la cattiva notizia che l'auto è in riparazione. «Sono spiacente, desideravo farvi incontrare Pakhta Aral, un decorato dell'Ordine di Lenin. Possiamo rimediare affittando una linejki, così Naskov vi condurrà a Baumann. Poi, perché non venite con noi a Boz Su dopodomani, che è il giorno della nostra gita collettiva?». Siamo continuamente interrotti da telefonate e da visite e ogni volta l'argomento è il cotone. Anzi, qui tutto parla di cotone: la foto di un camion munito di apparecchiatura per raccoglierne i bioccoli; in ogni dove tabelloni con diagrammi che stabiliscono la percentuale fornita dalle varie regioni ogni sei giorni. Sembra di essere, più che nella redazione di un giornale, in un quartier generale pronto a sferrare l'offensiva Cotone. Occorre, a qualsiasi costo, raggiungere
le cifre fissate dal Piano per fine dicembre; l'intero Turkestan ne dipende. I contadini ricevono grano solo in proporzione al cotone consegnato. «Ho pubblicato nella rubrica di oggi», mi informa il direttore, «la traduzione di un articolo del “Frankfurter Zeitung”, dove si asserisce che il mondo ha gli occhi puntati su questa parte dell'Asia centrale. Danneggiamo il commercio americano ed egiziano producendo noi stessi il cotone che ci occorre. L'esempio delle nostre repubbliche, ormai libere dal giogo imperialista, indurrà le colonie asiatiche sottomesse alla Francia e all'Inghilterra a ribellarsi...». Cotone nel villaggio Alcuni giorni dopo, insieme con Naskov, scendo al capolinea di Lunačarski: l'esperienza vissuta durante il percorso mi costringe ad ammettere che la folla dei tram moscoviti, a paragone di quella di Taškent, è assai meno brutale. Il mio accompagnatore noleggia una delle carrette là in sosta e ci dirigiamo verso un villaggio situato a circa dodici chilometri di distanza. Mi sono già trovata in questi luoghi, ospite di una famiglia ebrea che festeggiava un compleanno: per l'occasione erano stati disposti sul tavolo, imbandito per il tè, dolci deliziosi. Il figlio, ingegnere idraulico, mentre improvvisava su un piano a coda, mi parlava del Tagikistan, da cui era appena ritornato per curarsi la malaria. «Ecco un paese che dovreste visitare. Là, tutto si sviluppa, di mese in mese, in modo straordinario. I giovani volenterosi hanno grandi possibilità di lavoro; il futuro è nelle mani di chi sa coglierlo». «E i basmaci?, avevo obiettato. «Dopo la cattura di Ibrahim Bek, nel 1931, nessuno ne parla più». Le ruote della nostra linejki sprofondano in uno strato di polvere alto dai trenta ai quaranta centimetri, quasi una soffice distesa d'acqua che tutto ricopre e livella; i passi dei cavalli risuonano con un rumore sordo.
Muri, giardini, campi. In un piccolo villaggio melanconico ci fermiamo dinanzi a una casa confinante con una čajkana. In una stanza sordida vi è l'ufficio del kolchoz Durmen-Baumann. I 195 ettari che fanno capo a questa direzione hanno prodotto l'anno passato 291 tonnellate di cotone (la prima scelta, raccolta prima delle piogge, è valutata 32 copechi al chilo), il che equivale a un'assegnazione proporzionale di 25 tonnellate di pane. Attraversiamo campi irregolari, divisi da canali di irrigazione, gli aryk, senza i quali nulla crescerebbe. Ve ne sono che risalgono ad epoca precristiana: allora il loro flusso veniva variato a periodi fissi secondo le necessità; gli aryk-aksakal ne erano responsabili, ai loro ordini lavoravano i mirab, vale a dire i capi (mir) dell'acqua (ab). Le imposte dovute all'emiro di Bukhara erano calcolate in proporzione alla quantità d'acqua che il contribuente aveva diritto di chiedere; gli aksakal, o “barbe bianche”, erano retribuiti in natura a raccolta ultimata. Ma i ricchi bek, proprietari dell'acqua che distribuivano a loro piacimento, costringevano i contadini a pagare tributi arbitrari. Ora tutto è regolato scientificamente e le cooperative provvedono ai bisogni degli operai. In un libro pubblicato nel 1913 e scritto dal principe Masalski, funzionario del Ministero dell'Agricoltura, ho letto che l'autore stimava in 40 000 chilometri di lunghezza la rete dei canali che solcava il paese: una realtà che lo colmava di ammirazione per questo popolo dalle conoscenze primitive. Ricordo che, per associazione di idee, avevo subito pensato ai foggara, quei canali che si diramano per centinaia di chilometri a quattro metri di profondità distribuendo acqua in pieno Sahara e sulla cui origine nulla si sa. I fiori giallo rosato che vedo, e che durano soltanto un giorno, appartengono alla specie Navrotski, un cotone degli Stati Uniti settentrionali; secondo l'istituto superiore di ricerche di Taškent, questa è la pianta che meglio si addice alla regione. Il cotone, anche se di qualità assai inferiore, era già conosciuto in era preistorica. Si tratta di un arbusto dalle foglie dure, lobate, simili a quelle dell'edera. La semina si effettua a metà aprile; la raccolta inizia a luglio, al primo aprirsi delle capsule, per continuare fino agli ultimi giorni di novembre, quando il gelo provoca la schiusa finale.
Ecco donne intente alla raccolta; tutte, giovani e vecchie, mi osservano ridendo perché le fotografo; le falde rialzate delle loro vesti scolorite, ricolme di innumerevoli palle di neve, scoprono lunghi e stretti pantaloni di foggia indiana che sfiorano le caviglie. Esse avanzano, strappando i bioccoli con gesti precisi. La palla bianca è costituita da quattro o cinque batuffoli di bambagia appiattita e arrotolata; ognuno contiene un seme rotondo e duro, difficile da estrarre dalla peluria che lo avvolge. Spremendo tali semi si ottiene dell'olio e il panello è trasformato in combustibile. Khalissa, una donna allegra che porta orecchini d'oro, raccoglie in media 24 chili al giorno. Si tiene conto della quantità raccolta da ognuna poiché il pagamento è a cottimo. L'introito medio della stagione passata è stato di 150 rubli a persona. Tra i componenti delle 217 famiglie che dipendono da questo kolchoz, ci sono 350 donne operaie. In un angolo del campo ciascuna ha posato il proprio enorme sacco di tela grezza e lo riempie poco per volta. Passo per molti altri campi, ora deserti, per raggiungere l'asilo dove Khalissa tiene il figlio. Sul bordo di un aryk sono costretta a fermarmi davanti a un'enorme pianta alta tre metri, con lunghe foglie alternate come quelle del mais, i cui semi pendono in grappoli membranosi simili all'interno dei meloni non ancora maturi. Naskov mi spiega che è giugara, usato per il bestiame, e che è meno buono del mais. È un sorgo, il “grande miglio”, la durra degli africani; i kazaki, con i quali presto vivrò, si nutrono quasi esclusivamente di questa pianta. Sotto un albero è seduta una donna: ha appeso a un ramo una sorta di telaio di legno ai cui bordi è solidamente inchiodato un telo, così da formare una grande culla dove sgambettano tre o quattro bambini. Vedendo Naskov e la nostra guida, ella abbassa il fazzoletto bianco sul viso. All'ombra di grandi fichi vi sono alcuni samovar e un capanno dove gli operai vengono a bere il tè a metà giornata. Chiedo di poter visitare qualche casa, ricca e povera, del villaggio. Superata la strada principale, un vicolo tortuoso conduce in una corte su cui si affacciano molte abitazioni; alla mia sinistra sento
gemere: c'è una vecchia malata. Che cosa avrà? E stato chiamato il medico? Interrogativi senza risposta. Ci dirigiamo verso la casa centrale, entriamo in una stanza aperta, con sole tre pareti: un tappeto ricopre il pavimento di terra battuta. Contro il muro di fondo una pila di coperte impunturate: è qui che si vive d'estate. Pulizia rigorosa, facile, a dire il vero, con così pochi arredi. Sopraggiunge la mia ospite, una donna anziana, molto fine; lasciate le sue calosce sui gradini, cammina a piedi nudi. Dopo aver steso una tovaglia, taglia una grande anguria che serve su un vassoio di rame con fette di pane secco. Naskov è rimasto in ufficio non potendo entrare negli iškari, la guida conosce soltanto il russo: devo perciò accontentarmi di guardare. «Dove abiti tu sarà certo più bello», osserva il mio accompagnatore. Mi piace la penombra di questo interno, di assoluta ed essenziale semplicità. E in inverno, come si scalderanno? Sul pavimento in terra battuta è scavato un rettangolo di un metro e mezzo di lato, il sandal quando fa freddo vi vengono disposte sul fondo delle braci, riparate da un tavolo basso su cui poi viene ancora stesa una trapunta di modo che il calore non si disperda; intorno ad esso la famiglia si accovaccia. Tappeti, bauli, teiere in gran numero, mucchi di mele e, in una nicchia del muro costruito con fango essiccato, una foto di gruppo: il figlio studia a Taškent. Per terra, in un angolo, una piccola cavità protetta da una lastra traforata è adibita allo scolo dell'acqua per le abluzioni... quando il condotto non è ostruito. Sotto il tetto, un granaio a giorno dove è appeso il granoturco a seccare. Ora è la volta di una casa povera: medesima disposizione, ma meno oggetti e maggiore trascuratezza. Due ragazze lavorano; una, dai capelli in disordine, sta facendo essiccare semi di anguria, l'altra raccoglie sterpi di riso. Quest'ultima, scura di pelle, ha tratti assai schietti, sopracciglia sottili e parallele alla linea orizzontale degli occhi dalla cornea giallastra, seni turgidi che tengono sollevato il tessuto consunto della veste.
«Non trovi che sia terribilmente nera?», mi sussurra la mia guida. Le ragazze non capiscono il russo. Insieme con Naskov camminiamo lungo la strada, decisi a saltare sul primo camion che passerà, ma nessuno si ferma. La polvere è una maledizione del cielo, certamente il čador è stato inventato per risparmiare il volto delle donne. Una carovana di cammelli ci viene incontro; libere dal carico, le bestie avanzano con aria pretenziosa, come se facessero passi troppo lunghi per le loro gambe. Per fotografare le loro sagome sullo sfondo del cielo scendo in fretta verso la pista sottostante affondando bruscamente in una buca; per il contraccolpo socchiudo le labbra con cui tenevo un filtro giallo, che cade ai miei piedi. Scattata la foto, mi metto a cercarlo. Anche se ho evitato accuratamente di muovermi, nessun segno appare sulla polvere. Scavo con metodo immergendo ambedue le braccia che affondano fin sopra il gomito prima di incontrare il suolo ghiaioso. Naskov mi aspetta. Gli indigeni di passaggio mi aiutano a cercare. Malgrado la mia natura ostinata - quel filtro è per forza qui! — dopo una mezz'ora rinuncio. Vicino a noi stanno riparando un camion, appena pronto ripartirà. Durante l'ora di attesa vedo due uomini che ancora perlustrano tra la polvere. Mi avevano domandato che cosa avevo perso. «Un pezzo di vetro rotondo, giallo». Immaginando che soltanto una moneta d'oro poteva farmi inginocchiare, perseverano nella ricerca senza scoraggiarsi. Forse sono ancora là. Boz Su, l'acqua bionda Per la gita a Boz Su sono predisposti due tram speciali per condurre il personale del giornale fuori città. La nostra meta è un giardino pubblico che circonda il lago, sul quale andremo in canoa.
Come a Mosca, tutti impiegano con grande entusiasmo il proprio giorno di libertà ad allenarsi, ligi al motto “Pronti al lavoro e alla difesa”. Di norma è previsto che si debba correre, saltare, nuotare con o senza abiti, remare, tirare, lanciare granate a una distanza superiore ai quaranta metri, sollevare e portare pesi, percorrere in ventun minuti tre chilometri sugli sci. Poiché vi sono cabine e un trampolino per i tuffi, eccoci tutti in costume ridottissimo, come se fossimo a Juan-les-Pins. Nell'aria echeggiano gridolini di sorpresa al contatto freddo dell'acqua. Fisarmoniche, chitarre, balalaike: l'orchestra suona musiche vivaci, mentre le coppie volteggiano sulla strada. Gli spettatori assaporano uva moscata. Una donna si occupa dei bambini, facendoli giocare a girotondo, in modo che i genitori possano stare tranquilli. Gli uomini si esercitano a lanciare granate. Dietro una cinta, in un teatro all'aperto si festeggia con pomposi discorsi il quarantesimo anno di attività dell'eroe Maksim Gor'kij. Passa una fanciulla con il fucile in spalla e mi invita ad andare a tirare. Ma gli appassionati sono tanti e occorre aspettare il proprio turno. Coricati bocconi, si mira ai bersagli sistemati contro il muro: ognuno ha a disposizione tre colpi di prova e dieci cartucce. Piuttosto soddisfatta dei miei risultati, premo il grilletto una settima volta: la vista mi si annebbia, tutto diventa nero, gli occhi mi bruciano terribilmente. Mi trascinano via porgendomi un fazzoletto perché le lacrime mi scorrono a fiumi. «Cieca, cieca e sola a Taškent!», ripeto disperata. Ma poco dopo le mie palpebre si distendono e finalmente si aprono: ci vedo! Era solo polvere negli occhi. Mi dirigo alla mensa sperando di placare quel senso di vuoto e di fame causato dall'emozione, ma è troppo tardi, la fila è scomparsa: il plov è finito.
Un confinato anarchico Andavo a trovarlo ogni sera. Se allora avessi saputo che presto sarebbe morto avrei avuto il coraggio di fargli più domande e tenuto in maggior conto le sue parole! Come sarebbero diversi i rapporti con le persone che stimiamo se pensassimo sempre di parlar loro per l'ultima volta. Ma il futuro è ignoto. E così lo lascio raccontare a ruota libera, evocare il passato, la vita a Ginevra dove era rifugiato politico durante la guerra. «Conoscete quel piccolo ristorante a Plainpalais? Vi andavo sempre a mangiare la fonduta». È un uomo di cinquantadue anni, di corporatura alta e robusta; ha fronte ampia, baffi biondi, occhi sgranati e sembra essere di temperamento facile ad alterarsi. La moglie lo ammonisce di continuo di non agitarsi troppo. È una donna pallida, troppo pallida, dignitosa, sicura di sé, che talora scoppia in un'improvvisa risata riacquistando i tratti della bionda fanciulla di un tempo. Dei due, lei sola lavora: mantiene la famiglia con il suo salario di impiegata. Al rientro, la sera, prepara la cena. Per accedere alla loro stanza si deve passare dall'abitazione del proprietario, 1 unica divisione tra i due ambienti è un telo di stoffa che serve da porta. La presenza dello scomodo vicino ci costringe a stare attenti a quanto diciamo in russo: l'uomo, infatti, è in cerca di un pretesto qualsiasi per mandar via Nikola, così da poter dare la camera a un suo amico. Discorriamo dunque in francese e Anna, per soddisfare la curiosità del padrone di casa, gli spiega che ci siamo conosciuti ai tempi dell'esilio del marito. Senza capirne i motivi, Nikola percepisce una grande ostilità intorno a sé. Ogni sua richiesta di impiego è stata respinta, malgrado egli abbia dato prova di grande intelligenza e capacità in campi assai diversi da quello politico, avendo lavorato per anni presso
l'Associazione scientifica caucasica di Tbilisi, peraltro da lui stesso fondata. Per quell'attività non si era certo risparmiato e aveva percorso montagne e montagne. Ora è stanco di vedere ogni volta svanire le sue speranze, mi confida Anna. Ascolta dunque con grande entusiasmo i miei suggerimenti per uscire dalla sua incresciosa situazione. Nato in Russia, ha adottato un nome russo all'inizio della sua militanza anarchica, ma è ceco per parte di padre. Se facesse intervenire Masaryk - che un tempo ben conosceva —, potrebbe ottenere il rimpatrio. «E Anna?», domando. «Presto o tardi mi raggiungerebbe; non sarebbe la prima volta che attraversa frontiere senza permesso pur di seguirmi. Già sotto Kerenskij, prevedendo la rivoluzione, è riuscita a entrare in Russia per prestare ai feriti la sua opera di infermiera. Quando ha saputo che stava per essere tradita, è stata capace di uccidere con freddezza un ufficiale». «Che parta, se è possibile», interviene Anna. «Ha bisogno di cure. Lo hanno arrestato a Tbilisi per motivi che ci sono ancora ignoti, e ha subito una condanna a tre anni di prigione; dopo due anni però gli hanno concesso di venire a Taškent poiché soffriva dei postumi di una pleurite». «Mi ero ammalato nel 1923, quando facevo propaganda a Kabul. A quel tempo mi ero appena ripreso da un forte attacco di malaria che mi aveva costretto a lasciare Ankara dove lavoravo per il nostro dipartimento di informazioni». Intanto la moglie lo invita a finire almeno la sua uva e a bere il tè. «Ah, l'uva! Quanta ne ho rubata nelle vigne del Valois! Ho percorso a piedi tutte le vostre montagne, che ricordo stupendo! Mio padre era agronomo e zoologo, da lui ho ereditato la mia sola religione, la natura. La vita era ben dura a Ginevra. L'Internazionale socialdemocratica aveva assunto posizioni scioviniste e vi era anche una frattura nell'Internazionale anarchica: Kropotkin chiedeva aiuto per difendere la rivoluzione francese contro l'imperialismo germanico. Io avevo fede nell'idea di Bakunin, espressa nel suo testo fondamentale, L'Impero germanico del “knut” e la Rivoluzione sociale. Decidemmo di riunire le forze degli internazionalisti anarchici
ancora fedeli e con gli ultimi soldi pubblicammo il “Nabat”, le “Campane a martello”, che inviammo in Russia clandestinamente. Allora lavoravo per pochi soldi in una fattoria e al contempo seguivo corsi di diritto e di scienze sociali all'università. Soltanto dopo la rivoluzione d'ottobre ebbi la speranza di poter ritornare in Russia. Mi unii infatti all'ultimo gruppo di emigrati e insieme arrivammo alla fortezza di Dunaburg nel gennaio del 1917 per poi attraversare la frontiera su un treno extraterritoriale guidato dal compagno svizzero Platten. Sempre a piedi avevo già attraversato i Pirenei, Andorra, la Francia meridionale e lavorato a lungo con gli operai catalani, partecipando allo sciopero generale del 1911». Gli domando ancora come e perché è diventato anarchico. «Mio padre aveva ricevuto un'educazione democratica. Nel periodo in cui vivevamo in Ucraina, nel Donbass, regione di minatori e di contadini, mi interessavo alla letteratura locale, condividevo con i cosacchi di Zaporožje l'aspirazione a un rinnovamento. Tutti noi, in famiglia, odiavamo l'imperialismo russo che schiacciava l'Ucraina. Mia madre era di nazionalità russa. In quel tempo vi fu uno sciopero nelle miniere di carbone durante il quale il governo aizzò i contadini contro i minatori. Vi furono esecuzioni di massa e molti uomini furono condannati ai lavori forzati. «A scuola sono diventato, mio malgrado, un dirigente tenendo conferenze sui movimenti rivoluzionari su cui ero stato istruito da un assistente, Strumilin, che ci faceva leggere continuamente testi di marxismo elementare. Pur seguendo i corsi serali, partecipai per parecchi anni alla vita degli operai, impegnandomi nell'attività socialista rivoluzionaria. Per completare la mia educazione in quel campo decisi di recarmi all'estero. Ricordo ancora il Re Alessandro I, il cargo su cui mi imbarcai a Odessa, così come il feroce litigio con il capitano che aveva consegnato il mio passaporto, naturalmente falso, a un'agenzia perché si occupasse di rimpatriarmi. Per fortuna riuscii a fuggire in un porto della Dobrugia». Ma a questo punto Anna lo interrompe consigliandogli di raccontarmi di Bukhara, argomento che, a suo parere, mi interesserà di più. «Sapete, Ella, dovete assolutamente ottenere un'intervista con Faisula Khodjajev e cercare di fotografarlo con il suo turbante. È così
seducente che tutte le donne se ne innamorano». Domando se si tratta del Faisula presidente del Consiglio dei commissari dell'Uzbekistan. «Certamente, ed è anche uno dei sette membri del Comitato centrale esecutivo dell'Urss. Strane voci corrono sul suo conto. Dicono che sia ricchissimo e che abbia un'abilità straordinaria nel raggirare Mosca; sembrerebbe il migliore dei comunisti, eppure si mormora che abbia fatto lega con gli inglesi...». «Lo conobbi», racconta Nikola, «quando fu rovesciato l'emiro di Bukhara. Lavoravo come segretario agli ordini di Frunze e di Kubisev, nell'ufficio militare della rivoluzione ed ero il responsabile del consolidamento del comitato dei Giovani di Bukhara, alla cui testa vi era Faisula. Quella organizzazione ricalcava il movimento dei Giovani Turchi e avrebbe voluto ottenere una costituzione sulla base della sharia, la legge coranica. I suoi membri si unirono gradualmente al partito comunista. Dopo l'ultimatum inviato nel '18 da Kolesov all'emiro Seid-Mir-Alim, mentre noi stavamo retrocedendo incalzati dai contadini, fu messa una taglia sulla testa di Faisula per volontà dell'emiro che giustiziava tutti coloro di cui non era sicuro. «Nel '20 le nostre truppe vinsero e io guidai una delegazione diretta a Bukhara, diventata repubblica nazionale popolare, il cui presidente era Faisula. Soltanto quattro anni dopo fu formata la Repubblica sovietica dell'Uzbekistan, che comprendeva i distretti di Khiva, Bukhara, Samarcanda, Taškent e il Fergana». «Che cosa c'è di sospetto in lui?». «Ho dimenticato di dire che nel '18 il governo sovietico del Turkestan lo espulse. Egli fuggì a Orenburg dove venne arrestato dall'ataman Dutov, che era un capo bianco. Dutov però lo liberò in cambio di importanti informazioni su Taškent. A fine luglio Faisula partì alla volta di Mosca per difendere il suo patrimonio in pecore karakul, di un valore di cinquecentomila rubli. Ne ritornò trasformato in bolscevico». «Come è riuscito ad assicurarsi la fiducia del partito?». «Non so se effettivamente egli goda di tale fiducia. In tre occasioni è stato minacciato di espulsione. La prima volta nel '25, perché contrario alla riforma agraria. Poi quando si oppose
all'emancipazione delle donne: ha due mogli, una a Taškent e l'altra a Bukhara. La terza perché aveva avversato la politica dei kolchoz. Ma è sempre riuscito a trarsi d'impaccio, scrivendo lettere di scuse. I bolscevichi hanno evidentemente bisogno di lui, in quanto tramite fra loro e gli indigeni. Oggi è il solo rappresentante dell'ex comitato rivoluzionario dei Giovani di Bukhara». Domando ancora se, a suo parere, gli uzbeki siano in grado di governarsi da soli. «Un giorno o l'altro sicuramente. Sono così ambiziosi da voler diventare capi di un ufficio prima ancora di saper scrivere correttamente e si offendono se si offrono loro posti subalterni. Quando in Europa è sufficiente una sola persona, qui ne occorrono almeno quattro, tanto è scarso il rendimento sul lavoro; ma non dimentichiamo che è già sorprendente che qualcosa si faccia. Gli uzbeki sono molto orgogliosi dei loro impieghi negli uffici, ma se devono assumersi qualche responsabilità diventano pavidi e insicuri. Un giorno mi capitò di leggere in calce a una lettera le seguenti parole, scritte da un capo: “Sono d'accordo, ma non posso firmare”. Nel '23 il presidente dell'esecutivo, Akhun Babaev, era ancora analfabeta. Ancora nel 1933 il segretario Ikramov ha segnalato che, secondo i dati ufficiali dell'ufficio dell'Asia centrale, il 48 per cento dei membri del partito non sa scrivere». «Come giudicano i “nazionali” l'alto costo della vita?». «Vengono decantati i benefici di cui ora è possibile godere: elettricità, condotte idriche e scuole. Si assicura loro che il secondo Piano quinquennale soddisferà le accresciute richieste di beni di consumo...». Racconto ad Anna e Nikola che alla posta, dove mi ero recata per spedire un telegramma in Francia, l'impiegata mi aveva domandato se ero straniera e poi, sempre con lo stesso tono monotono che contrastava con le sue parole assai dure, mi aveva confessato di essere allo stremo, di non avere neppure di che nutrirsi, dato che i novanta rubli del suo salario le bastavano appena per mangiare nove giorni. «Quella conversazione», confido ai miei ospiti, «conferma la mia opinione su quanto possa essere pericolosa una monocoltura impiantata troppo frettolosamente. Sul momento, e prima degli
adattamenti necessari, essa può infatti causare gravi inconvenienti, qui come in altre zone dell'Europa e dell'Asia». «Il cibo è il costante problema di tutti i giorni!», soggiunge Nikola, consigliandomi di recarmi al Torgsin per i miei acquisti. Avendogli detto che vi ero andata una volta per comprare del sapone, mi domanda se ho incontrato dei negri e, visto il mio stupore, mi spiega che ne hanno fatti arrivare sei dall'America per problemi inerenti al cotone e che è assai facile incontrarli al Torgsin, dove essi si riforniscono abbondantemente di whisky, biscotti e scatole di conserva.
Le risposte del presidente orientale Alla «Pravda Vostoka» il direttore ha telefonato sulla sua linea privata, collegata direttamente a quella di Faisula Khodjajev, per comunicare al presidente che una straniera desidera incontrarlo per un'intervista. Egli ha acconsentito e così ho ottenuto un colloquio. «Prendete un interprete, in modo da non perdere tempo in spiegazioni superflue dato che vi ha concesso solo una mezz'ora. Al Glavkhlopkom, il Comitato centrale del cotone, lavora una persona che conosce assai bene sia il francese sia l'inglese». In un grande caseggiato grigio dai tendoni arancioni trovo il mio uomo, sepolto sotto una pila di riviste. «Mi tengo al corrente su tutto quanto si pubblica nel mondo riguardo al cotone», mi spiega. Fissiamo un appuntamento per recarci allo Sovnarkom e, mentre mi appresto a uscire, entra un negro. Ha un volto che irradia intelligenza, occhi bellissimi; indossa una camicia di seta e un abito di taglio perfetto: sembra un dandy uscito da Cambridge. È uno degli ingegneri specializzati dell'istituto del cotone, provenienti dall'America del Nord. Rimango a bocca aperta. Mi rendo conto soltanto ora che mentre Nikola mi parlava di quei negri che avrei dovuto incontrare al Torgsin, facevo inconsciamente riferimento a stereotipi formatisi nell'infanzia - e quindi particolarmente duri a morire - e immaginavo creature dai capelli crespi, bestie da soma delle piantagioni. Quei negri, che in Alleluja raccoglievano il cotone o che venivano rappresentati da Covarubbias cantando esaltati i loro spirituals, hanno ora una grande rivincita: i loro figli, riattraversano nuovamente il mare e vengono a insegnare ad altri il proprio sapere. «Il mio recente soggiorno di parecchi mesi nel Kirghizistan mi ha permesso di rendermi conto dei molti problemi con cui si deve confrontare lo stato sovietico in Asia centrale. Credo che voi siate la
persona più qualificata per erudirmi e vi sono riconoscente per avermi voluto ricevere». Nella grande sala Faisula siede dinanzi a un immenso tavolo la cui forma a T mette fra noi una certa distanza. Il presidente, alzatosi al mio arrivo per venirmi incontro, non è alto, veste di scuro, ha bellissimi occhi neri, testa e viso ovali, incarnato dai riflessi dorati. Se lo avessi incontrato in un salotto l'avrei scambiato per uno spagnolo. Inizio l'intervista domandandogli se i “nazionali” saprebbero governare senza l'appoggio dei russi. «È assai difficile rispondere. Tutto dipende dal livello di preparazione dei nostri quadri. Fino al 26 il russo era la sola lingua usata dal governo, ma ora i villaggi e le organizzazioni centrali tengono i loro rapporti in uzbeko. Questo è anche l'idioma che viene usato nelle scuole. Nel '24 soltanto il 10 per cento poteva vantarsi di non essere analfabeta; nel '32 siamo saliti al 60 per cento. L'opera educativa è forse più facile con i tagiki, dato che sono stanziali». «È forse questo il motivo per cui lo sviluppo del Tagikistan è più rapido e attivo di quello del Kirghizistan?». «No, la ragione è piuttosto da ricercarsi nelle influenze straniere, più forti in Tagikistan che altrove. Al momento attuale abbiamo diecimila studenti uzbeki che si preparano per entrare nei quadri delle nostre organizzazioni; e a questi bisogna sommare ventimila studenti russi». «Quali sentimenti nutrono gli uzbeki per i russi, loro colonizzatori?». «Percepiscono naturalmente il grande divario tra la vita di oggi e quella passata, consapevoli di quanto è stato fatto per favorire tale evoluzione. Occorre precisare inoltre che un tempo gli uzbeki non potevano accedere che alle scuole russo-indigene; solo a Taškent vi erano istituti laici tollerati dal governo. Le scuole nazionali erano tutte confessionali, e a Taškent il Turkestanskaja Učitelskaja Seminala, diretto dal missionario russo Ostrumov, formava i maestri. Gli insegnanti del Turkestan di fede musulmana professavano il medesimo credo politico dei funzionari originari della Russia, tanto l'influenza colonizzatrice era forte. «I commercianti non avevano il diritto di impiantare stabilimenti su questa sponda del Volga, potevano soltanto agire come
intermediari tra le banche e i fabbricanti. I contadini russi, incapaci di coltivare il cotone, erano mandati altrove, mentre gli uzbeki lavoravano sui loro territori. Non ricevendo alcun aiuto dal governo, essi vendevano i raccolti alle banche con due o tre anni in anticipo, sicché queste ultime si impossessavano delle terre non appena una cattiva stagione impediva agli indigeni di far fronte agli impegni assunti. Ora la terra appartiene alle popolazioni, esse hanno ormai nazionalità, lingua, letteratura, arti proprie». Ascoltando le sue parole penso che certamente egli è anche al corrente di come i bolscevichi, estranei a ogni religione, hanno operato tale rivoluzione agraria: essi sono stati costretti a sollecitare approvazione del clero musulmano affinché convincesse gli indigeni che la spartizione delle terre non era condannata dalla sharia né dal Corano. Gli domando ancora in che modo reagisce un contadino asiatico al regime sovietico e al comunismo. «Capisce soprattutto quanto grande sia il lavoro da realizzare in ogni campo. Vorrei anche aggiungere che non vi è una sostanziale differenza di mentalità; il popolo uzbeko non è mai stato individualista». «Ma per quali vie l'apatico Oriente è arrivato ad ammettere l'idea comunista?». «Grazie al lavoro a cottimo, che ha rappresentato un intero periodo della collettivizzazione: fu un momento di basilare importanza, una tappa necessaria tra l'individualismo e il collettivismo». Alla mia richiesta di conoscere le ragioni che lo hanno condotto a diventare comunista, così risponde: «Mio padre, un uomo ricchissimo, e morto quando avevo tredici anni; a quattordici ero già a capo dei Giovani di Bukhara. Nel '17 il nostro principale obiettivo era di annientare il mir, la grande proprietà. Un'unione era tuttavia indispensabile, da soli non eravamo abbastanza forti per agire. Perciò ci rivolgemmo ai russi. Fui condannato una prima volta dall'emiro e poi ancora dopo la rivolta del '18; durante la guerra civile mi trovavo in Russia. Al momento della scissione dei buharioti, nel '17, l'emiro era appoggiato dagli inglesi...». «Alcuni dicono che abbiate lavorato per l'Intelligent Service».
«Non io, fu Ubaidulla Khodjajev che nel '18, a Kokand, era ministro degli Affari esteri del governo nazionale nemico». «Il movimento nazionalista, così ostile all'ideale comunista, rappresenta un pericolo?». «I nazionalisti hanno cercato di mettersi a capo del movimento dei basmaci, sostenuto all'inizio dai kulaki, i contadini agiati. Enver Pascià era legato a loro, i quali però perdevano sempre più peso grazie al nostro costante impegno nel diffondere la comprensione dei nostri obiettivi». «Ma la nazionalizzazione della vostra lingua, del vostro teatro, della vostra letteratura non finirà per separarvi dal sovietismo?». «Affatto, sono proprio i nostri soviet a dirigere la nazionalizzazione, sicché essa non può diventare un focolaio di sviluppo nazionalistico. Le nostre azioni sono tutte mirate al servizio dei contadini e dei proletari, ed essi ci seguono. Come dice la formula adottata da Stalin: “Nazionale nella forma, proletario nella sostanza”; o ancora: “Cultura socialista nel suo contenuto, nazionale nella forma”». «Ho osservato che a Taškent, nella città vecchia, quasi tutte le donne sono velate. Secondo voi, tutte queste grandi riforme a favore delle donne renderanno le dirette interessate più felici? Sembra che dopo l'emancipazione sia aumentata la prostituzione». «L'abbandono del čador non è fondamentale in questa liberazione, è soltanto un simbolo. Hanno voluto attribuirvi un'importanza esagerata, creando veri drammi di famiglia. Ciò che conta è la maturità interiore delle donne, acquisita con l'istruzione, la propaganda, il lavoro retribuito che le affranca dalla dipendenza dall'uomo. La libertà non è sempre inebriante per loro, ne convengo. Occorre educarle. E, quanto alla prostituzione, vi saranno sempre donne oziose inclini a tale mestiere». Gli esprimo i miei dubbi sulla possibilità che un kirghizo nomade si trasformi in proletario. «Perché no? Anche a lui non sfuggono i molti vantaggi di questa nuova condizione: ha pane, zucchero, stivali, una paga fissa, una vita organizzata, qualche divertimento. Sono gli stessi vantaggi che hanno indotto i nostri contadini a realizzare le condizioni del Piano per la coltura del cotone. Nel 1916 l'Asia centrale produceva sedici
milioni di libbre di cotone importandone undici milioni. Attualmente siamo arrivati a una produzione di trenta milioni. Già nel '27 la superficie delle terre coltivate superava quella dell'anteguerra. E il sistema funziona a meraviglia da quando riusciamo a importare dal Turk-Sib i cereali qui ora sostituiti dal cotone. È così finita la nostra dipendenza dal mercato cotoniero capitalista. Tali risultati sono stati raggiunti grazie all'emulazione socialista». Vorrei obiettare che la realtà non corrisponde del tutto a quanto mi ha appena riferito. E Faisula ne è consapevole quanto me, ne sono certa. Gli abitanti del Turkestan si lamentano di vivere in questo periodo di adattamento una vita impossibile; del medesimo parere sono i russi che ho avuto occasione di incontrare, non importa se dottori, insegnanti, architetti... Lo stesso malessere è avvertito anche dagli indigeni che ritornano a essere nomadi, sperando in migliori condizioni di vita. Essi abbandonano i kolchoz dove non sempre le promesse sono state mantenute e dove il grano importato è spesso insufficiente. Fatto strano, con tutta quest'abbondanza di cotone vi è penuria di olio. Sul tardi, una sera, avendo perso l'ultimo tram, avevo visto una dozzina di donne sedute sul marciapiede, davanti all'emporio chiuso di una cooperativa; la mattina dopo, verso le dieci, le persone in attesa erano ormai un centinaio e tutte con una bottiglia in mano: «Za klopkovoe maslo», per l'olio di cotone, mi avevano spiegato. Ma Faisula guarda l'orologio, è giunto il momento di accomiatarmi. «Se non sapete dove mangiare», dice ancora, «passate dal mio segretario che vi darà una tessera per il ristorante del Sovnarkom». Lo ringrazio dell'offerta e approfitto per chiedergli se è possibile ottenere un biglietto per l'aereo diretto a Samarcanda, i cui posti sono sempre assegnati in anticipo. Anche di questo si occuperà il segretario. L'intervista è finita senza che il mio interlocutore abbia mai abbandonato il tono ufficiale, senza che io sia riuscita a stabilire un contatto veramente diretto fra noi, benché spesso la conversazione si sia svolta senza l'aiuto dell'interprete. Nell'anticamera una ventina
di persone, in attesa del proprio turno di udienza, mi guarda con odio: mi sono trattenuta per un'ora e mezza nella grande sala. Con l'aiuto dell'interprete tutto si accomoda: compilato un foglio, un'auto ci conduce all'aerodromo per la considerevole somma di settanta rubli. Al ritorno la macchina si ferma per un guasto davanti a una grande chiesa, ora circolo di operai metallurgici; la porta d'entrata è sormontata da un gigantesco ritratto di Lenin, incorniciato da lampadine elettriche rosse. L'autista attinge acqua da un aryk per riempire il radiatore, ma a nulla serve. Contrariamente agli usi asiatici l'uomo bestemmia a più non posso. Sembra che tanta ira sia dovuta al fatto che perderà la sua lezione di inglese.
Dall'alto dei cieli Alle otto precise il piccolo Junker a tre posti si mette in moto, sobbalza, sbanda, si riassesta: abbiamo decollato. Ma, che sta succedendo? Un'ala cede! No, sta semplicemente virando, l'altra ala rasenta il suolo nella manovra: ora abbiamo il sole alle spalle, sulla sinistra. Coraggio, prendi quota! Non vedi i grandi alberi dinanzi a noi? Le torri massicce dei silos di cemento, che si ergevano quali enormi cilindri grigi disegnati da un architetto futurista, ora non sono che pile di monete allineate. La chiesa è un pezzo bianco del gioco degli scacchi, che avanza su un campo grigio. I canali di irrigazione si ramificano in mille sinuosità fra il verde polveroso dei giardini. I campi di cotone sono giallastri, macchiettati di scuro. Ecco la striscia gialla di una falesia lungo il Čirčik, affluente del Syr Darja. L'oasi di Taškent si va allontanando. Toni rossicci e vellutati si rincorrono in mille variazioni sulle sabbie incolte. Ecco il Syr Darja e i suoi ampi meandri! Conosco bene questo fiume, l'ho visto scorrere tra i nevai, lassù dove sorge con il nome di Naryn. Il suo letto lì ancora stretto, con le sue acque impetuose che scendevano di roccia in roccia, a quel tempo non serviva a nessuno, nessuno ne snaturava il libero corso con strozzature o sbarramenti per irrigare campi e alberi della Sogdiana. D'altronde tanta duttilità non gli ha evitato una triste fine nelle chiuse acque salmastre del lago d'Aral, dove è costretto a condividere l'ultima dimora con il rivale Amu Darja. In questo momento il suo corso inganna terribilmente la vista: verso sud scintilla come oro, per farsi blu turchese a nord, ma proprio sotto di noi si spegne in un grigiore desolato. Malgrado sia assolutamente proibito fotografare, da dietro il vetro scatto un'istantanea catturando l'immagine della sua ansa, una
grande esse blu circondata da terre rosse. Addio! O forse lo rivedrò se prima del Caspio mi stancherò dei noiosi tragitti in treno. Nessuno ha udito lo scatto, né il mio vicino che legge accigliato né il pilota, che non ha retrovisore. La rotta punta a sud, verso il Fergana, in linea dritta tra piste che si susseguono come grani di un rosario. E ora ecco il “deserto della fame”, la Golodnaja, steppa senza fine, plaga arida e gialla spruzzata di sale bianco. E le liriche parole di Flecker mi riaffiorano alla mente: We are the Pilgrims, Master; tue shall go Always a little further: it may be Beyond that last blue mountain barred with snow, Across that angry or that glimmering sea; White on a throne or guarded in a cave There lives a prophet who can understand Why men were born: but surely tue are brave Who make the Golden journey to Samarkand. Siamo i pellegrini, maestro; andremo Sempre un po' più lontano: sarà forse Dietro quel monte azzurro striato di neve, O su quel mare furioso oppure scintillante; Bianco su un trono o protetto entro una grotta Laggiù vive un profeta che sa Perché gli uomini sono nati; siamo certo coraggiosi Noi che seguiamo la strada d'oro per Samarcanda. Quei pellegrini volevano conoscere le ragioni del nostro nascere, e le donne nulla potevano per trattenerli... Le loro carovane avrebbero impiegato tre settimane per raggiungere la famosa città, ma con il treno occorrono soltanto dodici ore e appena due con l'aereo! Contrasti violenti: piane senza vita e fertili oasi; deserti soffocanti, salati, e alte montagne innevate: tende di feltro, da sempre rifugio dei nomadi, e casermoni operai di Taškent; musulmane velate e, quale sconcerto! — le loro sorelle in fabbrica, operaie. Vestigia di Timur, attorno a cui si va formando il proletariato per edificare il socialismo.
Immagini che si dipanano ai miei piedi, mentre io, alta nel cielo, guardo dalla mia mobile base in alluminio ondulato. E quei negri? Non ho potuto interrogarli. E neppure ho intervistato la moglie del granduca Nikola Konstantinović, un tempo bandito dalla corte. Era un furfante; a Orenburg aveva rapito la figlia di non so quale governatore per sposarla... Un giorno incontrai quella donna: il capo avvolto da un velo di pizzo, i capelli ricci, il viso dai tratti cascanti, infarinati di cipria, la bocca amara, lo sguardo inquisitore, se ne andava curiosando in un mercato. Indossava una giacca grigia di buon panno, bordata di passamaneria, un vestito bianco a volant e si serviva dell'ombrellino come di una canna da passeggio; sotto il braccio stringeva un portafoglio. Rovina del passato... Non riuscivo a staccare gli occhi da lei, che peraltro non mi notò tanto era occupata a non comprare nulla, sempre più ostile. Quando l'uva, il prodotto più abbondante della terra di Taškent, costava due rubli alla libbra... No, sono stanca di informarmi senza sosta, di porre domande, di imprimere risposte nella mente. Quale infinita gioia, il silenzio! Nella steppa della fame le carovane non possono fermarsi perché i cammelli verrebbero attaccati dai karakurti, ragni neri velenosi. Il cielo riluce di opalescenze incomparabili. Alle chiazze scure che coprivano il suolo si è ora sostituita una distesa gialla, costellata di macchie lilla. Ed ecco apparire verdi quadrati, probabilmente campi di erba medica: stiamo sorvolando Djizak, costruita non lontano dalla gola di Timur. L'aereo s'innalza per superare le montagne che si parano innanzi a noi. Come vacilla! Reggerà? So bene che il pilota conosce il suo mestiere certo meglio di me, ma è appunto la troppa esperienza che mi induce a temere gesti meccanici, abitudinari... I valloni di questa montagna desertica sono divisi in piccoli riquadri regolari. Perché? Ancora domande, basta! Scivoliamo nella valle dello Zeravšan, il “donatore d'oro”. Siamo arrivati, ecco l'oasi di Samarcanda, uno spazio verdeggiante disseminato di costruzioni ad alveare: sono i cortili delle case. E le rovine? Le abbiamo superate, ora sotto di noi si stende di nuovo il deserto, sembra venirci incontro, offrirci la possibilità di atterrare sulla sua piatta superficie.
Scendo con il mio occasionale compagno di viaggio, sempre scontroso, e finalmente ho il piacere di udire la voce del pilota: «Sono le nove e quarantotto, abbiamo guadagnato due minuti su 285 chilometri di volo». Prendo le mie due borse guardando con invidia il S.S.S.R.-L 85 che partirà fra dieci minuti per il Tagikistan. Ma è ancora presto. La sua ombra lunga si proietta sulla sabbia: in quattro ore coprirà un tragitto per cui occorrono tre giorni di treno. Solitudine. Laggiù una nuova montagna. Qui una casa. È tutto. Il pilota, consumato il pranzo, riparte sul suo aereo rombante. «Quindici giorni fa», mi dice il giovane e aitante comandante dell'areoporto, «avreste avuto l'occasione di incontrare un signore inglese che è ritornato a Londra dopo appena quarantotto ore di permanenza qui. Un tipo sostenuto, compassato e silenzioso. Sono tutti così in Inghilterra?». Forse sì... E il loro modo di comportarsi con gli stranieri. Saliamo su un camion per percorrere i dodici chilometri che ci separano da Samarcanda. Attraversata la città russa vengo depositata all'angolo di un incrocio. «Non avete che da seguire il corso fino alla piazza Registan, dove troverete la “base di turismo”».
Samarcanda, l'incomparabile Sempre, quando mi trovo a passare frettolosamente per qualche luogo di particolare suggestione, desidero soggiornarvi più a lungo al fine di assaporare con calma le emozioni che da esso si sprigionano. Vedere il sole giocare lento con le ombre del chiostro di Monreale; trascorrere la notte al santuario di Delfi per lasciarmi avvolgere al mattino da quell'atmosfera vibrante sotto il primo raggio di sole! Vivere nel cortile squadrato di una madrasa di Samarcanda, un sogno che si realizza... Quale migliore ricompensa per il viaggiatore avventuratosi fin qui? I turisti sono rari: ho una camera tutta per me. È un'antica cella lastricata, imbiancata a calce, con il soffitto altissimo e una finestrella sopra la porta; gli unici arredi sono un pagliericcio, un catino smaltato, un tavolo dove sistemo la mia cucina. È tutto, ma è un mondo. Mi occorrono due giorni per perlustrare la madrasa dove mi trovo, quella di Tin-la-kari, in persiano la “moschea dorata”. In ognuno dei quattro muri del cortile si aprono dieci grandi nicchie ogivali; quella centrale, la più ampia, è un'arcata tutta rivestita di splendidi mosaici variopinti: è l'iwan, la porta tradizionale. L'iwan a sinistra dell'entrata è sormontato da un'immensa cupola che protegge il luogo di preghiera, la moschea chiusa. Dalla mia cella vedo a un tratto due europei — abiti e cappelli grigi - entrare nel cortile con in mano una guida rossa. Nel momento esatto in cui, provenienti dall'ufficio dove hanno ricevuto le informazioni richieste, essi si dirigono nella mia direzione, sto vuotando con slancio il catino davanti alla mia camera. Cercano proprio me, vogliono trasmettermi i saluti di un'amica tedesca che vive a Mosca. Ho l'orlo del mio unico vestito tutto sbrindellato, mia madre direbbe che sono impresentabile. Pazienza, la cosa mi è indifferente... Non poi così tanto, dal momento che ogni mattina
tento invano di raccomodarlo. Magari i due mi inviteranno al loro albergo, dove serviranno senza dubbio portate di vera carne. Non è accaduto: hanno ragione, il mio aspetto è pietoso. Se ne vanno. Cielo, come sembrano infagottati in quei loro bei completi quando incrociano un flessuoso uzbeko! Il suo čapan a fiori è chiuso dal fazzoletto triangolare ed egli regge in mano una teiera. Quattro donne sono accovacciate al centro del cortile, scuri mucchi sotto i loro parandja. Le raggiungo, ci scambiamo i primi sorrisi. Non portano il čador e due di esse sono splendide. Ma ecco che sollevano un lembo del parandja reggendolo con le labbra. Che cosa è successo? Improvvisamente si nascondono il volto, si alzano affrettandosi tutte verso il loro padrone e signore che le chiama dalla porta. In mezzo a una cantina situata su un angolo della madrasa, un uzbeko riempie di legna un immenso forno rotondo: è il vasaio intento a preparare la cottura. Spesso vado a tenergli compagnia. In questo momento gli orifizi ancora aperti del focolare incandescente, vere porte infernali, inducono a fantasticare; ma subito l'uomo le richiude con mattoni e terra fangosa e nel frattempo mi confida che è andata perduta la formula per la preparazione degli smalti blu dei mosaici. Recandomi alle latrine, in un cortile sul retro, ho scoperto una catasta di mattoni di terra cruda, grazie alla quale posso salire sul tetto della madrasa, una lunga terrazza dove il vento fa tremare piante ormai secche. Gli indigeni, prima di chiudersi nella casetta adibita ai servizi, sbriciolano un mattone prendendone qualche frammento. Evidentemente non sempre si ha a portata di mano un giornale: nondimeno un mattone mi sembra un po' ingombrante... Nei deserti o nei fossati ho visto che chi s'accovaccia compie sempre lo stesso gesto: raccoglie una manciata di sabbia. Ho appreso in seguito che tale procedimento sostituisce le abluzioni ordinate dal Corano. Rimango ore sulla mia terrazza solitaria lasciando errare lo sguardo sul mare di tetti piatti che delimitano minuscoli cortili interni. Alberi dal folto fogliame ombreggiano vasche, riserve d'acqua. Il tetto sopra la moschea si gonfia a intervalli regolari in perfetti emisferi che proiettano ombre ovali: morbide rotondità da
accarezzare, mappamondi dimezzati su cui giocano i raggi del sole. Ancora oltre vi è una stretta galleria, ai piedi del tamburo che sostiene la cupola. Da qui vedo bene il lato posteriore di Tin-la-kari, la cui struttura in mattoni grezzi ricorda le quinte di un teatro; la facciata vera e propria è invece prospiciente la piazza Registan. Da quassù si vedono anche le sommità dei giganteschi minareti, torri di fabbrica mai contaminate dal fumo. È strano, mi appresto a visitare una città di cui mi è nota solo la magia del nome. Come per Baghdad, pure così pregna di significato, nessuna idea o immagine preconcetta è custodita dalla mia memoria. Sarà dunque impossibile patire delusioni: tutto è ancora da scoprire. Registan All'ombra di un portico, in attesa di clienti, lo scrivano pubblico dorme con la testa appoggiata sul suo čapan ripiegato. Davanti a lui, accanto a una cartellina e all'astuccio delle penne, vi è un campione della sua grafia, tenuto fermo da una teiera. Di fronte, il fotografo di istantanee ha anch'egli esposto il suo campionario. Ora entra in azione: la cliente del momento, “il cui ventre è pieno”, solleva per un istante il suo čador: volto troppo rotondo, occhi splendidi, sopracciglia unite da un tratto di khohl. L'amica, i cui abiti moderni — gonna corta, camicetta, berretto ricamato — producono uno strano contrasto, paga il fotografo. La piazza Registan è superba: tre dei suoi lati sono costituiti dalle alte facciate delle madrasa restaurate con grande passione dall'architetto Vjatkin. I lavori, avviati a inizio secolo, continuano tuttora. Occorre cementare laddove i muri di mattoni scadenti sono stati danneggiati da vento, sole, pioggia, gelo, e ripristinare i rivestimenti di smalto che si sono scollati. La madrasa di Ulug-Beg è bellissima nella sua semplicità: antro scuro dell'immenso iwan, arco murato entro l'architettura quadrata della facciata di mattonelle smaltate a motivi geometrici.
A ogni angolo si innalza un minareto isolato, i cui mattoni disegnano losanghe di colore blu scuro; le cupole intermedie sono crollate. Il minareto di destra, pericolosamente pendente, è in ristrutturazione. Da un anno e mezzo tengono in trazione i cavi con cui l'hanno cinturato a metà altezza, cercando così di raddrizzarlo senza farne saltare le mattonelle decorative. Quando Vjatkin morì, su questa piazza si svolse una solenne cerimonia. La madrasa in questione, la più antica e importante dell'Asia centrale, fu costruita nel 1412 da Ulug-Beg, il sapiente nipote e successore di Timur. Insigne matematico e astronomo, egli dovette fronteggiare l'opposizione di chi avversava il suo progetto di laicizzare le università. Fu ucciso in seguito a un complotto di militari capeggiati dal figlio. Il suo migliore collaboratore riuscì a salvarne tutte le importanti scoperte scientifiche e si rifugiò a Costantinopoli nel 1450. Di fronte, per esigenze di simmetria o per mancanza di inventiva, si innalza la madrasa di Shir Dar, copia di quella di UlugBeg, costruita due secoli dopo. L'architetto, Jalank Tush, era un personaggio importante alla corte dell'emiro. Le cupole, all'ombra dell'immensa facciata, offrono allo sguardo rotondità scanalate dai settori in rilievo. Soprattutto nel Turkestan le cupole sono sorrette da alti basamenti cilindrici; del pari, solo in questa regione gli spigoli dei muri, così come i minareti, si svasano verso l'alto. Contrariamente alla tradizione, sui mosaici della facciata è rappresentato un animale, una sorta di leone. Ovunque i motivi decorativi riproducono frasi in caratteri arabi: «L'architetto ha edificato l'arco del portico con tanta sublime perfezione che l'intero cielo se ne stupisce e crede di vedere una nuova luna», oppure: «Soltanto l'aquila del pensiero riuscirà a raggiungere la sommità di questa madrasa». E, ancora, leggo incantata: «Nei secoli, nemmeno l'artista acrobata del pensiero raggiungerà mai con la corda della fantasia la cima proibita del minareto»; «Tu sei il grande guerriero, Jalank Tush Bahadur, se si sommano le cifre corrispondenti alle lettere del tuo nome si ottiene la data della fondazione (1028 dell'Egira)».
Visitare Shir Dar è impossibile poiché è ora adibita a prigione dei basmaci, il cui processo è in corso da molti mesi. Costruita nel 1630, la facciata di Tin-la-kari si differenzia dalle altre per i due piani di arcate che fiancheggiano l'iwan centrale. Al centro della piazza una folla compatta si accalca attorno a un saltimbanco per ammirarne stupita i volteggi. Dietro Shir Dar si apre una piazza rotonda dove sotto una cupola vi è un piccolo mercato. Là, tra una folla brulicante, si vende di tutto: copricapi ricamati, saponi, tabacco, lacci, tessuti, foulard, calze, nastri, frittelle untuose cotte sul momento, pezzi di pecora poggiati su un grande vassoio protetto da un coperchio di tela a forma di cupola, sorbetti che evocano splendenti cristalli di neve. Alcuni prepotenti si fanno largo fra la folla. Attenzione! Devono passare personaggi importanti: sono i miei visitatori tedeschi. Rispondo con il mio sorriso più mondano al loro accenno di togliersi il cappello... Vicoli dove si svolgono i vari mestieri. Nella penombra dei tetti spioventi le minuscole botteghe si fronteggiano; qui gli artigiani che lavorano accovacciati, là i ciabattini e i falegnami. I fabbri che battono sull'incudine poggiata al suolo sono in ginocchio per essere alla sua altezza e sembrano quasi inghiottiti dalla terra. A ogni movimento del mantice, per ravvivare le braci, si sprigiona un forte odore di antracite, assai simile a quello che ovunque stagna nell'umida Inghilterra. Nella stradina sonora degli stagnini mi appare, incorniciata da oggetti di rame luccicanti, la testa di un giovane uzbeko che arrota coltelli nella sua bottega: gli occhi splendenti rimandano riflessi neri e bianchi sotto l'ombra del grande tocco di soffice pelliccia bruno dorata. «È volpe, senza dubbio», gli dico. «No, gatto...». Dimenticavo, i gatti di Bukhara... Bibi-Khanym
Rovine di Bibi-Khanym, grandezza andata in fumo. Due immensi basamenti all'entrata, ammasso di mattoni ricoperti a tratti da piastrelle di maiolica; ampio cortile alberato, lungo ottantotto metri, un tempo lastricato. Al centro, sopraelevato di due gradini, si impone uno splendido tavolo di pietra scolpita, sostenuto da otto piedi cubici, sul quale veniva poggiato il Corano di Osman. Il tavolo si trovava prima nel santuario; una delle sue iscrizioni dice che UlugBeg lo fece trasportare dalla Mongolia, da Djiti. È il kursen, la pietra ai cui piedi pregano le donne sterili, la mattina a digiuno. A sinistra, una piccola moschea dove il muezzin intona il suo canto dall'alto della torretta. Di fronte ecco l'enorme arco, alto venticinque metri, il portico della grandiosa moschea sormontato da un quarto di cupola cavillata, superficie di un turchese tanto splendente da far impallidire l'azzurro del cielo. Ho ammirato un colore identico sul lago di Kaškasu, quel classico blu mongolo la cui vista dà un senso di benessere. Il portico è fiancheggiato da grandi minareti ottagonali, le cui mattonelle turchesi e blu marino disegnano sui muri motivi in rilievo; piastrelle di maiolica ornano le pareti del portico. Per osservare meglio quanto resta di quella cupola, alta cinquantacinque metri, scavalco il muro di cinta. Mi accorgo allora di un acrobata che passeggia lassù. Si procura un po' di legna svellendo travi infisse nei mattoni della volta: sono dure, lisce, color lampone. L'uomo se ne va con il suo bottino. Il suolo è disseminato di mattoni smaltati. L'intensità del blu scuro risalta incredibilmente sulla gaia leggerezza del turchese. La moschea-cattedrale fu costruita in un tempo troppo breve, in pochissimi anni, dal 1398 al 1404. Timur, ormai settantenne e prossimo alla morte — avvenuta nel 1405 — vi si faceva ancora portare in barella per sorvegliare gli ultimi lavori. Il tempo, i terremoti, le cannonate della conquista russa del 1868 l'hanno trasformata in una rovina impossibile da salvare; la cupola è crollata nel 1882. Non esistono più le numerose colonne di pietra che delimitavano il perimetro. Lo scrittore contemporaneo Sherif ed-Din afferma che ve ne erano 480, alte cinque metri. Per trasportarle erano stati fatti venire dall'India novantacinque elefanti e alla loro
realizzazione avevano lavorato innumerevoli operai e tecnici, giunti da tutte le contrade circostanti. Si racconta che Bibi-Khanym, principessa mongola e moglie preferita di Timur, avesse ordinato la costruzione di una splendida sala del trono per il suo sposo. Timur, che guerreggiava in paesi lontani seminando ovunque distruzione e rovina, le inviava a tal fine i prigionieri più abili. La principessa ogni giorno si recava a controllare i lavori, il cui andamento però era rallentato dall'architetto arabo che, follemente innamorato di lei, sperava così di starle accanto più a lungo. Impaziente di veder terminata la sua madrasa, Bibi-Khanym gli domandò come si potesse accelerarne la costruzione. «Permettendomi di baciarti la guancia», fu la risposta. Ma ella rifiutò. La notizia però che Timur era già giunto a Merv spinse infine la principessa ad acconsentire, ma un attimo prima che il bacio sfiorasse la sua guancia ella interpose la mano. A nulla valse: quel bacio era così ardente da bruciare ugualmente la sua pelle, imprimendole un segno nero, impossibile da cancellare. BibiKhanym ordinò allora a tutte le donne di velarsi il volto. «Per tutelare il pudore femminile», spiegò poi allo sposo che al suo ritorno se ne era meravigliato. Ma Timur, conosciuta la verità, condannò la moglie a essere murata viva nel suo mausoleo, innalzato di fronte alla moschea. L'architetto invece, fuggito in cima a un minareto, potè salvarsi volando via verso Mashhad grazie alle ali che gli erano miracolosamente spuntate. Alcune leggende attribuiscono la macchia nera al tradimento, anche se solo a parole, di Bibi-Khanym; altre sostengono che la comparsa di quel segno fu il castigo per non aver mantenuto la parola data all'architetto innamorato. La macchia presto scomparve, ma ancora oggi perdura l'usanza di chiamare “viso nero” chi viene meno alle promesse o ai propri doveri. Già nel 1369 Timur aveva scelto come sua capitale Samarcanda, che contava allora 150 000 abitanti, e aveva restaurato la città devastata nel 1218 dal suo antenato Gengis Khan.
Il mausoleo di Tamerlano Il Gur-i-Mir, il “mausoleo del principe”, ovvero di Timur, ultimato nel 1404, si trova in un'altra zona della città, all'ombra lieve delle acacie. Il conquistatore stesso aveva espresso il desiderio di essere seppellito a Kesh dove era nato; egli aveva ordinato di costruire sull'area di un antica tomba questo superbo edificio per il nipote, il cui sepolcro doveva avere accanto quelli di due uomini santi. Ma i suoi successori decisero altrimenti. All'improvviso, al fondo di una tortuosa stradina attraversata da silenziose donne velate, appare l'immagine impressionante del Gur-i-Mir, un'enorme semisféra sostenuta da un cilindro del medesimo diametro che splende sopra le basse mura terrose e compatte della città. Avvicinandosi, si distinguono sul tamburo alto sette metri le iscrizioni splendenti al sole in grandi caratteri cufici, la prima scrittura araba, artisticamente formate da bianche maioliche, incorniciate di blu scuro. Procedendo ancora si scorge il basamento ottagonale che sostiene l'intero edificio. Nel cortile antistante si innalza tra gli alberi un portico isolato, ornato di arabeschi e di raffinati motivi geometrici azzurri e verde scuro. Quando si arriva accanto al mausoleo, alzando la testa verso la cupola, i costoloni in rilievo sembrano appartenere a uno strano pallone sferico, prigioniero del verde. Entro da un passaggio secondario. La sala delle tombe è buia, il sole filtra attraverso una piccola finestra traforata formando gemme di luce. Dietro una balaustra di alabastro ecco il sarcofago di Timur: un semplice blocco rettangolare di nefrite verde scuro, una specie di giada rara, fatta arrivare dall'india. Accanto si allineano le tombe dei ministri e di alcuni suoi figli, tra cui quella di Ulug-Beg. A fianco della pietra sepolcrale dello sceicco Seid Bereke si innalza la grossolana asta del bunčuk, che indica sempre la tomba di un santo. Sotto il rivestimento di marmo e di alabastro incastonato di diaspro, i muri lasciano intravedere tracce di pittura e di dorature. In una cripta sottostante la sala si trovano le spoglie di Timur, accanto a quelle del suo maestro. Timur e-lang, “Timur lo zoppo”, che seminò terrore e distruzione dall'India all'Egitto, seppe creare a Samarcanda monumenti di inusitata meraviglia.
All'uscita del mausoleo un sant'uomo aspetta in silenzio il cliente che vorrà comprare una copia delle iscrizioni incise sul sarcofago di Timur, che così recitano: «Questa è la tomba del potente sultano, il misericordioso khan Amir Timur... Gurkhan (genero del khan). Gengis Khan appartiene alla dinastia degli antenati del degno sultano qui sepolto, in questa cripta santa e splendida. La madre dell'emiro Buzandshara era Alankuwa, che si distinse per onestà e purezza senza macchia. Ella fu fecondata da un raggio di luce entrato nella sua camera aperta, il quale, assunta sembianza umana, le comunicò di essere il discendente del credente Alija, figlio di Talib, e profetizzò che i suoi veri eredi avrebbero per sempre regnato sulla terra». La strada dei sepolcri Fuori città vi è un luogo singolare ed emozionante quant'altri mai: è la strada dei sepolcri di Shah-i-Zinda, il re vivente. Questa necropoli, iniziata nel 1326, è il più antico monumento costruito dopo la conquista mongola; fu eretta in memoria di Kussam, figlio di Abbas, cugino di Maometto. Dai viali ombrosi di un parco si scorgono le desolate collinette, deserte e aride, di Afrasiab, sconfinata superficie morta, disseminata di tombe. Su pendici solitarie sorgono, quali teste d'obice, le cupole di una decina di mausolei, i cui muri conservano ancora tracce splendenti degli antichi smalti. In basso, sul bordo della strada, alcuni uzbeki barbuti sono seduti davanti alla porta d'ingresso, rivestita di piastrelle di maiolica. All'interno una grande scala conduce, a sinistra, al mausoleo a cupola turchese della nutrice di Timur. Giunta in cima alla scala, sormontata da un'arcata bianca, sono costretta a fermarmi tanto è lo stupore: cinque facciate di moschee in miniatura sono disposte ai lati di una stradina lastricata. L'apoteosi di colori, di arabeschi, di cesellature, di incrostazioni, di raffinati mosaici, di contrasti sapienti è indescrivibile. Non posso non rimanerne impressionata, anche se della tradizionale arte
persiana mi incantano veramente soltanto i tappeti, caldi e vellutati, dai motivi fantasiosi eppure razionali. A sinistra quasi si sfiorano i mausolei di Amir Zadi, figlio di Timur, e della sua prima moglie Turkan... E d'un tratto capisco a quali immagini si siano ispirati gli artisti persiani per i disegni dei loro tappeti: la meravigliosa facciata delle moschee, la porta ogivale inquadrata, l'arco dell'iwan — immutabile come la nostra croce — che riproduce esattamente il mihrab, nicchia ogivale a nido d'ape, santuario dinanzi al quale il mullah si inginocchia da sempre, mai stanco della sua “santa ginnastica”. L'interno di Turkan Aka, dove si trovano numerose pietre tombali, è assai bello; il soffitto della cupola è ricoperto da iridescenti mosaici geometrici. Di fronte, riposano l'emiro Hussein, una sorella e una figlia di Timur. Quando la stradina svolta a gomito, i muri perdono ogni traccia di smalto. Davanti a un secondo portico, vicino a due alberi secolari le cui schegge sembrano essere miracolose per ogni malattia, si innalzano ancora tre minareti. Giungo così in un piccolo cortile di incomparabile meraviglia. L'oltremare risponde al turchese, il blu marino al verde smeraldo, il cobalto alla terra di Siena, l'azzurro lapislazzulo all'ocra: i colori sembrano rispecchiarsi l'un l'altro, esaltati dalle tinte calde dei mattoni grezzi, creando un canto che sale verso l'azzurro del cielo. Le moschee di Kutluk e di Nuri, moglie e figlia di Timur, sono una di fronte all'altra. Al fondo vi è il santo Ahmed. Le abbaglianti colonne di Kutluk, interamente turchesi, sono scolpite in profondità, caratteristica peculiare del Turkestan. Il mullah, sotto la cupola del portico, apre le porte di legno incredibilmente lavorate; passando attraverso camere buie giungo al mausoleo di Shah-i-Zinda, il santo Kassim, chiamato anche Kussam. Nel VII secolo egli aveva convertito la Sogdiana all'islamismo, ma fu attaccato da un esercito di cristiani nestoriani. Sconfitto, fuggì; un angelo gli mostrò una grotta dove tuttora vive. Si racconta che egli gettò a terra il kamča, il frustino del suo cavallo morto, e che da esso siano germogliati i due alberi miracolosi vicino al portico. Secondo un'altra leggenda, il santo, decapitato dai pagani, si rifugiò in un pozzo tenendo la testa fra le mani, in attesa del momento propizio per liberare la terra dagli Infedeli.
Nella stanza antistante la tomba si innalzano alcuni bunčuk, aste avvolte da lembi di stoffa a cui i fedeli appendono code di cavallo, pegno, ciascuna, di un sacrificio offerto. La coda è un simbolo di forza: forse il cavallo era riuscito a scappare ma il suo padrone, ben saldo, aveva trattenuto la coda con le mani! La tomba è avvolta dall'oscurità, inaccessibile dietro un'inferriata. Afrasiab Ha nome Afrasiab il vasto spazio arido e desolato che si stende dietro Shah-i-Zinda, formato da colline polverose, talora da tombe sovrapposte, semplici volte di mattoni, piccoli tunnel in rovina. Così si chiamava il nono re della dinastia persiana Peshdad. Turco di nascita, fu il più famoso membro di quella antica dinastia, risalente all'XI secolo a.C. Il suo nome rappresenta negli annali del paese tutto quanto è antichissimo. Quale significato attribuire a questa immensa superficie informe dove ogni secolo ha deposto il proprio strato di polvere, rigurgitante di frammenti di terrecotte? Si individuano nettamente quattro cerchie di colline; nel centro, secondo quanto hanno mostrato gli scavi, viveva la dinastia regnante, poi vi erano le abitazioni dei mercanti e dei militari, mentre l'ultima cerchia era occupata dagli orti coltivati. Ancora oggi gli uzbeki leggono o narrano a viva voce le straordinarie imprese di Iskandar Sulkarnein - vale a dire di Alessandro Magno — che avrebbe fondato Marakanda. Il grande conquistatore, giunto qui nel 334 a. C., uccise l'amico Clito e sposò Rossana, figlia del capo iraniano della regione; egli volle che anche i suoi ufficiali prendessero in moglie le donne di quel paese, al fine di legare l'Europa e l'Asia con vincoli di nozze legittime e con la comune discendenza. Alessandro non incontrò turchi nel Turkestan, che allora si chiamava Sogdiana o Transoxiana, ma si imbatte nei Parti, arcieri a cavallo, e nei Battriani, delle cui terre è originario il cammello. Là il mazdeismo, la religione più diffusa, applicava i precetti di Zarathustra, fondati sulla lotta fra l'ombra e la luce. In tempi
posteriori il mitraismo farà i suoi adepti fin nel mondo romano, e, inversamente, il cristianesimo nestoriano, sorto nella Siria romana, avrà seguaci anche in Cina. A nord, oltre il paese degli sconosciuti Sciti, vivevano, insospettate, le genti innumerevoli degli Unni. Il grandioso progetto universalistico di Alessandro Magno crollò con la sua morte, avvenuta a Babilonia, in seguito a febbri provocate da un banchetto troppo abbondante. Egli aveva trentatré anni. La crudele Rossana potè finalmente vendicarsi della sua rivale, figlia di Dario e seconda moglie di Alessandro, e l'assassinò; ma fu a sua volta uccisa insieme con il figlio. Prese allora il potere il generale Seleuco che fondò in Persia la dinastia seleucide, destinata a regnare per tre secoli. L'Iran sarà poi dominato per quattro secoli dai Sassanidi, minacciati, anche se non gravemente, dai primi nomadi, gli Unni bianchi (o Eftaliti), che nel 477 conquistarono il Kandahar, regione dell'Afghanistan. Nel VII secolo, con l'avvento dell'islam, il regno dei Sassanidi cadde in mano agli Arabi, mangiatori di lucertole. Nel 643 acquisì grande fama un conquistatore chiamato Samar, colui dal quale prese forse il nome la città di Samarcanda. Dall'873 al 1004 la dinastia iranica dei Samanidi si stabilì a Bukhara, difendendo l'Iran contro le tribù nomadi del Turan e le orde turco-mongole. Nel 980 nacque a Bukhara Ibn Sina, meglio conosciuto come Avicenna, il principe dei medici, celebre in tutte le università arabe. Nell'XI secolo invasero il paese i turchi selgiuchidi, provenienti dalla steppa kirghiza; essi formarono piccoli stati convertendosi alla sedentarietà, divennero musulmani sunniti, persino difensori del califfato abbaside di Baghdad. Ma si stava avvicinando, terribile, il XIII secolo. Il figlio di Yesügei Ba'atur, l'imperatore inflessibile, conquistò la Cina con i suoi quattro eredi - che momenti avranno vissuto insieme quei cinque guerrieri! — preparandosi a ricreare un impero T'u-Küeh che ricalcasse quello del VI secolo. Gengis Khan considerava lo scià di Khiva e di Bukhara, il selgiuchide Mohammed, un semplice capo turco islamizzato, ma quest'ultimo rifiutò sconsideratamente di sottomettersi e di proteggere le vie carovaniere, sicché, nel 1220, Samarcanda e Bukhara furono devastate. S'instaurò quindi il regime del terrore mongolo, lo jasaq, l'interdizione. I generali del khan,
raggiunto Mohammed in fin di vita sulle rive del Caspio, riuscirono infine a impadronirsi di tutto il territorio turco fino al Mar Nero. Nel XIV secolo Timur ricompose l'unità del Turkestan. Alla lingua persiana sostituì il turco ciagataico, dal nome del secondo figlio di Gengis Khan. Compì massacri, costruì piramidi con i crani delle sue vittime, risparmiando soltanto i poeti e i dervisci, che accolse alla sua corte. Si dice che i suoi capelli fossero bianchi fin dall'infanzia e che non avesse mai pianto. Zoppicava, eppure era tanto forte da poter sopraffare l'eroe Rustam. Sopra ogni cosa amava la verità e uccideva chiunque gli mentisse. Nel XVI secolo i Timuridi tagiki furono estromessi dagli uzbeki che, seminando il terrore, governarono il khanato di Khiva. Erano i discendenti del figlio maggiore di Gengis Khan, Jöci, che aveva regnato sul Kipčak, e di Uzbek Khan, l'ottavo e famoso khan dell'Orda d'Oro. Nel 1717 fu massacrata la spedizione inviata da Pietro il Grande alla ricerca della via delle Indie. Gli emiri di Bukhara, a partire dal 1784 e fino alla loro scomparsa, appartenevano alla dinastia dei Manqiti, originari delle montagne del Tagikistan. I russi, al comando del generale Perovsk, nel 1839 cominciarono a infiltrarsi nel Turkestan. Taškent venne conquistata nel 1865. Il generale Černjaev, alla testa di soli 3600 uomini, sconfisse, nel 1866, 40 000 buharioti; Samarcanda fu presa e l'emiro comperò la pace al prezzo di 1 875 000 franchi. Nel 1920 si costituì la Repubblica di Faisula Khodjajev che, diventato bolscevico, fondò con l'aiuto dei rossi la Repubblica socialista sovietica dell'Uzbekistan. Ancora un'unione tra l'Asia e l'Occidente: l'Occidente russo, questa volta, e non più macedone. Quali ne saranno gli sviluppi?
Di casa in casa Ora ho alcuni amici che ritrovo ogni giorno, dopo il loro lavoro, alla grande čajkana di fronte al Registan. Là chiacchieriamo sgranocchiando pistacchi e mandorle tostate di urjuk, piccole albicocche. Marussja è senza dubbio bellissima. Voleva diventare attrice del cinema quando danzava a Leningrado, ma il suo viso delicato dagli occhi color pervinca scuro era troppo minuto per lo schermo, o almeno così immagino. Alta, slanciata, ha le larghe spalle un po' curve, come scoraggiate. Vive solo per il suo camion. Con le mani sottili e affusolate regge il volante otto, dieci, ore al giorno, senza problemi, mentre i suoi compagni maschi spesso sono vinti dalla fatica. Eppure, guidare un camion nel Turkestan non è certo uno sport per signorine! Talvolta l'accompagno; consegnamo nei kišlak della zona i sacchi di grano prelevati dai mulini. Qui le cosiddette “strade” sono piste con solchi così profondi da costringere Marussja a volteggi di alta acrobazia sui bordi delle scarpate, ma ciò non turba il suo sorriso incantato... A ogni istante temo che ci ribalteremo. Gli aryk di irrigazione si diramano in mille rigagnoli che trasformano il suolo di löss in uno stagno di melma vischiosa. Negli stretti vicoli della città vecchia il maggior divertimento consiste nel prendere le curve in velocità, senza però urtare contro gli spigoli delle case. Per lasciarci passare i pedoni si infilano nei vani delle porte. Il gioco può anche essere pericoloso poiché il parandja attutisce i rumori impedendo talora alle donne di sentire il nostro arrivo. In caso di guasto Marussja dovrebbe riparare da sola il motore: in realtà se ne occupano gli uomini della sua squadra, i quali - mi pare di capire - sarebbero pronti a buttarsi nel fuoco per lei. Una donna attraversa la strada e il nostro persiano, calvo sotto il suo berretto ma con splendidi baffi neri, l'apostrofa urlandole:
«Oca!». Poi rivolto a me: «Ella, ho qualcosa per te», dice sporgendomi delle noci con un biscotto. Per i propri compagni Marussja tiene sempre qualche caramella in tasca. Il suo salario è di centocinquanta rubli e sta preparando un esame per diventare meccanico, lavoro che le consentirà di guadagnare di più. Alla mensa del mulino - zuppa di cavoli, patate alla paprica - la mia amica mi presenta a un autista iraniano, Ruben. È un giovane di bassa statura, con splendidi occhi dorati, ombreggiati da ciglia nere e lunghe che si incurvano fino a sfiorare le sopracciglia. Vuole assolutamente farci conoscere sua moglie e suo figlio. Ed eccoci tutti e tre in cammino, a braccetto, sul largo marciapiede del corso in discesa. «Vedi», mi confida Marussja, «quando sono con i miei compagni mi sento allegra, spensierata. È facile capirci, sono persone vive con cui è bello stare insieme. Se qualcosa va male, evitano parole inutili, ma si sostengono reciprocamente. Ieri, per esempio, Vanja ha offerto un cartoccio di patate al persiano dicendogli: “È da tempo che i tuoi marmocchi non giocano più alle biglie con questo genere di palline!”. E Jan un momento fa scherzava: “Con la carne a dieci rubli la libbra, sarà meglio deciderci a trasformare i nostri deretani in bistecche!”. Sono concreti, franchi, ben diversi dalle donne con le loro continue lamentele». Passando davanti a un chiosco che vende birra mi permetto di esprimere alcune perplessità quando me ne decantano l'incomparabile qualità. «Cinque bicchieri!», ordina il persiano. Il liquido è dissetante, ma acquoso; costa un rublo al boccale, che è enorme. Ruben si ostina a voler offrire un altro giro: siamo costretti a sederci sul marciapiede per riprendere le forze. A casa dell'armeno i miei ospiti, avendo saputo che forse mi recherò a Merv, scrivono una lettera per il padre e il nonno che vivono là e presso i quali dovrò assolutamente recarmi per portare notizie di tutti loro. La stanza è povera, minuscola, arredata all'europea, con tendine bianche.
L'ebrea di Khudjum Ogni giorno Marussja fa consegne alla fabbrica Khudjum; decido così di accompagnarla per vedere come si produce la seta. Appena viene aperto il portone, il caldo che si sprigiona da una stufa ci serra la gola. Davanti ai loro banchi, donne dalle mani rese molli e bianche dall'acqua bollente fanno cuocere in un mastello i bozzoli giallastri, sorta di fave galleggianti, che bisogna prendere dall'estremità giusta per poterli dipanare. Vengono poi tirati su con una schiumaiola, e altre operaie ne estraggono a sette per volta i filamenti che formeranno il filo, da arrotolare in una matassa rigida e brillante. Alcune donne hanno il capo coperto da un velo trasparente, altre da un foulard intrecciato a mo' di turbante oppure dal berretto tradizionale. Piccole trecce nere serpeggiano lungo tutte quelle schiene, confondendosi con i lacci dei grandi grembiuli. Le macchine hanno un marchio di origine italiana. La fabbrica, costruita nel 1927, impiegava a quel tempo centoquarantaquattro operaie, ora vi lavorano ottocentocinquanta donne emancipate. Al primo piano sembra di passare in un viale i cui filari sono splendenti matasse di seta greggia, bianche e giallo oro, che vengono esaminate meticolosamente. Le operaie sono pagate a cottimo; le matasse consegnate da ognuna di loro sono sottoposte alle operazioni di torcitura: si eseguono quattrocento torsioni del filo, che viene poi campionato. Il risultato è segnato su un registro: 11 significa troppo spesso, da 13 a 15 va bene. Nella sala di filatura cerchiamo un'operaia che sia giovane e simpatica e, soprattutto, disposta a invitarci a casa sua, permettendoci di vedere come vive. Purtroppo sono quasi tutte vecchie e brutte. Finalmente ne intravedo una giovane e chiedo alla sorvegliante di condurmi da lei. E alta, indossa una camicetta scura di velluto, ha un'abbondante capigliatura dall'attaccatura bassa, la fronte larga, occhi oblunghi sormontati da sopracciglia ancora più lunghe, il naso diritto. La ragazza mi sorride, destreggiandosi tra fili invisibili. «È un'ebrea, un'eccellente lavorante che fa parte di una squadra straordinaria. Pensate che quest'anno abbiamo adempiuto il
112 per cento del Piano per la nostra fabbrica...». Osservo che l'ebrea è la sola a trattenere tra le labbra le estremità dei fili di seta, sicché, avendo le mani libere, lavora più in fretta. Aspettiamo la giovane donna all'uscita; mentre camminiamo al suo fianco ne percepiamo l'inquietudine. Poiché non conosce il russo ma soltanto il tagiko, cioè il parsik, l'antico persiano, per discorrere dobbiamo aspettare di essere a casa sua dove una vicina farà da interprete. Intorno a un grande cortile rallegrato da qualche macchia di verde si affacciano delle case nuove, sempre costruite con fango essicato, a un solo piano, da dove pendono coperte o bucati stesi ad asciugare. La ragazza ebrea ha una stanza qui: sopra il pavimento un kilim; su un semplice cassone le coperte sono nascoste da un suzaneh, un ampio drappo ricamato a grandi motivi rossi e tondeggianti. Nel corridoio un fornello, ed è tutto. A disagio, la nostra ospite continua a non rispondere alle mie domande e infine mi chiede spaventata: «Ho lavorato male? Devono essere scontenti di me se hanno mandato qualcuno a investigare a casa mia». Non riesco a distoglierla da tali cupi pensieri né a cancellare la ruga che ora le segna la fronte. L'armena che fuma il čilim «Che tristezza! Il cielo mi preservi dal dover mai lavorare in una fabbrica!», esclama Marussja quando usciamo dal maglificio. La prego tuttavia di accompagnarmi ancora all'artel delle ricamatrici e di non sorridere quando, per la centesima volta, domanderò: «Senza velo, sposata, analfabeta?». La mia amica è libera dato che il camion è in panne e ora è in riparazione, come peraltro ho visto, in un'autofficina. Non si tratterà per caso di un guasto simulato? E Marussja non sarà un'agente
della Ghepeu, incaricata di sorvegliarmi? Non lo so: farò e dirò comunque ciò che voglio. La direttrice è energica, magra. Indossa un impermeabile grigio, stretto in vita da una cintura e una sciarpa di mussola le ripara il collo: ha mal di gola. Sul capo ha un fazzoletto bianco, annodato sulla fronte. È una persona precisa, intelligente. «All'inizio, nel 1929, eravamo in sette. Andavamo di casa in casa a parlare con le donne, tutte abili ricamatrici. Ora, che abbiamo sufficiente materia prima, vi sono duecentocinquanta donne che lavorano in città e centocinquanta nei kišlak. La paga di una brava operaia è di centoventi rubli, di dodici quella di chi viene soltanto per avere la tessera del pane. Una camicia si confeziona in quattro giorni. L'orario giornaliero delle donne che lavorano qui è di sette ore; per le altre, quelle che ricamano a casa, non è possibile un controllo». Le domando se è uzbeca; vengo così a sapere che suo padre era persiano. Naturalmente mi informo se portava il velo, ma questa volta Marussja non sorride. «Sì, fino al '27, contro la volontà di mio marito, che era insegnante. Quando però ho capito che la mia ostinazione avrebbe causato una rottura definitiva, ho obbedito». «Continuano dunque a riproporsi drammi di famiglia per questo motivo?». «Certamente, occorre essere prudenti. La liberazione della donna crea scontento nella coppia. Le donne anziane e che guadagnano non sono toccate dal problema, ma per le giovani il discorso è diverso: gli uomini si oppongono a che esse escano senza velo. Abbiamo istituito un piccolo tribunale per dirimere queste liti in famiglia. Bisogna far ragionare il marito, convincerlo a non vedere il male ovunque. Soltanto l'istruzione riuscirà ad aprire gli occhi agli uomini». Dopo aver ammirato tovaglie, maglie, camicie, canovacci ricamati secondo i motivi tradizionali del suzaneh, ci rechiamo a visitare il negozio delle tjubeteika: sembra quasi di trovarsi da un venditore di meloni: innumerevoli berretti a calotta, incastrati l'uno dentro l'altro, sono allineati sugli scaffali. Il broccato, tagliato in pezze, è ammonticchiato, pronto per essere cucito.
«Ho ordinato da Mosca», ci racconta l'armena, «due vagoni di casule e di cotte da pope, che dovevo pagare all'arrivo; ma sono sorte delle difficoltà poiché con il vecchio sistema di consegna al consorzio, il pagamento avviene a lunghe scadenze. Ora infatti ho problemi di denaro e molte operaie non ricevono il loro salario ormai da due mesi, eccetto le russe che, non possedendo né una mucca né un orto, non possono aspettare». La direttrice si interrompe per fumare il suo čilim gorgogliante, la pipa ad acqua con il cannello formato da un semplice tubo di latta che viene passata di mano in mano. Ridiamo nel vedere che sul fondo dei berretti appaiono, fissati da un ricamo, cartoncini dipinti che riproducono testine di biondi angioletti. La donna ci spiega che un tempo i russi si segnavano davanti a quelle immagini, ma che ora quel che più conta tra le montagne del Pamir è il copricapo in sé. Le ricamatrici chiacchierano mentre lavorano, sembra che si trovino qui per il loro piacere. Che atmosfera diversa da quella delle due fabbriche precedenti! «Le vecchie parlano meno e bevono anche meno tè, ma ricamano assai meglio», dice sorridendo l'armena prima che ci congediamo. Questo non mi basta Mentre mangiamo il plov nella veranda di una taverna locale, confido a Marussja di non essere soddisfatta. «Voglio entrare in contatto più diretto con le indigene, vivano esse in campagna o in città. Mi piacerebbe trovare un villaggio dove abitare e lavorare i campi assieme alle donne». «Sergej ci aiuterà. E un po' noioso, ma pazienza. È un pittore ed è vissuto per parecchi mesi in campagna; ora si occupa della riorganizzazione del museo di Ulug-Beg. Nel cortile della madrasa il famoso artista Benkov lavora a una tela di grande effetto, intitolata La giornata dell'8 marzo in piazza Registan. A quella data cade la
festa dell'emancipazione femminile e in quell'occasione vengono bruciati grandi mucchi di čador». Sergej ci accompagna sulla sommità del minareto da dove si gode una vista stupenda; Samarcanda, “la più bella città del mondo”, è ai nostri piedi. A est si allineano, bianche di neve, le vette delle catene montuose. Sotto di noi il selciato del Registan è in gran parte divelto poiché ne stanno abbassando il livello all'altezza originale; la folla aspetta in coda l'autobus per la città russa e per la stazione; nei caravanserragli ragliano gli asinelli, le cui sagome sono connaturate al paesaggio del Turkestan come quella luce cristallina che non ha eguali in nessun altro luogo della terra. Laggiù, sulla nuda collina di Afrasiab, dietro la grande moschea di Khazrat Khajzar dalle belle colonne in legno, ve ne è un'altra, di dimensioni minori, con un semplice peristilio che mi ricorda il sobrio tempio della Vittoria aptera sull'Acropoli. Sergej è tanto turbato dalla presenza di Marussja da balbettare. Deve essere meraviglioso riuscire a provare una così intensa emozione! Mi defilo e vado a far visita alla direttrice dell'ufficio femminile. «Sì, la legge sovietica vieta di sposarsi prima dei sedici anni, esige un certificato medico e non ammette che l'uomo contragga un secondo matrimonio. Occorre tener ben presente che un tempo la nascita di una bambina era meno apprezzata di quella di un cane, mentre si faceva gran festa se veniva al mondo un figlio. E soltanto i maschi erano battezzati. «In città le ragazze si limitavano a cucire o a guardare la madre lavorare e dovevano mettere il čador uno o due anni prima del matrimonio. Non si insegnava loro a scrivere nel timore che avessero contatti epistolari con uomini. Secondo la sharia, il commento delle leggi, se una moglie non ubbidisce, il marito ha il diritto di picchiarla. In campagna esse lavorano i campi senza coprirsi il volto con il velo, la loro vita è più libera. Il kalim con cui si comprava una moglie non doveva essere inferiore ai dieci dergamof, cioè a cinque rubli-oro, che però erano interamente spesi per la festa di nozze.
«Una vedova poteva risposarsi secondo i propri desideri; invece presso i kirghizi ella era costretta a prendere come marito il cognato affinché i suoi beni rimanessero in famiglia. «Le donne non si recavano alla moschea, ma pregavano sulle tombe e versavano denaro allo sceicco, il mullah superiore; ignoravano qualsiasi cura medica e consultavano soltanto la falbin, la donna sciamano che compiva esorcismi. È perciò facile immaginare quanto diffuse fossero le malattie veneree: il lavoro da compiere in ogni campo è dunque enorme. Un tempo all'ospedale di Samarcanda vi era un'unica ostetrica. Oggi i nostri ospedali contano diecimila letti, nel 1916 ne avevamo novecento». La campagna di Samarcanda è un vero labirinto. Sergej ci conduce di campo in campo, di sentiero in sentiero. Domandiamo a un passante fin dove arrivano le rovine, a destra della strada. «Fin dove arriva il grido...», risponde. Bussiamo alla porta di legno di un čorni rabotnik, un lavorante giornaliero, e sentiamo voci di donne che domandano chi siamo. «Sono io, Sergej, l'amico di Mustafà. È in casa?». Tutto tace. Stanchi di aspettare decidiamo di andar via, ma in quel momento la porta si apre su un cortiletto con al fondo una veranda, divisa in due e riparata da tendoni di cotone. Entriamo nella parte riservata agli uomini, dove Mustafà è coricato sul letto. «Ho la febbre da due mesi, ma adesso va meglio. Sergej, solo ora vieni a trovarmi, malgrado le tue promesse! Le donne non si fidavano ad aprire non avendo capito chi fossero i visitatori». «È con me una straniera che desidera rendersi conto di persona di come vivono le donne e di quel che succede qui». Una ragazzina porta il tè — due tazze per tutti e quattro — e un po' di kišmiš, quella squisita uva passa, rosata e senza semi. Mustafà trema, ma si siede ugualmente per fare gli onori di casa. «Capisco, certo; la tua amica non ha che da raggiungere le donne qui accanto». Nello spazio vicino alcuni bimbi giocano sulle coperte, una donna fila in posizione accovacciata, nelle nicchie delle pareti sono
disposte le teiere; e poi, ancora, una culla, un baule. Non vi è null'altro. Il forno è nel cortile. Mi informo circa la malattia di Mustafà, rammaricandomi del suo stato. Per capire dove ha dolore mi tocco la testa, il ventre, la schiena, domandando se il tabib, il dottore, l'ha visitato. «Sì, sì». «E che cosa ha detto?». «Tif». È tifo! Bella notizia. E noi che abbiamo bevuto nella stessa tazza! Rifiuto gentilmente l'invito di Mustafà a trascorrere la notte nella sua dimora: ho già visto tutto ciò che mi interessava.
Jan racconta Marussja è occupata in una discussione sui magneti con Jan, ispettore di motori d'autobus, che l'aiuta a prepararsi all'esame. Mi ha confidato che con lui è possibile essere buoni compagni: si è appena sposato, quindi non vi è pericolo di complicazioni sentimentali fra loro. «Jan, dovresti presentare Ella ai tuoi amici uzbeki che forse potrebbero aiutarla a introdursi là dove vivono le donne. Questa sera, però, raccontaci una storia di basmaci, che ci faccia dimenticare la nostra paura del tifo». Jan era un bambino solitario e ha imparato l'uzbeko prima del russo. Il suo sguardo che cambia e si fissa nel vuoto lo fa rassomigliare a uno scandinavo. «Volete che vi narri di un cavallo?». Procederà nel suo racconto con frasi brevi, secche, neutre, inframmezzate di pause, dandomi l'impressione di un topo che rosicchia a piccoli morsi il suo bottino. «Allora, siamo in una casa contadina, circondata da una tenuta. Ci vivono due giovani, un maschio e una femmina, con la madre e il patrigno. La madre è una donna senza carattere e, contrariamente all'uso, non può lavorare; ha paura del marito egoista. La ragazza, Anna Gul, ha mani candide e non ama la fatica. Litiga spesso con il padre che pretende di sapere tutto; ha occhi grigi, grandi e pensierosi, e sopracciglia all'insù. «Nessuno si occupa del figlio, Gul Murad, che è di carattere schivo; se qualcuno lo bistratta non reagisce, ma non dimentica. A lui toccano i lavori più duri e deve anche custodire il gregge. Conosce la montagna, sa individuare le orme ed è abile a catturare gli uccelli. Cavalca bene e può fare quello che vuole; la madre ama soltanto la figlia. «Con il denaro degli uccelli catturati il ragazzo compra un agnellino e lo ingrassa, tenendolo però nascosto presso un vicino
nel timore che i genitori glielo prendano. Acquista infine un puledro. Murad è giovane e si appassiona al suo bel cavallo di sangue arabo, Hindukush. Da principio nessuno nota l'animale, ma appena il patrigno se ne accorge proibisce al ragazzo di dargli da mangiare l'orzo. Allora quest'ultimo lo nutre con il proprio pane. «Nel cortile di fronte alle stanze riservate alle donne sono situati il granaio di un kulak usuraio e il recinto coperto per proteggere il bestiame in inverno. Passando dinanzi alla porta d'ingresso è facile capire che si tratta di una casa abbastanza agiata. Vi è una camera per gli ospiti con tappeti, suzaneh, cuscini e sanduk, ovvero bauli. Lo straniero che giunge da lontano può fermarsi con il suo cavallo. Il figlio si occupa di servire i pasti; i poveri lavoranti non osano avventurarsi sui tappeti e, seduti vicino alla porta, mangiano i resti. «Nel cortile delle donne il sole splende sul karagač, l'olmo dell'Asia, e tutt'intorno alla vasca dell'acqua ci sono fiori, frutti, uve; si suona, si beve il tè, si sussurrano sciocchezze. Quando arriva il patrigno cade il silenzio, si possono sentire le mosche volare. Egli guarda con cattiveria la figlia, che subito si allontana. La moglie gli leva il khalat, le scarpe, lava le sue mani, gli offre del cibo e poi la sua pipa ad acqua. «Di fronte vive quella volpe di usuraio con il figlio Kakim, che è invidioso di Gul Murad. «Giunge il giorno del kurban, la festa durante la quale i cavalieri si disputano un trofeo rappresentato da una capra. I due ragazzi sono nella mischia, Kakim riesce a impossessarsi della capra ma il suo cavallo è mingherlino e Gul Murad gli strappa la preda e vince. L'altro non sa darsi pace e ottiene dal padre la promessa di comperargli Hindukush. «Nell'aia Gul Murad si diverte con il suo cavallo che corre libero; il ragazzo lo chiama: “Hindu, Hindu!”. Ha dimenticato di chiudere il portone del cortile: il padre arriva in groppa a una giumenta e Hindu vorrebbe giocare con lei. «Nel trambusto l'uomo cade, il suo bianco turbante rotola a terra e si sporca; quando si rialza è sporca anche la manica del suo abito. Egli prende il frustino e colpisce il giovane. Gul Murad riesce a riacciuffare il suo cavallo. A quel punto il padre afferra lo scudiscio e frusta il ragazzo che sta legando Hindu e la cavalla, chiude la porta e
raccoglie il turbante: ormai ha perso la testa e si accanisce contro il figlio. Le donne gridano, la madre piange. «Gul Murad stringe i denti per il dolore. Il subdolo usuraio, che ha visto tutto, va dal padre e gli dice: “Tuo figlio custodisce male il gregge; dà tutto l'orzo al suo cavallo. Vendimi quella bestia, te la pagherò bene”. «Il padre ordina che gli sia portato il cavallo. I lavoranti sono affezionati a Gul Murad che, scambiato un segno d'intesa con il palafreniere, agguanta il frustino gridando: “Il cavallo è mio, per prendermelo dovrete passare sul mio corpo!”. E cogliendo tutti di sorpresa, salta in sella, frusta sia il padre sia l'usuraio e poi fugge in montagna. «Diventato abrek, vagabondo, si unisce a un gruppo di ribelli. Diventa famoso. Organizza una spedizione contro il proprio villaggio, tramortisce a forza di botte Kakim dicendogli: “Non avrai neppure gli zoccoli del cavallo”. «Talvolta soccorre i poveri. La madre è molto infelice e prega il marito di far ritornare Gul Murad, ma le sue suppliche sono inutili. L'uomo organizza sempre cacce al fagiano, a cui partecipa il suo amico Bala Beg che spera di incontrare la graziosa Anna Gul che vorrebbe sposare. Ma ella lo detesta e supplica la madre di impedire quel matrimonio. «Siamo agli inizi della rivoluzione, durante le guerre civili. Nel villaggio tutti temono una banda di basmaci vicini, ai quali Gul Murad e i suoi compagni hanno rubato il bestiame. Per vendicarsi i basmaci devastano il villaggio e catturano il miglior amico di Gul Murad. Quest'ultimo riesce a liberarlo, ma riceve da uno sconosciuto una coltellata alla caviglia. Indebolito per la ferita e reggendosi a fatica sul cavallo, riesce nondimeno a ricondurre le bestie al villaggio con grande gioia dei proprietari. La madre scongiura il figlio di rimanere, ma il giovane acconsente solo quando il padre si scusa, ammettendo i propri torti. «Finalmente Gul Murad può riposarsi; i suoi compagni invece ripartono. «Kakim, che ha visto tutto, incita i rappresentanti del potere a perquisire la casa e il giovane è di nuovo costretto a scappare, senza armi né cavallo. Prostrato dalla fatica, si nasconde in una tana
di sciacallo mentre Kakim si impossessa del cavallo gridando alla folla: “Ho Hindukush, il mio scopo è raggiunto”. Ma l'animale, spaventato da un cane, lo disarciona e scappa. «È notte. Lo sciacallo è inquieto, vuole uscire dalla tana, attratto dall'odore di sangue fresco. Gul Murad vede i suoi occhi verdi brillare minacciosi: nonostante la ferita riesce ancora a lottare e quasi lo uccide con un coltello. Poi, stremato, esce dalla tana con la bestia e si trascina sulle alture della montagna dove il suo cavallo sta brucando tranquillo con la sua sella più bella sul dorso. Il giovane lo chiama e deve farlo inginocchiare per poterlo montare. Ritornando al villaggio, lungo il cammino passa davanti alla casa di una donna sciamano che venendogli incontro di corsa spaventa il cavallo. Lo sciacallo cade lanciando un grido lungo e lamentoso. Gul Murad cerca di riprenderlo malgrado i consigli della donna che gli dice di lasciarlo perdere perché è una bestia malvagia. Il giovane non ascolta i suoi consigli, finisce lo sciacallo e lo squarta. La mezzanotte è passata, la luna rischiara la neve, uno sciacallo ulula lontano. Si ode un latrato e una vacca muggire. Gul Murad lega il suo amato Hindu, lo dissella, lo copre per proteggerlo dal grande freddo. È a casa sua. I due fratelli dormono al pianterreno, i genitori al piano superiore. Si sente un tramestio dinanzi al portone. Kakim conosce la disposizione della casa, scavalca la siepe e fa strada ai basmaci guidati da Bala Beg. Sparano sulla porta. In un attimo i servi sono legati. Kakim promette a Bala Beg di consegnargli la fanciulla, per sé terrà Hindukush. I due giovani si rifugiano nella camera dei genitori dove vi è un passaggio celato da un baule. «La madre esorta Anna Gul a buttarsi da quel buco: “Avvenga quel che deve essere!”, e la fanciulla cade sulla neve in camicia da notte. Gul Murad spinge la madre a seguire la sorella e la regge per le mani più a lungo che può. È poi il turno del padre, a cui dice: “Tu andrai dal mio amico”. Kakim è passato dalla finestra e ha appiccato il fuoco ai parati per vederci meglio, ma gli altri non osano andare avanti nel timore che Gul Murad sia armato. Egli si è nascosto aspettando che tutti siano andati via. Al mattino ritorna: la casa è devastata, distrutta, il foraggio bruciato, i servi legati mani e piedi. Ecco però che una alla volta riappaiono le bestie: un bue, un asino, una mucca e il suo vitellino. Erano troppo ben nutriti per allontanarsi.
Ma Hindu... A terra giace una pastoia, l'hanno fatta saltare. Sui campi, dove il cavallo ha cercato di liberarsi, spiccano macchie di sangue. Uno zoccolio: è Hindukush che ritorna, cade e muore! «Gul Murad piange disperato, non vuole che il suo cavallo sia squartato, deve essere seppellito. Vende tutto quanto è rimasto e porta ai suoi i vestiti e i gioielli che è riuscito a salvare. La sorella ama un giovane e parte con lui. Gul Murad, dopo aver lasciato la madre in un luogo sicuro, raggiunge il suo gruppo di banditi. «Il potere è ora in mano ai soviet, i banditi diventano partigiani e collaborano a liquidare i bianchi. Bala Beg è catturato e consegnato alle autorità, ma esse non permettono a Gul Murad di tagliargli naso e orecchie. Bala Beg implora la grazia e, privato dell'oppio, impazzisce. A seguito di uno scontro ad arma da fuoco viene catturato anche Kakim, che chiede pietà, ma Gul Murad non lo lascia scappare e ordina che gli vengano mozzati i piedi. “Ora, monta pure Hindukush”, lo schernisce. Poco dopo Kakim muore di emorragia. La storia finisce così». «Ma noi vogliamo sapere che cosa è capitato in seguito a Gul Murad». «Non essendo istruito diventa komsomol, lavora giorno e notte e può così aiutare gli altri nel loro apprendistato...». Lungo silenzio. Jan ritorna alla realtà e guarda Marussja. «Vi è piaciuta la mia storia?». «Non male, forse troppo lunga». Ferito da questa risposta, giura che non ne racconterà più e si allontana. «Gli è saltata la mosca al naso, come sono suscettibili gli uomini!», commenta Marussja. «Credo che fosse turbato: per vie traverse ci ha narrato la storia della sua vita». Ma la mia amica non pensa già più a Jan, tutta presa da una nuova idea. «Ho trovato! Riza, il venditore di burro, ci aiuterà; lui conosce tutta Samarcanda».
Riza Che personaggio sorprendente! Sa tutto di tutti, riesce ad abbindolare chiunque, chiacchiera di continuo, e, anche se è ormai brizzolato, non si lascia estorcere un solo copeco da chicchessia. Più volte ci ha dato appuntamento per condurci dalle figlie, ma all'ultimo momento ha sempre trovato una scusa per rimandare. Andiamo da lui. «Allora Riza, ci prendi in giro? Abbiamo bevuto quattro intere teiere aspettandoti». «Un attimo ancora, il burro è quasi pronto». Con le maniche rimboccate gira con la mano chiusa a pugno la spessa panna contenuta in un mastello che scalda di tanto in tanto sul fornello. Prepara poi un po' di blini, deliziose frittelle a base di latticello che mangiamo su un angolo del tavolo. Vi è un'unica stanza, buia ma pulita. Pretende quattro rubli per ogni libbra di quel burro acquoso. «Devi essere ben ricco con tutto questo burro. Che te ne fai del tuo denaro?». «Se si usa la testa, in poco tempo si può diventare milionari. Prima della rivoluzione ero uno degli uomini più ricchi della città. Mi capitava di comprare mille pecore senza avere di che pagarle e di rivenderle nel medesimo giorno con un buon profitto. Quando lavoravo alla cooperativa i contadini serbavano per me tutto il kišmiš perché sapevo parlare con loro, mi fidavo del peso dei loro sacchi. Quando arrivavano gli altri acquirenti, assai più diffidenti di me, non trovavano più nulla». «Riza, si fa sera, è troppo tardi per andare a trovare le tue figlie. Se non sbaglio, eri intenzionato a condurci in un kišlak». Mentre parliamo Riza si rasa, distendendo con le dita la pelle rugosa. Entra una giovane donna, potrebbe essere una russa; si muove come fosse a casa propria. Quel brigante ha forse ripreso moglie? Piccola, i capelli raccolti in uno chignon piatto, la nuova arrivata — che è una georgiana — lavora come apprendista fotografa. Con voce nasale esclama: «Mi devo sbrigare se voglio arrivare in tempo per lo spettacolo delle sette. Riza, dammi due rubli, proiettano un film intitolato Snaiper».
L'ho visto, è una storia di spionaggio ambientata durante la guerra mondiale. «Non se ne parla neppure, cara ragazza, oggi come ieri». La piccola se ne va e noi canzoniamo Riza, felicitandoci con lui della sua buona sorte. «Sono loro che mi corrono appresso. Di quella donna, per esempio, è da due anni che cerco di sbarazzarmi: la mando a quel paese, non le do un soldo, eppure è sempre qui. Non mi interessa per nulla. Al contrario voi, Ella, siete proprio la persona che fa per me. Avete riflettuto sulla mia proposta?». Scoppiamo a ridere. Già l'altro ieri Riza aveva dichiarato di volermi sposare, e io ero convinta che scherzasse. «Ma perché no? Ella, pensateci bene: potrete studiare il paese a vostro piacimento, non avrete nulla da fare e sarete anche nutrita. Se desidererete visitare Bukhara, città che conosco assai bene, vi farò da guida». Gli prometto che ci rifletterò, fermamente decisa a non scoraggiarlo prima di aver ottenuto da lui ciò che desidero. «Riza, devi accompagnarci al caffè armeno, vorrei che Ella ascoltasse la musica indigena». A dire il vero, ci siamo già andate da sole, ma siamo determinate a far sì che Riza metta mano al portafoglio. «Forse sarai così galante da regalare a Ella questo pezzo di burro». «Questo poi no! Mezza libbra vale sette rubli!». Nella grande taverna gremita di clienti vi saranno al massimo cinque o sei donne, nessuna uzbeka. Seduti a tavoli coperti da incerate si beve birra o vodka; davanti alla porta arrostiscono pezzi di pecora infilzati in spiedini di ferro. Frastuono, fumo; orchestra con strumenti a corda dai suoni flebili, stridenti, monotoni, le cui continue variazioni di ritmo sono il solo segno dell'evolversi di un'emozione; al confronto le nostre ricche frasi melodiche sembrano orgiastiche. Canti persiani, danze uzbeke. Quattro avventori hanno una rosa all'altezza della tempia, infilata tra il berretto e il cranio rasato. Due “compagni camerieri” trasportano, reggendolo sotto le braccia, un uomo barcollante per
depositarlo sul marciapiede. Un altro ubriaco è scivolato a terra, imbrattandosi con il proprio vomito. Ma neppure tali spettacoli riescono a distogliermi dal piacere di ascoltare il baradan, grande tamburo le cui cupe e ricche sonorità formano la trama musicale. Il baradan è percosso da un uomo imponente e barbuto che accompagna i suoi movimenti con una mimica assai espressiva. Prima di suonare si rimbocca la manica liberando il polso nervoso: ha le mani lunghe e scure. Quindi inumidisce il pollice che appoggerà contro la cassa del tamburo. Ora le dita percuotono rapide e precise la pelle tesa seguendo una loro cadenza, demoltiplicata dal braccio e ancor più semplificata dal busto: movimenti che si articolano in triplice armonia. Al momento di un crescendo il ginocchio imprime un quarto martellamento; con un gesto ampio l'uomo fa oscillare lo strumento dagli anelli di ferro, come per cullarlo appassionatamente. A Mosca avevo assistito a uno spettacolo dove danzava Tamara Khanum: quando la musica si alzava a tale sonorità ella si immobilizzava, irrigidendo le spalle, e con il capo eretto, ornato di mille trecce, segnava il tempo con movimenti precisi del mento. Riza mi parla di un villaggio in prossimità di Khiva dove vivono soltanto donne, poiché gli uomini sono stati tutti giustiziati. Mi ci condurrà, a patto però che acconsenta alla sua proposta di matrimonio. Per il momento, è molto irritato perché abbiamo ordinato costosi šašlik accompagnati da vodka. Recandoci da Tula, la figlia minore di Riza, incrociamo un nugolo di uzbeki che fanno a gara per portare a turno sulle spalle una barella. Il sellaio abbandona il suo lavoro per conquistare anche lui i suoi dieci metri, e poi ritorna soddisfatto. Sulla barella è steso un lungo rettangolo di panno blu scuro. È un feretro: compie una buona azione ogni musulmano che aiuta a trasportare il morto verso la sua ultima dimora. Tula non ha l'aria molto amabile: testa grande, ereditata dal padre, fronte decisa sotto i capelli in disordine trattenuti da una fascia nera, naso robusto e ben marcato; il cappotto nero, infilato
sopra una camicia bianca, larga e sgualcita, nasconde stivali consunti. Nel cortile, sotto una tettoia, il forno ovale di terra fuma leggermente; nella sua gola annerita stanno dorandosi le lipioška. Secondo un detto uzbeko «benedetti i visitatori che arrivano al momento della cottura». Mentre stende un košmu per noi nel cortile, Tula risponde appena al padre; poi ci offre delle mele. No, non ha smesso di portare il čador. No, non le interessa saper leggere, neppure il cinema la tenta. Non desidera parlare di suo marito, ignora che cosa egli faccia. Infine si rasserena guardandomi giocare con il figlio nella stanza buia dove sono entrata, coperta di tappeti. Il piccolo, tutto fasciato, sorride nella sua culla di legno scolpito. Sulla grande sbarra che la sovrasta sono disposte a tendina due pesanti coperte. Il bimbo si diverte con una collana di palline multicolori sospesa all'altezza del suo naso. Tula lo allatta senza alzarlo, accovacciata lì accanto e con il braccio appoggiato sulla traversa. Poi riassetta la culla: al centro del materasso e sul fondo di legno è stato praticato un foro sotto il quale si trova un vaso in terraglia con della cenere. Finalmente capisco l'utilizzo di quei piccoli oggetti di legno che ho visto fabbricare a centinaia dai falegnami: sono condotti — a forma di pipa per i maschi, di calice per le femmine — per dirigere l'urina dove si conviene. Mentre ci congediamo una tzigana entra a mendicare: la sua faccia scontrosa è incorniciata da uno scialle rosso, bordato di frange. Ne vivono molte nel paese; l'altro giorno, nella città russa, una di loro, bruna e splendida, leggeva i tarocchi per un rublo a due piccole russe bionde dall'espressione ansiosa. Offrendo una lipioška alla mendicante, Tula dice: «Sai, vorrei anch'io potermi permettere uno scialle bello come il tuo!». Molti uzbeki sono ancora in campagna, dove si stabiliscono durante l'estate. Djura, la figlia maggiore di Riza, è nel suo giardino, seduta alla turca sotto un alto peristilio dalle colonne di legno
scolpito. Nel cortile giocano tre bambini all'ombra di un salice, contro il cui tronco si sfrega una mucca. Djura è paffuta, porta un gran numero di braccialetti, pantaloni di seta, un nastro nero attorno al capo. Ci invita ad accomodarci al fresco nella stanza superiore, i cui unici ornamenti sono costituiti da tappeti scuri: è dunque più facile ammirarne pienamente la bellezza. Nei muri, le consuete nicchie simmetriche contengono teiere, specchi, canovacci, coperte. Il piccolo tavolo del saundal ricopre la fossa del pavimento destinata alle braci; in un angolo si cela il buco quadrato per lo scolo dell'acqua. Djura ci serve delle focaccine fritte senza però né sedersi né mangiare in nostra presenza. Non appena si apre la porta, le vicine accorrono per scrutarci dall'altro lato del corridoio. Al pari della sorella, Djura non è coinvolta dal modernismo incombente, il quale non riesce ad oltrepassare quel passaggio a gomito attraverso cui si accede a ogni cortile. Si lamenta dell'alto costo della farina e del kišmiš, vero pane quotidiano degli indigeni. Forse, quando i suoi figli andranno a scuola, capirà finalmente che, a sua insaputa, la vita è cambiata. Andando via, lancio un'occhiata in direzione delle vicine divertite: in mezzo a loro scorgo una vecchia che fuma il čilim e una giovane ricamatrice. Nel kišlak Incontro il bel Jan dagli occhi azzurri che mi chiede se desidero ancora andare in un kišlak a vedere lavorare gli uomini e i bachi da seta, e dove potrò salire su un cammello. «Appuntamento per questa sera alle sette. Andremo a casa di un mio amico. Sarà certo meglio che seguire Riza in qualche villaggio sconosciuto». Alle nove, quando ormai Marušia e io abbiamo perso ogni speranza, vediamo arrivare Jan in compagnia di due uzbeki — riconoscibili dalle loro rassicuranti teste rotonde - vestiti con giacche
di cuoio e entrambi muniti di una di quelle enormi bottiglie di birra da quattro litri. Preoccupate, aggrottiamo la fronte. «Che cosa significa, vi preparate a una grande bevuta?». «Non abbiate timore, Murat e il suo amico sono del tutto affidabili, potrete dormire sonni tranquilli. Solo un po' di birra, quel tanto che basta per essere allegri». Jan ferma due isvoščik che ci conducono per la campagna a trotto vivace e al suono di grandi schiocchi di frusta. «Murat, è lontana casa tua?». «No, apa», risponde, usando l'appellativo di “sorella”, comunemente dato alle donne. «Giusto il tempo di bere due teiere». Ignoro dove ci stiamo dirigendo, ma il dado è tratto: nella notte, per cammini sconosciuti, quando le vetture saranno licenziate, non vi sarà più ritorno possibile. Polvere profonda sulla strada, un sentiero nella falesia, e poi una gradinata di legno, alcuni pioli, una terrazza e infine la porta. Entriamo in una grande stanza: lampada a petrolio, cuscini, tappeti. Una ragazza, la sorella di Murat, porta il tè, qualche uovo sodo e un vassoio di kišmiš. È troppo tardi per visitare il resto della casa. Jan è taciturno; non ha voglia di raccontarmi come si svolge un matrimonio uzbeko. Marussja è di cattivo umore e in poche parole mi confida: «Jan ha rovinato la nostra amicizia confessandomi che da sei mesi non pensa che a me. Fino a oggi era sempre riuscito a dissimulare il suo sguardo implorante e io non sospettavo nulla». Conosco l'atteggiamento della mia amica in questo genere di situazioni. Pur amando gli uomini e la loro compagnia, quando diventano supplichevoli Marussja li detesta a tal punto da non tollerare più il minimo contatto. A questo riguardo era stata molto chiara con il suo fidanzato, che però aveva voluto sposarla ugualmente pur di viverle accanto. «Il tuo affascinante marito manca forse di certe attrattive, Marussja, ma se neanche Jan, così bello, suscita in te qualche desiderio, temo che con il tempo il tuo cuore diventerà duro come una pietra. Senza dubbio hai posto il tuo ideale tanto in alto in modo da non rischiare che la tua serenità sia scalfita da una qualsiasi delusione». Marussja e Jan discutono.
Da parte mia, sento una grande stanchezza dopo questa giornata così intensa. Appena fuori città, sulla strada per Agalik, ho visto nel cortile di una fattoria gli indigeni cuocere i bozzoli in grandi paioli; i bachi morti emanavano un fetore atroce evocandomi ricordi di greti dove imputridivano al sole banchi di pesci, infestati dalle mosche. Mi ero poi recata a visitare, all'estremità di Afrasiab, il mausoleo di Hodja Danjar, immenso cilindro di pietra dal diametro di cinque o sei metri, affiancato dal bunčuk, il santo vessillo. La leggenda narra che il santo gigante continua a crescere nella sua tomba. Proseguendo la mia passeggiata, mi ero bagnata nel grande acquedotto ombreggiato di salici prima di arrivare all'osservatorio di Ulug-Beg. Questo successore di Timur aveva individuato con esattezza, nel XV secolo, il meridiano di Samarcanda e stabilito tutti i calendari del Medioevo: là egli si recava per scrutare il cielo. In una profonda trincea scavata ad arco una rotaia graduata sosteneva il sedile mobile, munito di cannocchiale. I ragazzi dormono, Jan e Marussja continuano a discutere animatamente. Triste risveglio. Siamo soli, è tardi, tutti sono usciti. I miei due amici non si rivolgono più la parola. Decidiamo così di rientrare il più presto possibile. Dobbiamo lasciare la campagna, i campi, i bachi da seta, i cammelli, i tanti piccoli animali... Dalla cima della falesia vediamo la natura intorno divenire cristallina alla luce incomparabile del mattino del Turkestan. A migliaia di chilometri dalle perturbazioni oceaniche, l'atmosfera è di una trasparenza stupefacente. Lascio la stanza che mi ha ospitata e guardo di sfuggita nel cortile. Una vecchia ha appeso ad asciugare il materasso e la biancheria della culla: anche da qui se ne distinguono i fori. Una pecora bela. «Ella, venite con me a visitare la casa vicina», mi propone Jan, «è disabitata da due anni, ma potrà interessarvi ugualmente». Pareti e pavimenti spogli, una finestra ancora intatta; una feritoia nera, simile ad una buca delle lettere, si apre ai piedi del muro attirando la mia attenzione.
Jan coglie il mio sguardo: «È proprio lì che bisogna guardare, a quello strano anfratto è legata una triste storia. In questa casa viveva una coppia; il marito amava sopra ogni cosa la sua sposa e il suo cavallo, che era tanto veloce da vincere ogni gara procurando loro premi e regali. All'inizio non ebbero figli ma poi nacque una bimba. Al tabib piaceva molto quel cavallo e avrebbe voluto comprarlo. Offrì, invano, molto denaro. La figlia crebbe felice. Tutto procedeva bene. «Un brutto giorno, però, appare sul collo della bimba una macchia bianca. Lebbra? Se così fosse la famiglia dovrebbe abbandonare il villaggio. Chiamano il barbuto tabib perché guardi la figlia e dica che malattia ha, ma egli fa il gesto di scappare. Il padre lo trattiene: “Dimmi che cosa vuoi e te la darò”. “Regalami il tuo cavallo e non aprirò bocca”, risponde quello. «I genitori nascosero la bimba di tre anni in quella sorta di cantina affinché nessuno la vedesse. L'infelice madre nutriva la figlia di notte, al riparo da sguardi indiscreti. La accarezzava e poi si strofinava bene il viso sperando di ammalarsi anche lei, ma nulla accadde. La piccola piangeva, voleva uscire, stare accanto alla madre: non era possibile, doveva tacere. «Trascorsero così quindici anni e arrivò la rivoluzione. Il villaggio venne a conoscenza del fatto, di cui già da tempo si mormorava. I komsomol, decisi ad appurare la verità, perquisirono la casa. La povera infelice uscì allora a gattoni: era tutta rugosa, aveva paura di tutti, come una bestia selvatica. Non sapeva parlare. Il padre fu costretto a raccontare ogni cosa. Un medico russo venne a visitarla: non era lebbra, soltanto un foruncolo. Fu chiamato il tabib dalla grande barba per interrogarlo. Il padre, però, non ebbe bisogno di spiegazioni; prese il coltello e lo uccise». Ritorniamo passando tra cespugli luccicanti di rugiada. Ripenso a quel terribile racconto convincendomi sempre più che in questo paese si vive ancora in pieno Medioevo: occorre non dimenticarlo mai. Siamo soltanto nel 1311, con quaranta anni di ritardo sul calendario arabo dell'egira. A ogni passo il secolo XIV si erge di fronte al XX; il diritto del più forte prevale tuttora e la nozione di giustizia deve essere creata dal nulla. A ogni passo la forza
dell'abitudine si oppone alla forza della volontà che i soviet vorrebbero instaurare.
Il processo ai “basmaci” Sono svegliata da un insolito rumore: zoccoli di cavallo risuonano sul lastricato della mia madrasa... Mi precipito a vedere che cosa succede. Alcuni militari, armati e a cavallo, sorvegliano l'installazione di numerosi sedili davanti all'iwan di ingresso. È giunto il giorno tanto atteso della conclusione del processo ai basmaci, incominciato parecchi mesi fa. Appollaiata in instabile equilibrio sul davanzale della mia finestra vorrei fotografare dall'alto il cortile, invaso a poco a poco da una marea di gente. Mi piacerebbe trovare un'altra inquadratura, ma temo che mi sequestrino di nuovo l'apparecchio. Eppure so bene che alla fine non resisterò e salirò sul tetto, come d'altronde sono solita fare ogni mattina. Ma no... Il corridoio in fondo al cortile è sbarrato, sorvegliato a vista da un militare. Decido di rischiare e avanzo fino al podio dove tre giudici chiacchierano in attesa degli accusati. Mostro loro la macchina fotografica dicendo che ho l'autorizzazione. Alla mia richiesta di poter rimanere lì accanto, esitano ma poi acconsentono. Uno di loro, con un impermeabile grigio, ha un berretto di tela bianca sotto la cui visiera si intravede un naso aquilino da armeno. Gli altri portano la tjubeteika e il čapan uzbeko a righe verdi e viola. Dietro di loro, al fondo della nicchia, sono esposti i ritratti abbinati di Marx e di Lenin. Dalla volta in mattoni smaltati pende uno stendardo di velluto granata, su cui è ricamata l'immagine di un uomo che, in piedi davanti a un banco, manovra la bilancia della giustizia dinanzi a uno spettatore dall'aria interessata- Sul pavimento, sotto la grande ogiva, fa bella mostra di sé un'enorme testa di Stalin sullo sfondo di un cielo azzurro, un fotomontaggio vecchio di cinque anni. Al centro del podio ricoperto da un grande tappeto è seduto il procuratore, avvolto nel suo mantello nero; è magro e porta un tocco di pelliccia anch'esso nero. Su un angolo del tavolo coperto da un drappo di cotone rosso è appoggiato il busto in bronzo di Lenin, i cui
rilievi risaltano sotto la luce bianca del giorno piovoso. Ha sopracciglia corrugate e fronte bombata; il procuratore gli assomiglia stranamente: lo sguardo indagatore, i baffi cascanti, la barbetta rada sono i medesimi. Ai piedi del podio numerosi cancellieri sono intenti a scrivere, in persiano, sui loro tavoli ricoperti di broccato rosa e oro. Scortati, arrivano gli accusati. Sono una quarantina, tutti indigeni, ben avvolti nei loro mantelli imbottiti, variopinti e pieni di toppe. Un uomo a piedi nudi tiene le mani incrociate sul suo čapan ricamato a grandi rose e posa dinanzi a sé un bollitore. «Ecco Amrista, il loro capo», mi dice il mio vicino. Mi faccio indicare chi è. «Il più basso, quello con il copricapo verde». Spalle cascanti, testa rotonda e scheletrica, occhi infossati, bocca sottile, è abbigliato in modo stravagante e scherza con la folla. «È già stato imprigionato dodici volte», continua il mio vicino che sfoggia uno splendido, seppur consunto, turbante, «ma è sempre riuscito a scappare, beffando la polizia. “Uccidetemi pure, la cosa mi è indifferente. Altri venti prenderanno il mio posto”, è solito dir loro». Dietro la corda che delimita lo spazio riservato agli accusati è schierata una fila di donne, infagottate in parandja bianchi, chiusi dal čador di crine nero. Presenze ansiose e immobili, sono le mogli o le madri degli accusati. I figli giocano noncuranti a terra. Dietro a quelle tristi figure si alza un muro di teste maschili, sfaccendati che osservano la scena, vero campionario di tutte le mescolanze umane dell'Asia: da chi ha tratti quasi giapponesi al baskiro biondo nelle cui vene scorre anche sangue slavo. Due superbi cani poliziotto sono tenuti al guinzaglio da un militare. Un giudice legge con voce monotona e quasi incomprensibile nomi, cognomi e dati personali di ciascuno, prima in uzbeko e poi in russo. A sinistra di Amrista, un vecchio minuto con la barba bianca e corta, il magro collo teso nello sforzo di ascoltare, straluna immensi occhi azzurri: lo manderanno sul serio al buon Dio senza confessione?
«Quello grosso, il più vicino a noi, è un sarto; ha già ammazzato otto persone». Durante il giorno, ognuno di loro svolgeva il proprio mestiere: orafo, bracciante, spazzino, caffettiere; ma alla sera si riunivano, mettevano in discussione le nuove leggi, criticavano il governo, organizzavano razzie contro le fattorie controllate dai bolscevichi, preparavano sabotaggi. Quello che so del loro passato Con il nome di basmaci— che significa “ladri” o “banditi” — vengono chiamati tutti i nemici dei soviet, i briganti usciti di prigione all'inizio della rivoluzione, i controrivoluzionari nazionalisti, sostenitori dell'emiro spodestato di Bukhara Seid Mir Alim Khan, oppure i russi bianchi, ex zaristi. Negli ambienti non sovietici questa parola indica un ribelle nazionalista. L'accanita resistenza che essi opposero obbligò per molto tempo le truppe rosse a schierare grandi contingenti nel Turkestan. Il movimento basmacestvo si costituì dopo la caduta del governo provvisorio di Kokand, che aveva cercato di prendere le redini del Turkestan in seguito alla rivoluzione. Dopo cinquant'anni di occupazione russa, nel corso dei quali non si era creata nessuna opposizione interna, questo improvviso spirito di ribellione fu determinato da molte cause. A partire dalla soppressione dei khanati si era andata sviluppando una coscienza nazionale; in seguito l'istinto di difesa spinse all'insurrezione poiché la conquista russa aveva necessariamente adottato misure assai dure, annullando sul momento le raccolte di cotone e provocando un'insostenibile miseria con l'abuso delle requisizioni. Le bande organizzate — inizialmente un'accozzaglia di criminali — furono chiamate dal governo di Kokand affinché lo sostenessero, e così i loro membri si trasformarono in eroi liberatori che agivano in nome della popolazione. A Taškent i russi bianchi, guidati dal generale Žunkovski, organizzarono la controrivoluzione con l'aiuto degli inglesi, che
presto però li abbandonarono per proteggere il governo “sovietico” di Ashkhabad, contrario alla dittatura bolscevica. In quei primi anni della rivoluzione, secondo l'opinione di Mosca riferita sulla «Pravda» del 20 giugno 1920, soltanto un russo poteva diventare dittatore del Turkestan. Secondo gli avversari del regime, questa chiusura antinazionale, non legata a questioni di classe, sarebbe stata all'origine della rivolta generale. I soviet ritenevano invece che le radici dell'insurrezione fossero da ricercarsi nello sfruttamento imperialista del vecchio regime. Essi promisero di riparare alle ingiustizie zariste; pur tuttavia il movimento dei basmaci crebbe dopo il loro avvento. Ovviamente si erano verificate sommosse anche prima della rivoluzione, come quella dei kirghizi nel 1916: in quell'occasione, per salvare il proprio prestigio, il governo aveva cercato di gettare la colpa su agenti provocatori turchi. Ma dopo le azioni severe e inflessibili del generale russo Ivanov-Rinov, quando l'ordine di mobilitare gli uomini dai diciannove ai quarantatré anni fu commutato in lavori militari, si era ristabilita una relativa calma. I russi avevano dovuto altresì sedare ripetuti conflitti tra uzbeki e turkmeni di Khiva. Nel 1916 Žunaid, alla testa dei suoi guerrieri, si era impadronito di Khiva tenendo in suo potere il khan della città, Seid Asfendjar Bahadur. Ma la spedizione punitiva del generale Galkin aveva costretto Žunaid a evacuare Khiva e da quel momento i russi, persino i bolscevichi, furono per lui oggetto di odio. Nel 1918 riprese Khiva per due anni, dopo la partenza del colonnello Zaitsev. Nel 1924, grazie all'appoggio dei commercianti e del clero, egli riuscì ancora una volta a entrare in quella città ma l'Armata rossa, sconfitti definitivamente i basmaci del Pamir, lo affrontò costringendolo ad andarsene. Si arrivò a un accordo che Žunaid rispettò, finché l'esecuzione di alcuni suoi sostenitori lo indusse a riprendere le ostilità; per ricondurlo all'obbedienza fu necessario dichiarare la mobilitazione generale, decretare che la linea ferroviaria era in pericolo e quindi convocare il comitato rivoluzionario militare. Secondo le congetture di qualcuno, la sottomissione del Turkestan a opera dei rossi sarebbe costata molte più vite umane
della conquista russa di cinquantanni prima. Nel Fergana non erano mai avvenuti fatti inquietanti prima che diventasse il centro del movimento basmacestvo, movimento che è stato giudicato, persino da studiosi sovietici, come una reazione inevitabile alla politica antimusulmana dei soviet. Il terzo Congresso dei soviet del Turkestan, svoltosi nel novembre del '17, rifiutò ai musulmani il diritto di partecipare all'organizzazione del governo. A tale decisione cercò di porre rimedio il Congresso nazionale di Kokand che però non aveva né armi né denaro ma soltanto fede nella rivoluzione comunista, ben più che in una lotta contro il governo centrale russo. Si rimproverò ai soviet di non fare nulla per evacuare le truppe rosse che vivevano nel paese. In un libro pubblicato a Mosca nel 1922, L'esecuzione dei ventisei commissari di Baku, scritto da Vadim Čajkin, leggiamo la risposta di Stalin: «Annientate voi stessi la sezione militare russa del Turkestan, se siete in grado di farlo con il vostro proletariato e la vostra massa di contadini e se la popolazione la considera estranea al paese». Nel '18 Kokand fu bombardata. Quel tentativo di governo scomparve, ma i numerosi ribelli diffusero l'idea dell'insurrezione. In quel periodo, sebbene il movimento basmacestvo fosse abbastanza forte, esso si limitò a formulare soltanto le richieste indispensabili a rendere più accettabile ai musulmani il programma sovietico. Tra il '22 e il '23 la riforma agraria fu rinviata, si sospese la secolarizzazione dei vakuf, i beni delle moschee, si tollerarono le scuole musulmane. In seguito a tali concessioni quattromila basmaci passarono ai bolscevichi. Allora non esisteva un ideale nazionale comune, ma soltanto un desiderio di autonomia. Nel Fergana, interrottisi i rapporti con il resto del Turkestan, gli insorti allo sbaraglio divennero ciechi strumenti nelle mani di avventurosi kurbaši, o capi guerrieri, quale Madamin Bek, ex forzato, che si unì ai soviet. Il suo rivale Kurshirmat, a capo di tutte le forze antisovietiche del Fergana, dopo averlo accusato di tradimento lo uccise; nel '23 Kurshirmat sarà costretto a ritirarsi in Afghanistan. I basmaci travisarono lo scopo della loro lotta, divisero invece di unire; ognuno volle essere il capo di un proprio gruppo senza
riconoscere gli altri. In tale situazione sarebbe anche stato possibile sgominarli, ma i saccheggi continui effettuati dai rossi, insofferenti a qualsiasi disciplina, rinfocolarono le rivolte. L'emiro, fuggito sulle montagne nel 1920, era sostenuto da Ibrahim Bek che, alla testa degli insorti, si battè per lui. Subito dopo la sovietizzazione di Bukhara il movimento basmacestvo risorse, appoggiato ora dagli intellettuali che, temendo di veder scomparire 1 opposizione, tentarono, organizzando riunioni segrete, di dargli forma politica. Ma un'autonomia che prevedesse legàmi con lo stato russo era inammissibile, occorreva ottenere una vera indipendenza nazionale. E così il Comitato per la liberazione nazionale dell'Asia centrale, senza denaro e senza armi, decise nel 1921 di ricorrere al console britannico di Kuldja e di proclamare il Turkestan “repubblica democratica indipendente ”. Ma i membri del comitato vennero presto arrestati e al processo il procuratore li condannò basando le sue accuse sulla sharia, erano colpevoli di aver chiesto l'aiuto di un paese nemico dei musulmani, ovvero di quegli infedeli britannici che opprimevano i luoghi santi di Medina e della Mecca. I rossi, liquidati nel 21 i fronti bianchi, sconfissero i basmaci. Al primo Congresso dei popoli d'Oriente, svoltosi a Baku dal 1° all'8 settembre del 1920, Enver Pascià — a cui il compagno Zinoviev rifiutò la parola -, delegato dei rivoluzionari africani e indù, ebbe modo di rimpiangere i suoi legami con Mosca quando seppe degli eccessi delle bande rosse. Sembra che i tesori dell'emiro fossero stati inviati a Mosca «come dono del popolo riconoscente della provincia di Bukhara». Nel novembre del '21 Enver decise di recarsi a Bukhara per rendersi conto di che cosa succedeva in quella città; dovette constatare che, dietro il pretesto della liberazione dei popoli, la politica dei soviet in Turkestan era in realtà la continuazione del passato regime. Alcuni rappresentanti dei “giovani di Bukhara”, quali Faisula e Osman Khodja, gli spiegarono di non aver ottenuto l'indipendenza promessa ma di essere prigionieri dell'Armata rossa.
Enver, rendendosi conto che sarebbe stato impotente finché fosse rimasto a Bukhara, con il pretesto di andare a caccia partì per il Tagikistan, da dove inviò un primo messaggio al governo centrale invitandolo a ritirare le sue truppe dalla regione e proponendo altresì di organizzare la repubblica del Turkestan alleata ai soviet, con una comune politica estera: «In tal caso», egli promise, «sarà possibile grazie alle forze rivoluzionarie del Turkestan cacciare gli inglesi dalle Indie». Enver, genero del califfo di Costantinopoli e amico degli intellettuali musulmani, era poco conosciuto dagli insoddisfatti con cui si era associato. Commise un errore, nominandosi gran visir dell'emiro decaduto Seid Alim, uomo dispotico e detestato, sostenuto dagli zaristi. Il Fergana e Samarcanda non riconobbero la sua supremazia. Lo stesso emiro Seid Alim diffidava di colui che era stato capo dei Giovani Turchi, sospettandolo di volere realizzare a proprio beneficio l'unione delle popolazioni turche del Turan. Il governo di Bukhara decise di inviare presso Enver una commissione di revisione presieduta da Osman Khodja allo scopo di reprimere l'insurrezione. In realtà, tale commissione doveva aiutare Enver nella sua lotta contro Mosca. Ma Osman fu costretto a fuggire a Istambul. Faisula avrebbe voluto raggiungerlo otto giorni dopo, ma, sorvegliato a vista, dovette rinunciare. Enver tuttavia era sempre forte; in Turkmenia aveva l'appoggio di Žunaid: ma i basmaci, incapaci di concepire un impero panislamico, si ostinavano a voler creare uno stato regionale. Ibrahim Bek, servo dell'emiro, si rifiutò di marciare al fianco di Enver Pascià che, braccato sulle montagne del Tagikistan, venne ucciso il 4 agosto del 1922. Nondimeno la ribellione continuò; anche le rivalità tra capi basmaci non si sopirono. Ogni kurbaši aveva come unico obiettivo di impadronirsi di una regione per dichiararsene bek e reinstaurarvi l'antico regime feudale. La presa di Garm da parte dei rossi, che guadagnavano così terreno nelle zone di alta montagna, indusse l'emiro a inviare un
lungo appello alla Società delle Nazioni e a tutti coloro che «amano la pace e rispettano la giustizia». Nel '24 i soviet accusarono l'Inghilterra di fomentare disordini in Asia centrale mentre Faisula Khodjajev dichiarò che i basmaci erano ormai ridotti a bande di ribelli senza alcuna connotazione politica. La Repubblica autonoma del Tagikistan, formatasi nel 1925, entrò a far parte nel '29 dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, al pari dell'Ucraina e dell'Uzbekistan. Fino al 1931 Ibrahim Bek rimase a capo dei rivoltosi, godendo di una grande autorità. Nella regione di Hissar, al centro del Pamir, vivevano le tribù dei Lokai e dei Magiai, restie a ogni disciplina. Guidate dai loro capi potentissimi bek dai costumi feudali - esse saccheggiavano il paese. I contadini talvolta si ribellavano, uccidevano il bek e fuggivano unendosi ai basmaci. Anche il contadino, pagato il proprio tributo al bek, riconosceva a se stesso il diritto di rapinare i vicini. Ibrahim Bek per esempio, pur figlio di un ricco mugnaio, essendo temuto per la sua maestria nel tirare, si impadroniva impunemente dei cavalli altrui, secondo un uso assai frequente nella regione. I conflitti fra le tribù continuavano incessanti: Ibrahim insorse contro Enver appoggiando l'emiro, e a nome di quest'ultimo inviò proclami nel paese. I tagiki avversavano Ibrahim Bek, che era uzbeko lokai e inoltre favorevole all'emiro di Bukhara, uzbeko maqita. Questa lotta tra tribù era considerata dai soviet “una lotta di classe”. Il 26 luglio 1931 Ibrahim fu catturato con il suo secondo e con un cavaliere. Condotto nella prigione di Taškent, dovrebbe trovarvisi ancora oggi. Ma torniamo al processo che è in corso. Gli accusati si alzano per essere condotti all'interno della moschea dove vengono perquisiti. La gente spinge per vederli meglio. I due alberelli piantati in mezzo al cortile si piegano stranamente, fino a toccare terra, se ne intravede il fogliame spuntare da sotto le braccia degli spettatori. Sembrerebbe che la folla voglia lanciarsi a liberare l'uno o l'altro dei prigionieri. Ma no, si limita a guardarli. Scortati due alla volta,
essi vanno per le loro necessità al fondo del cortile, dall'altro lato del passaggio a volta... I basmaci ritornano al loro posto e, rabbrividendo per il freddo, infilano le mani nelle lunghe maniche del cappotto. Amrista deve avere la malaria, la sua pelle è verdastra sotto la pioggia scrosciante. Tremolano le guance grasse e cascanti del sarto dall'aria ambigua. Ora tutti chinano la testa, spossati, lasciandola cadere in avanti fino a sfiorare con il mento le clavicole. Quelle nuche rasate e scoperte, sporgenti dallo scollo del khalat, sembrano essere in attesa di un colpo d'ascia... Se l'istante non fosse così grave tutte quelle teste in fila, esageratamente chine, sarebbero quasi comiche; mi ricordano certi momenti di preghiera in cui i fedeli esasperano il raccoglimento per rendere la propria contrizione più edificante. Sul podio l'uomo continua a leggere, le sillabe si succedono, sorde, gutturali, con bizzarre elisioni, con brusche accentuazioni a fine parola. Un grido, un interminabile lamento... Le donne si precipitano in avanti passando sotto la corda. Quei nomi scanditi un attimo fa sono quelli dei diciannove accusati che sono stati condannati a morte! Strepiti, urla: una scena straziante... Con la sciabola sguainata i militari a cavallo si aprono un varco fra i khalat e i turbanti; gli alberelli sembrano falciati da una nuova tormenta, le donne sono strappate a viva forza dai loro uomini e trascinate lontano. Coinvolta nel tafferuglio, mi riesce difficile vedere che cosa succede e devo riunire tutte le mie forze per difendermi dagli spintoni. Rinuncio quindi a tornare al mio posto. A poco a poco la folla si acquieta. Intravedo ancora il basmaci dai piedi nudi che ora tiene stretto sotto il braccio il bollitore scrostato di smalto blu: fino all'ultimo minuto di vita la carcassa umana chiede di essere nutrita. Nel cortile ormai deserto gli alberelli si sono miracolosamente raddrizzati, le sedie sono rovesciate a terra. Quando all'indomani mi sveglio, Lenin medita ancora, da solo, sul tavolo. Le sedie vengono accatastate l'una sull'altra per essere portate via. Passa un uzbeko che, avvolto da un pesante mantello
nero invernale, tiene in mano una teiera di ceramica bianca; i suoi stivali risuonano nel cortile di nuovo vuoto e silenzioso. Sfogliando i giornali non ho trovato una sola riga sul processo ai basmaci.
Bukhara, città declassata In treno raggiungo Kagan, la stazione di Bukhara, a circa 250 chilometri da Samarcanda. Un impiegato mi ha messo di forza in testa alla fila, così ho ottenuto un posto sul treno regolare. Lasciare Samarcanda mi rattrista; amo la sua vita animata e quella moltitudine di gente sempre in movimento fra cui mi sento a mio agio. Mi mancheranno il mercato delle farine, tanto gremito da non potercisi muovere, il grande bazar coperto ai piedi del mausoleo di BibiKhanym, le innumerevoli čajkana montate su pedane pittoresche all'ombra di un bel karragaš... Marussja non voleva convincersi che sarei davvero partita mentre la salutavo davanti alle grandi scuole di corso Vseobuč. Durante il viaggio mi si è seduta accanto un'anziana contadina: non staccava gli occhi dal pane che stavo mangiando e così l'ho diviso con lei. Questa linea transcaspiana da Krasnovodsk a Taškent è stata costruita nel 1882, senza nessun piano quinquennale, «quasi alla maniera americana, data la rapidità di realizzazione, a conferma del fatto che la vita e i metodi russi presentano forti analogie con gli usi dello “zio Sam”», come osservò Rickmers nel 1913. Ma Bukhara è lontana, sia dall'America sia dalla Russia. La prima impressione che ne ricevo è quella di un mondo di rovine e di tombe. Alle porte della città, circondata da mura lunghe dieci miglia, si stende il camposanto; anzi s'innalza, dovrei dire, dato che le piccole gallerie parallele sono sovrapposte le une alle altre. Che cosa ne è stato della famosa Bukhara, città di cicogne, centro eccelso della scienza musulmana, forza dell'islam, dove vivevano centocinquantamila abitanti, di cui ventimila studenti giunti da ogni luogo per frequentare le sue cinquanta madrase! In quei tempi occorrevano quindici o vent'anni per essere designato imam, ovvero capo di moschea. E si insegnavano, insieme con il Corano, la retorica, l'arte oratoria, la poesia e la
logica. La lezione s'iniziava come d'uso nello Yemen: si alzavano gli occhi voltando le palme delle mani verso il viso e per ultimo ci si accarezzava la barba! Nel 1848 vi erano quindici madrase a Taškent, trenta a Kokand e sei a Samarcanda. I crudeli emiri di Bukhara prepararono la rovina della città opprimendo il popolo con imposte esorbitanti, decretando condanne a morte per proprio diletto. Al museo è ancora possibile vedere gli strumenti di tortura di cui i carnefici si servivano. Vi era un torrione infestato da immondi insetti, cimici allevate appositamente per la tortura dei prigionieri; quando mancavano uomini per nutrirle si dava loro carne cruda. Acqua e pane Ho preso alloggio in una stanza al primo piano della “base di turismo”, che dà sul cortile di una madrasa, nel centro della città attraversata da stradine sporche e tortuose. In un angolo della piazza vi è un erogatore d'acqua dove molti abitanti vengono a riempire, per qualche copeco, enormi e splendidi otri, muniti di bretelle. Bukhara, bagnata dagli ultimi canali di irrigazione provenienti dallo Zeravšan, aveva l'acqua più cattiva del Turkestan e il 95 per cento della popolazione soffriva di febbri. Al momento della piena tutte le vasche della città — gli haus- si riempivano d'acqua e attorno a questa sorta di serbatoi si svolgeva la vita. La gente veniva ad attingere acqua, vi faceva le proprie abluzioni, lavava i panni o le tazze del tè... Una sporcizia incredibile. Ed era proprio attraverso l'acqua che molti venivano contagiati dall'embrione del verme della Guinea, il rišta, ovvero il “filo di cotone”, che cresce sotto la pelle raggiungendo talora la lunghezza di un metro. I barbieri s'incaricavano di liberarne progressivamente il cliente attorcigliandone ogni giorno qualche centimetro su un fiammifero; occorreva procedere con grande prudenza per non spezzare l'animale, nel qual caso si doveva ricominciare tutto da capo.
Ora il Ljabi-haus davanti alla mia madrasa, Dinan Beghi, è a secco. La polvere è soffocante, invade tutto. Le pittoresche riunioni sulle scalinate umide sono finite, ma l'acqua è bonificata: il ricta è morto. Per contro, approvvigionarsi di cibo è così difficile che la caccia al pane costituisce l'evento più importante della giornata. Avrei diritto al ristorante degli “specializzati”, dove si mangia bene ma si spende troppo per il mio modesto bilancio, dato che ogni pasto costa dai tre ai quattro rubli. Altrove occorre lottare per accaparrarsi minuscole porzioni di zuppa o di gulaš, un miserevole miscuglio di ossa in salsa. Ho quindi deciso di cucinare da me, approfittando del fatto di possedere una tessera grazie alla quale dovrei, in teoria, avere quattrocento grammi di pane al giorno. Mi reco regolarmente alla cooperativa dove, insieme con una quarantina di persone, aspetto di veder apparire il prezioso alimento. Occorre essere sul posto se non si vuole rischiare di perdere il momento propizio o di arrivare quando hanno già venduto tutto. Quando tocca finalmente a me, litigo regolarmente con il negoziante che spesso non mi dà nulla. Nell'attesa la gente chiacchiera, scherza; nessuno recrimina o protesta, la prendono tutti con filosofia... Da noi, in una situazione simile, si parlerebbe di catastrofe imminente, si assumerebbe un'aria tragica, ci si agiterebbe disordinatamente. Qui è impossibile indovinare dalla sola mimica le parole della gente. Sento dire: «Le razioni sono ancora diminuite: trecento grammi ai manovali, seicento agli operai specializzati». «Assicurano che a partire da febbraio distribuiranno grano canadese...». La mia vicina mi chiede di tenerle il posto mentre va a comprare una cipolla o un cavolo per la zuppa. E io non posso trattenermi dal dire loro che all'altro capo del mondo il grano viene bruciato nei vagoni ferroviari o gettato in mare. Non mi credono: «Ebbene», dice un vecchio tutto sorridente, «se si permettono simili idiozie vuol dire che laggiù c'è qualcosa di terribilmente storto!». Un rumore: arriva all'emporio pane nero e caldo. Un uomo lo divide in porzioni con un lungo coltello che immerge in una tinozza di
acqua tiepida. A ogni incisione si vedono le fette tagliate fumare ancora, la mollica umida rimane incollata alla lama formando lunghi fili luccicanti. Il gusto è dolciastro: credo vi sia una grande quantità di giugara nella farina. Andando via ognuno sbocconcella un angolino della sua porzione. Le patate costano tre rubli al chilo, ma è difficile trovarle: al mercato della verdura non ci sono che cipolle e carote. Per un chilo di riso, principale nutrimento dei locali, bisogna pagare da sei a otto rubli. Un vecchietto tiene in mano sei uova che è pronto a cedermi per tre rubli, ma si rifiuta di vendermene soltanto tre. Qualcuno passa reggendo una lipioška, la gente lo ferma perché vuole comprarla o domandargli dove l'ha trovata. Tutti si affrettano a quell'angolo della piazza ma il piccolo venditore non ne ha più e si allontana tenendo in equilibrio sulla testa la sua grande cesta piatta. Alcuni mendicanti si aggirano nei paraggi: li vedo tremare, devono avere le febbri. Cerco di capire come si organizzano gli altri per nutrirsi. Ritornando dall'Ark, l'antica cittadella o cremlino, scopro un ristorante “chiuso”, riservato agli operai dell'industria elettrica. Verso le cinque e mezza, quando tutti sono stati serviti, se rimane ancora del cibo in cucina, i cuochi lasciano entrare qualche passante. Per ottantacinque copechi è possibile avere una buona zuppa accompagnata da un piatto di riso o di maccheroni. Gironzolando nei pressi di una casa in costruzione sento l'imprenditore dire al suo muratore: «Ti pagherò domani, oggi la banca non aveva più liquidi». «Potete anche tenerlo, il vostro denaro. Non saprei che farmene. È di pane che ho bisogno! Pane, ecco cosa chiedono i miei bambini quando torno a casa». Un istante di silenzio. «Trecento grammi al giorno ne ricevo! E la mollica è tanto bagnata e pesante che la razione si riduce a nulla». L'imprenditore si allontana per ricomparire con il suo pane, che offre all'uomo senza proferire parola. Che altro può fare? Mi reco dal soviet della città; vorrei visitare la comunità ebraica di Bukhara, rinomata per la purezza della razza e delle tradizioni. Mi
piacerebbe anche vedere un allevamento di pecore karakul, di cui si esportano le pellicce. Mi dicono di rivolgermi al comitato comunista, dove però non trovo nessuno: tutti sono al lavoro nei kišlak a raccogliere cotone a ritmi forzati, poiché ciò che soprattutto conta è raggiungere le cifre stabilite dal Piano. Nel formicaio Non mi stanco mai di osservare la vita intorno a me. Vi sono vie brulicanti di traffico indigeno. «Posht», “Attenzione!”, urlano gli asinai e gli arbakeš facendosi strada tra la folla che compra e che vende quel che può. Accovacciata contro un muro ascolto il flusso e il riflusso di questa umanità vagante: sono in un formicaio e capisco finalmente dove sta andando ogni formica. Due figli del deserto, riconoscibili dalla pelle abbronzata e dal passo lento e sicuro, esaminano del kišmiš, ne assaggiano i piccoli acini, poi chiamano un terzo compagno che porta stivali kazaki dai tacchi a punta e fiosso alla Luigi XV. Il prezzo richiesto suscita la loro ilarità e così si allontanano. Molti hanno grandi turbanti di lana grigia, assai pratici per portare, protetti tra due torciglioni, vetri di lampade. Sotto la rotonda coperta della piazza, dove ancor più si accalca la gente, scoppia una risata generale quando un tiro di buoi si mette a spingere con le corna i passanti. Un venditore di mele grida di continuo contro quelli che sostano troppo a lungo davanti al suo banco. Due afgani con turbante nero sono tentati da un taglio di rasatello giallo in possesso di un russo che dice: «Guardate quanti metri sono, avete solo da contarli, ci sono tutti!». Un terzo si presta a fare da interprete. Alcune donne vendono inqualificabili cianfrusaglie. Ma se viene offerto un tappeto di Bukhara, un tekinski, o una maiolica cinese, scompaiono nel giro di pochi minuti, acquistati da intenditori che vedo ogni giorno alla ricerca di un buon affare. Un piccolo pezzo di
tekiner, tappeto di colore scuro lavorato dalla tribù dei Teki, vale cento rubli ed è soprattutto utilizzato per confezionare i kurdjun, le bisacce di cui ogni indigeno carica l'asino, il cavallo o il cammello. Mi dicono che i loro disegni geometrici rappresentano in forme stilizzate la yurta al centro del grande pascolo, l'aryk che lo solca, i fiori e il cavallo nel campo. La mia vicina di camera ha comprato due braccialetti e un ciondolo d'argento antico lavorato che ha subito indossato, malgrado le abbiano preconizzato ogni contagio possibile. In una čajkana alcuni ragazzini accovacciati si scaldano le mani sulla bocca del forno, mentre le madri, in piedi accanto a loro, lanciano piccole grida per richiamare l'attenzione sulle camicie in vendita. Una di loro ha una stella d'oro che brilla alla narice. Passa un mendicante, prende un po' di brace con la sua schiumaiola e fa bruciare delle foglie secche di cui offre il profumo. Nessuno sa che cosa sia la mia Leica, ma appena inizio a maneggiarla tutti si precipitano per comprarla. In questa metropoli decaduta l'istinto commerciale è tuttora assai vivace. Tutti sgranocchiano qualcosa, mandorle, urjuk, oppure uva comprata sul momento. Passa un camion lasciando dietro di sé un insolito odore di benzina: tale è l'abitudine di sentire soltanto olezzi stantii di urina che se ne rimane sorpresi. Se voglio capire la vita delle formiche che si agitano intorno a me devo però comportarmi come loro: comprare e vendere. Passeggio tenendo ben in mostra una macchinetta per tagliare i capelli, che mi ero procurata tempo prima in previsione di una lunga traversata in barca a vela. Chiedo venti rubli, disposta a scendere a dieci; ho anche un coltello e un orologio da due scellini, acquistato da Woolworth. Non appena mi incammino per la stradina dove martellano gli stagnai, i soliti avvoltoi si gettano su di me, decisi a non lasciarsi sfuggire una simile occasione. Un uomo dalla barba rossiccia, dagli occhi truccati e con le unghie laccate di rosso saggia sprezzante la lama... Buon affare: intasco trentacinque rubli per tutto e ne dilapido subito quattro per un'anguria.
Non faccio a tempo a palpare un paio di pantaloni di flanella sventagliati da un imponente russo che quest'ultimo mi apostrofa duramente, secondo l'abitudine generale: «Prendili, ma che cosa aspetti?», come se fosse irritato da tanta stupidità: come si può lasciarsi sfuggire una così bella occasione per soli trenta rubli! Talvolta mi fermo all'improvviso, tentata di porgere la mano a un uomo che, malgrado il turbante, mi sembra di conoscere da sempre. È senza dubbio un tagiko, lo indovino perché siamo del medesimo sangue. Una ragazza indigena, truccata e con una bocca volgare dai denti sporgenti, beve sola in una čajkana. Accovacciate ai suoi piedi alcune venditrici di berretti vengono quasi soffocate dalla folla che si scosta per far passare un teleg. Il macellaio sbraita, preso d'assalto in mezzo ai suoi pezzi scarlatti di cammello. Sono tanti quelli che potrebbero ripetere assieme al derviscio che avanza con il suo scodellino di zucca da pellegrino: «La povertà è la mia gloria». Un venditore di torrone mette infreddolito le mani sotto le ascelle, il naso gli cola. Una donna cerca di proteggersi reggendo con le labbra umide i lembi dello scialle verde oliva. Alcune vecchie tendono una ciotola di legno: hanno palpebre diafane e croste scure agli angoli della bocca. La pioggia cade, ravvivando i colori sulle spalle imbottite dei khalat consunti... Ovunque mi appaiono cadaveri ancora in vita che lottano con più O meno forza... E forse anch'io lo sono, io che sto immobile a guardarli. Tutto dipende dal “più” o dal “meno”. L'odore della morte La popolazione è scesa a 40 000 abitanti. Per una casa ancora in piedi ve ne sono tre cadenti, poiché quando muore il capofamiglia la sua dimora scompare con lui: ciascuno qui si costruisce da sé la propria abitazione. Vi sono tombe sui tetti. Henry de Monfreid ha scritto: «Un santo ha meritato di essere sepolto lassù, di conservare il proprio posto fra i vivi, di salvarsi dal cimitero della duna, da quella terribile
uguaglianza dove precipita la morte musulmana e ogni morte. Lembi di tessuto e ciuffi di capelli svolazzano dalla grata della finestra». Dovunque aleggia un vago odore di muffa, come di sabbia di palude, e ancor più nei cimiteri sui cui sentieri di löss i passi si muovono silenziosi. In un mare di gobbe tutte identiche mi destreggio per raggiungere un boschetto di alberi fiammeggianti dei colori dell'autunno; il vento ha ammucchiato le foglie morte nel cortile di una moschea abbandonata, circondata da un peristilio a colonne. Ritrovo il medesimo odore nella moschea di Char Minar, dove le celle in rovina sembrano orbite nere e vuote. L'entrata è sovrastata da un gruppo di quattro minareti incappucciati di turchese, che ospitano, ognuno sulla propria sommità, un nido di cicogna. Nella strada un ubriaco cade e a ogni suo tentativo di rialzarsi alcune donne dagli scialli multicolori ridono con franca allegria. In un altro cimitero stanno demolendo le tombe per liberare il terreno intorno al mausoleo di Isma'il il Samanide, che sta lentamente sprofondando. Dagli alveoli a ripiani si sprigiona un'aria fredda che sa di terra putrida e di decomposizione: un odore simile a quello dei bachi morti nei loro bozzoli ammonticchiati. Ossa e brandelli di tessuto si mescolano alle macerie. Il morto non è schiacciato dalla terra: si costruisce una volta sopra di lui. Il mausoleo di Isma'il, il più antico monumento del Turkestan — risale al X secolo —, è un piccolo emisfero sostenuto da un cubo rivestito di mattoni incolori, il cui rilievo forma decorazioni geometriche. Assai più curiosa è la tomba di Chashma Ajub, la fonte di Giobbe. È un semplice cono di mattoni sporgenti che si innalza solitario su anonime tombe. Si narra che Giobbe, giunto in questo luogo, si chinò per bere e che, mentre si dissetava, sorse un riparo attorno a lui. Sì, la morte è ovunque: nelle madrase abbandonate dal suolo disseminato di mattoni smaltati; sulle gradinate delle grandi vasche ormai prosciugate, simili a strane arene; nei cortili deserti. Ma ciò che è sopravvissuto suscita emozioni intense e ineguagliabili. Come dimenticare la sorprendente freschezza di quel boschetto sulla facciata di maiolica di Abdul Aziz! Purezza delle linee, eleganza delle proporzioni, gioia dei colori: quella
raffigurazione compendia in sé tutta la madrasa dal bel nome, il suo cortile aperto e ridente, le due sale dagli arabeschi in porpora e oro, sormontate da soffitti a stalattiti. Di fronte ad Abdul Aziz si innalza la madrasa di Ulug-Beg, assai più austera. Il suo cortile chiuso fra alti muri induce al silenzio e alla meditazione mentre — mistero delle proporzioni classiche — dinanzi all'imponente iwan, incorniciato da una colonna a torciglione, si è colti da un sentimento di venerazione. Questa madrasa, costruita nel XV secolo, cioè duecento anni prima della vacillante Abdul Aziz, è solida e non ha bisogno di alcun puntello. Ma se di stile grandioso si tratta, nulla è paragonabile alla moschea Kalian. Dalla sommità del minareto della Morte, che la affianca, alto cinquantadue metri, venivano gettati per ordine dell'emiro i condannati a morte. Da lassù si svela il suo immenso cortile, la cupola turchese sovrastante il santuario, il frontone centrale dinanzi al padiglione delle abluzioni. Come nelle fiabe, nei giorni di festa veniva posto sul lastricato un enorme tappeto rosso per accogliere tutti i grandi della terra, vestiti di sete e di broccati. Coloro che da qui passarono Poiché il Kalian risale all'XI secolo, le sue mura hanno visto, nel 1220, Gengis Khan salire al potere — egli si era appena impadronito della città alla testa dei suoi centocinquantamila uomini —, proclamarsi il flagello di Allah e ordinare ai dottori di dar da mangiare ai suoi cavalli nelle casse del Corano. Sotto la penombra della triplice arcata a volta sostenuta da grandi pilastri cubici, che circonda il cortile, sento incombere la pesantezza di una cattedrale romana. L'altare, il mihrab, non è nulla più di un rettangolo di disegni smaltati. La luce qui è così bella che cerca soltanto linee pure su cui posarsi, non le servono vetrate e sculture.
Fuori, sulla vasta spianata ai piedi del Mir-Arab, la più grande scuola musulmana di Bukhara, ferve tra mille grida l'incessante vendita all'asta. Da ogni lato del portico, due battitori urlano dalla loro posizione sopraelevata le varie offerte: mantelli, čapan, cuscini, macchine per cucire, scialli, tagli di seta, coltelli, stivali... La moltitudine si muove, minuscola, sotto l'immensa facciata interrotta da due file sovrapposte di nicchie. Vambery, l'intrepido viaggiatore travestito da pellegrino, giunse a Bukhara ai tempi in cui l'emiro metteva a morte ogni europeo che si arrischiasse a entrare nella città. Il capo avvolto da un turbante, il Corano al collo, egli dovette passare attraverso una folla simile a questa, che certo lo implorava di effondere il suo santo spirito, di distribuire la polvere contro le malattie, raccolta a Medina nella dimora del Profeta. In netto contrasto, la grande piazza davanti all'Ark è solitaria; dietro le loro porte monumentali i palazzi dell'emiro ospitano ora l'istituto pedagogico. In mezzo alla piazza si innalza la torre in ferro del serbatoio d'acqua. L'haus, ancora pieno d'acqua, è ai piedi della moschea Bala Khan, ora sede del circolo dei lavoratori. Si tratta di un'immensa galleria tutta in legno scolpito, dal tetto sostenuto da una doppia fila di alte colonne sempre di legno che si assottigliano verso l'alto, quali fusti di palme parallele. Qui giunse, nel 1843, con la Bibbia in mano, un altro europeo, il reverendo Joseph Wolff. «Quelle povere anime ottenebrate toccavano il Libro con devozione», egli riferì in seguito. Il reverendo veniva a cercare notizie di due suoi compatrioti, Stoddart e Conolly, che erano stati accreditati dall'emiro come rappresentanti commerciali. Essi si erano resi colpevoli di alcune mancanze di tatto, e gli intrighi di corte avevano esacerbato il caso, tanto da renderlo fatale. La visita di Wolff era dunque assai rischiosa. «Seduto al balcone del suo palazzo, Sua Maestà, l'emiro Nazir Ullah Bahadur», egli scrisse, «guardava verso di noi che eravamo attorniati da migliaia di persone. Tutti gli occhi erano puntati su di me, per vedere se mi sarei piegato all'etichetta. Quando lo šekaul, il ministro degli Affari esteri, mi toccò la spalla, non solo mi sottomisi tre volte, ma mi inchinai ripetutamente esclamando: “Pace sul Re,
Salamat Padishah!”, finché Sua Maestà scoppiò a ridere e tutti gli altri con lui». Wolff era vestito di nero e di rosso, dato che in occasione delle sue visite all'emiro indossava sempre l'abito da pastore anglosassone. Sua Maestà gli domandò la ragione dei due colori. «Il nero sta a significare che porto il lutto per i miei cari amici, il rosso che sono pronto a versare il sangue per la mia fede». Nazir Ullah era terribile: aveva ucciso cinque fratelli per salire al trono. Era come una belva assetata di sangue e questo perché aveva avuto una nutrice kazaka, e i kazaki, accusati di cibarsi di cadaveri, erano chiamati “mangiatori di uomini”. L'emiro osservò incuriosito: «Posso uccidere tutti i persiani che voglio, ma appena tocca a due inglesi ecco che arriva dalla lontana Londra una missione per informarsi». In quel tempo la città contava 180 000 abitanti e ogni famiglia aveva il proprio schiavo persiano. Quel passato è morto, scomparso del tutto. Oggi solo il cotone è importante e i mullah ostili alla soppressione del čador vengono picchiati dalle donne. Il cotone sarà in grado di resuscitare Bukhara, città declassata?
Verso l'Amu Darja «Scusatemi, dove trovo l'autobus delle sei e mezza?», domando all'impiegato del capolinea. «Non so, il secondo autista non è ancora arrivato». «E l'altro?». «Ah, il primo è già andato via questa notte, senza passeggeri». Che seccatura! Ancora un ritardo. Quando finalmente ci mettiamo in moto, malgrado l'acceleratore a tavoletta, non recuperiamo il tempo perduto e il treno, a Kagan, non aspetterà certo me. Appena lasciamo le strade lastricate, i camion non sollevano più polvere ma un vero mare di nebbia, da cui talora emerge una fila di cammelli spaventati che camminano di sghimbescio, aprendosi come l'onda dinanzi alla prora. Hanno museruole di grossa tela grezza attraverso cui brilla il loro fiato condensato in brina; sul naso si erge un pennacchio di lana: hanno forse bisogno di mirare un punto per avanzare in linea retta? I due sacchi del carico, legati insieme in cima alla groppa, pendono ricolmi, ognuno dal proprio lato, fino a terra, formando enormi accenti circonflessi grigi che avanzano a intervalli regolari, tutti con lo stesso ritmo. Le foglie delle piante di cotone sono avvizzite, scurite dal gelo. Il paesaggio è tinto di giallo e di azzurro: alberi all'orizzonte sotto il tenero cielo. Sui bordi della strada cespugli arrotondati di selci sono incipriati di polvere come le guance di un'attrice che entra in scena. Il treno diretto è ormai perduto e per il prossimo bisogna aspettare a lungo. Dato che la mia meta, Čardžou, sull'Amu Darja, dista non più di centoventi chilometri, mi accontento di un Maksim in partenza. In tutti i vagoni merci sono accampate cenciose famiglie di kazaki, che passano il tempo a spidocchiarsi vicendevolmente.
Un impiegato mi informa che hanno appena attaccato una carrozza passeggeri dove certamente potrò viaggiare meglio. Prendo posto di fronte a un uomo brizzolato, silenzioso finché, attratto dal mio orologio impermeabile, me ne chiede la provenienza. Inizia così la fitta conversazione tipica di due sconosciuti che si lasceranno nel giro di poche ore per non rivedersi mai più. A proposito dei grandi deserti circostanti Khiva ho sentito storie di briganti. Sembra che essi, in groppa a veloci cavalli non ferrati e dai larghi zoccoli adatti a galoppare sulla sabbia, sfuggano regolarmente agli inseguimenti organizzati dai rossi, decimati ormai da quella vita tanto dura. E se si trattasse ancora di Žunaid e dei suoi compagni che, uomini imprendibili tra quei morti spazi, continuano le loro incursioni? Khiva mi attira: città isolata, difficile da raggiungere, dove meno che altrove è riuscito a penetrare il sovietismo. Il direttore delle Antichità di Bukhara, uno studioso che vive in una casa stipata di libri, me ne ha parlato come di una città strana, un tempo capitale mongola e ora soffocata dalla sabbia che inesorabilmente l'invade, ma dove sorgono, specchiandosi sul lago d'Aral, monumenti dell'XI secolo. Avevo allora cercato di sapere con che mezzi era possibile raggiungere Khiva, se esisteva un servizio passeggeri lungo il corso dell'Amu Darja, dato che la linea aerea Čardžou-Khiva era troppo costosa per me. Il direttore mi aveva sconsigliato di navigare verso paesi così selvaggi. In città, all'ufficio della ferrovia, nessuno era in grado di fornirmi la benché minima informazione. Per ben due ore l'impiegato aveva ripetutamente provato a telefonare al capostazione e quando finalmente l'aveva trovato, era risultato che costui non sapeva nulla. Meraviglia della telefonia: la mano gira la manovella della suoneria, ventitré volte in un senso e poi bruscamente capovolge il movimento per compiere altri sette giri dalla parte opposta! Quando l'ufficio non risponde bisogna ricorrere al trucco di soffiare con energia dentro la cornetta... «Sapete come si può arrivare a Khiva?», domando al mio compagno di viaggio. «Con l'aereo si impiegano quattro ore e il volo si effettua due volte alla settimana».
«E altrimenti?». «Non ho idea». «Anche nell'oasi di Khiva hanno piantato molto cotone?». «Nel Khorezm sì, sempre di più». «Per quali motivi, secondo voi, l'indigeno si è deciso a questo tipo di coltura?». «Il contadino è stato convinto con l'offerta di ogni sorta di vantaggi, ma in realtà egli è obbligato a coltivare cotone; se rifiutasse, infatti, non potrebbe acquistare nulla alle cooperative, né grano né manufatti. Inoltre, il più delle volte gli viene persino indicata una porzione di terra che è libero di coltivare come vuole: a orzo, a riso, a mais oppure ad alberi da frutta». Mi piacerebbe sapere se le cooperative sono effettivamente in grado di soddisfare i bisogni della gente. «Quelle più lontane dai grandi centri sono di solito le meglio fornite. È una buona politica. Mia sorella, che si è trasferita a Turtkul, aveva portato con sé da Mosca alcuni pezzi di sapone, frutto di lunghe e pazienti ricerche e pagati cinque rubli. Arrivata qui, si è resa conto che al mercato ne poteva avere quanti ne desiderava, e per soli due rubli. Quello che manca è il grano, e al bazar ha prezzi esorbitanti». Mi informo dove è situata la città che ha appena nominato. «Turtkul è la capitale dei Karakalpachi, sull'Amu Darja». Il treno si ferma al centro di una zona arida. Di fianco alle rotaie vi è una fila di cammelli da cui viene scaricato, e poi pesato, il cotone; al suolo sono ammucchiati all'aria aperta chicchi di grano. Dai vagoni dei kazaki proviene un sordo martellio, che si ripete fino all'estremità del treno. Incuriosita, scopro che le donne pestano il grano in un mortaio per ricavarne farina. I bambini chiedono di scendere a terra; sono coperti da pochi e miserabili stracci e hanno la testa piena di croste. Una donna risistema il suo scialle — unico capo del suo abbigliamento che non sia a brandelli — avvolgendolo a mo' di turbante. Ne scorgo i capelli unti e i lunghi orecchini d'argento. Il piccolo abbarbicato alla sua gonna ha gambe magre dalle ginocchia sporgenti; l'altro figlio, quello che tiene sulla schiena, ha la pelle floscia e avvizzita, tanto è denutrito.
Da dove vengono, dove sono diretti? Čardžou Ora non c'è che deserto intorno a me: assorbite dalla sabbia scompaiono le ultime gocce dello Zeravšan, padre delle oasi di Samarcanda e di Bukhara, a ventiquattro chilometri dall'Amu Darja, l'antico, grande Oxus che nasce nel Pamir. Il deserto avanza di circa un chilometro ogni secolo. La regressione delle acque non è da imputare soltanto all'incremento degli aryk, ma anche ai venti che da occidente spingono le grandi dune modellate a mezza luna, i barkhan. Nel tentativo di frenare tale avanzata, che è di circa cinquantasessanta metri l'anno, è stato piantato un tipo particolare di arbusto. L'acqua di irrigazione serve a innaffiare i campi ma anche, e soprattutto, a lavare la terra in modo da liberarla dei sali che contiene. Il löss trasportato dal vento li renderà poi fertili. Continuare il viaggio in treno fino al Caspio e al Mar Nero mi sembra una sciocchezza. Decido quindi di scendere a Čardžou nella speranza di poter proseguire navigando sull'Amu Darja. Lascio i bagagli al deposito e mi informo presso il capostazione che mi indirizza all'ufficio fluviale. Quando arrivo è già chiuso, benché siano le quattro. Davanti alla porta due donne sono sedute sui loro fagotti. Una si lamenta: «Ne ho abbastanza, domani torno a Samara». «Ma no», dice l'altra, «adesso che siamo qui, il più è fatto. Novo Urghenč non è lontana». «Non è lontana? In battello occorrono otto giorni, sul camion, come sull'idroscivolante, non si trovano posti liberi prima di dieci giorni, l'aereo ha prezzi inaccessibili». «Cerco il porto, sapreste indicarmi dov'è?», domando loro. «A cinque chilometri da qui, laggiù dall'altra parte dell'isola. Potremmo quasi andarci anche noi...». Le lascio dietro di me, lente, indecise. Mi sento come un binario che corre in mezzo a terre desolate. Vedo ancora in lontananza, sotto di me, i kazaki del treno riuniti in piccoli gruppi, tenebrosi
mucchi di uomini accampati. Che ne sarà di loro? Moriranno di fame? E allora mi sorge spontaneo domandarmi se i miglioramenti operati dallo stato non rischino di arrivare troppo tardi per salvare il paese. Ma so bene che in Asia la vita umana conta assai poco... Enormi depositi dove finiscono i binari, vicino a un cantiere che costruisce chiatte metalliche. Una diga interrompe un piccolo canale e io attraverso l'isola paludosa disseminata di rade canne. Al porto L'ufficio portuale è situato su un pontile accostato all'argine. Di fronte, botti di olio, balle di cotone e tre grandi tende moderne dove vivono numerosi russi. Mi informo dal compagno cassiere sull'ora di partenza del prossimo battello. «All'alba, ma è completo, sia le cabine sia il ponte». Gli domando ancora se esiste un servizio sul lago d'Aral. «Vi sono cargo che vanno da Kantucjak al delta dell'Amu, fino ad Aralskoie More. Ma dopo Turtkul e Novo Urghenč troverà soltanto trasporti irregolari e caicchi». Si susseguono senza sosta viaggiatori che chiedono invano un posto per il battello di domani. «Compagno, mia moglie è molto malata, non ha le forze per sopportare un'attesa troppo lunga». «Guarda anche tu, compagno, ecco qui il telegramma di mio padre, moribondo a Turtkul». «Non posso più accettare nessuno. Il battello imbarcherà già centocinquanta passeggeri al posto di novanta, più due tonnellate di merci». Quando è il mio turno, mostro i documenti: «Compagno, sono giornalista e vengo da assai lontano per visitare il tuo paese; non ho tempo da perdere e rinuncio volentieri alla cabina». «D'accordo, trovati qui alle sei di domani mattina, sono io a occuparmi dell'imbarco. Trentacinque rubli fino a Novo Urghenč, posto ponte».
Talvolta essere stranieri è un privilegio... I miei bagagli sono in stazione e ritorno a prenderli. Il deposito è chiuso: l'impiegato è andato a mangiare. Dovrò rassegnarmi ad aspettarlo fino al calar della sera. Adocchio un isvoščik, un vetturino, e gli domando quanto vuole per condurmi al porto. «No, signorina, di notte non mi arrischio laggiù. Da quelle parti è pieno di basmaci e io ci tengo al mio cavallo». I venditori vicini alla stazione non hanno lipioška : offrono, in compenso, meloni verdi, a un rublo la fetta; sono di una bontà indescrivibile, la loro polpa bianca si fonde in bocca, dolce, zuccherina, dissetante, profumata. Si tratta di una qualità pregiata di meloni: i califfi di Baghdad, di Memun e di Vatik li facevano arrivare dalle montagne, ricoperti di neve dentro cassette di stagno ermeticamente chiuse. Il peso delle sacche mi rallenta il passo. All'entrata del deposito un guardiano le tasta per assicurarsi che io non sia un'incendiaria. Mi fermo in un angolo, investita dal forte odore di catrame. Le saldatrici elettriche illuminano le chiatte in costruzione di fantastici sfavillii blu. Mi allontano nella solitaria oscurità, incespicando talora nello spesso fondo sabbioso del suolo. Ho tempo: un'intera notte. Posso concedermi ancora una sosta per riprendere fiato. Che cosa succede? Uno strano rumore, come di qualcuno che sputa. Sento una presenza dietro di me, spero di non essere notata. L'uomo mi vede e arretra di un passo, spaventato. «Compagna, ti stai riposando?», dice con un tono di voce solo in parte rassicurato. «Sì, vado al porto, ma il mio bagaglio è così pesante!». Ridendo della propria paura, si offre di aiutarmi. Raggiungiamo insieme la sponda del fiume, le cui grandi acque scorrono verso settentrione. Il mio accompagnatore è meccanico su una piccola vedetta dove vengo invitata per la notte. Stendo sul pavimento il sacco a pelo e cullata dolcemente ascolto lo sciabordio dell'acqua contro il fasciame della barca: vorrei mettermi a fare capriole tanta è la gioia che mi invade. Ho ritrovato la mia amica di sempre, l'acqua viva, con
il suo odore, il suo movimento, le sue improvvise bizzarrie. Nella minuscola cabina di prua tre uomini bevono il tè. Probabilmente parlano del passato poiché sento nominare luoghi come Rostov, il Baltico... In questo medesimo momento, all'estremità della penisola francese, altri marinai si staranno forse raccontando le loro campagne di Mauritania o d'Islanda. Al risveglio vedo muoversi sopra di me una corda. Mi siedo: a fianco della vedetta scivola un caicco, sulla cui prora sventola una coda di cavallo. È una grande chiatta vuota che un indigeno allontana dall'argine aiutandosi con una pertica, mentre a terra gli uomini dell'equipaggio, tutti con il capo coperto da un enorme colbacco nero, alano controcorrente l'imbarcazione. L'acqua è color caffellatte. Il meccanico vi immerge il bollitore per riempirlo. Sulla sponda c'è gente che si lava le mani e il viso.
La cambusa del “Pellicano” Il Pellicano , battello a pale che condurrà gli “eletti”, è arrivato. Appena salpati si passa sotto l'immenso ponte della ferrovia, costruito trent'anni fa: venticinque archi, ognuno di settanta metri. La corrente del fiume è rapida - otto chilometri all'ora - e la navigazione difficile a causa dell'acqua poco profonda e dei banchi di sabbia in movimento. Vi sono segnali piantati nel canale, continuamente controllati dal barbuto pilota, un tataro biondo che non abbandona mai il suo casseretto. Al momento delle piene, dopo le piogge d'aprile e il disgelo di giugno, questo grande fiume di 1400 chilometri è color cioccolata e ha una larghezza di tre chilometri; raggiunge il livello massimo di profondità, venti metri, in un tratto lungo trecento metri, dove il suo letto si restringe. Già prima della rivoluzione navigavano sulle sue acque imbarcazioni simili a quelle del Volga. Il motore rallenta, lasciano filare l'ancora. Dalla grata della sala macchine si odono colpi di martello. Finalmente si riparte. Un ingegnere di nome Lavrov, che viaggia in compagnia di due studenti con cui ho avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere, mi invita nella sua cabina a dividere con lui una porzione di pollo. Dirige i lavori di Tiuja Mujun dove è in cantiere la costruzione di una diga colossale. Il mio coltello a sei lame, acquistato a Londra, lo riempie d'ammirazione. All'imbrunire il Pellicano compie un mezzo giro, s'infila nella corrente e si ferma arenandosi sull'argine friabile. Prima di andare a coricarsi molti si sgranchiscono le gambe a terra tra le alte canne, con le quali accenderanno un grande fuoco scoppiettante. I passeggeri si sono sistemati per dormire sul ponte, sulla lunga panca che gli corre tutt'intorno, sulla plancia del cassone sopra la ruota a pale. Riesco tuttavia a scovare un posto ancora libero: il tetto della cambusa dei viveri, su cui mi sistemo dominando così quegli infelici ammassati sul ponte.
A terra, la macchia rossa del falò è una ferita sanguinante che freme e si contorce nel corpo della notte. Soltanto i fili dell'antenna radio mi separano dalle stelle, fragile parapetto sul ciglio di un abisso trafitto da mille luccichii. Il Pellicano è già in moto quando il vento fresco mi risveglia. Dalla mia posizione sopraelevata vedo i caicchi risalire la corrente con le loro grandi vele di fortuna quadrate, gonfie di vento; nella parte superiore, vicino al pennone, le intemperie ne hanno annerito la tela ed esse mi evocano le vele della Santa Maria così come sono rappresentate nelle incisioni. Nel momento in cui li incrociamo scorgo le balle di cotone, le venti teiere dell'equipaggio, allineate all'interno dei bordi liberi dell'imbarcazione e i colbacchi appesi come tanti scalpi ai pioli dell'albero. Ritto a prua, il marinaio di vedetta; un enorme remo funge da timone. Di norma, tuttavia, i caicchi si tengono discosti dal canale, per navigare dove la corrente è meno forte. Dal tetto della mia cambusa, se evito di abbassare lo sguardo sul ponte, posso fantasticare di essermi concessa il lusso di noleggiare uno yacht per raggiungere Khiva, il khanato che più a lungo mantenne la propria indipendenza. Sto navigando su quel fiume chiamato Oxus dai Greci, l'Oecus, l'Okus-Su, l'Acqua del Toro. I rumori dell'equipaggio mi arrivano attutiti; lo steward presto mi chiamerà: «Breakfast is ready, milady». Uno steward parla sempre in inglese, qualunque sia il menù. Non voglio pensarci: uova al lardo, pane tostato... Prendo la decisione di installare il mio fornellino nell'angusta cabina del meccanico, così potrò far bollire l'acqua del fiume per il tè. La sua ospitalità mi permette di risparmiare quei due o tre rubli della zuppa, distribuita ai passeggeri dalla cuoca. Sul ponte è proibito cucinare. Vasili Ivanovič è un uomo tranquillo. Ha il volto sempre lucido, come tutti i meccanici della terra, porta un maglione ampio ed è molto affezionato al suo bocchino che non abbandona mai. La sua cabina è pulita. «Che fatica! Da otto mesi costringono questo povero macinino ai “lavori forzati”, non so come regga ancora. In compenso, ci siamo assicurati il premio e abbiamo fatto più viaggi del Komunar. Che folla
c'è a bordo! E pensare che al ritorno non abbiamo mai più di dieci passeggeri!». Un rombo: un idroscivolante sfreccia sull'acqua a settantacinque chilometri all'ora, e in un attimo scompare. Che cosa penseranno quei cammelli lungo la sponda? In sole sei ore sarà a Turtkul, mentre noi — se riusciremo a non incagliarci — ci arriveremo fra sei giorni. Il paesaggio è un insieme di linee: le strisce giallo spento del suolo e della vegetazione, il nastro azzurro del cielo. I banchi di sabbia emergono in dolci rotondità. La sponda occidentale si muta in falesia, lungo la quale si snoda una processione di bardotti, una dozzina o poco più, a distanza uguale l'uno dall'altro, che procedono tutti con lo stesso ritmo, un passo lungo seguito da uno breve. Hanno l'occhio del cavo passato sulla spalla e si protendono con il corpo tanto in avanti da sfiorare quasi il terreno con il braccio libero. Rimorchiano un caicco che naviga lontano dietro di loro, tirandolo per la cima del suo albero. Sullo sfondo il cielo da blu ocra vira al vermiglio: è il tramonto. Una scossa brusca, ci fermiamo. Il battello si è incagliato trasversalmente alla corrente che ride di noi gorgogliando contro lo scafo e facendoci sbandare. L'acqua è profonda appena cinquanta centimetri, ma le pertiche su cui ciascuno fa leva sono manovrate in modo tale da liberarci, permettendoci di raggiungere la riva. Immagino che soltanto le acque dello Stige possano essere di un simile, fluido, cupo spessore. «Questa notte dobbiamo stare allerta», dice Vasili, «si aggirano basmaci in questa zona. Hanno già assalito e svaligiato l'autobus di servizio e rapito quattro donne russe». Ah, sarei in prima fila se mai mi capitasse l'avventura di assistere a un attacco! Ormai l'alba tinge il cielo di grigio e non è successo nulla. Dinanzi a me vedo soltanto la striscia di terra nera delimitata dai pallori del cielo e del fiume. Più avanziamo e più il freddo diventa pungente; devo infilare anche la testa e le mani dentro il sacco a pelo. Ora l'orizzonte dispiega a est lunghe striature dei colori dell'arcobaleno in un continuo gioco di luci, e finalmente la superficie
violetta della terra si circonda d'oro: oro del cielo, oro dell'acqua. Alcuni cammelli neri passano ai piedi delle nitide dune appena increspate, zebrature su una pelle di daino. Di fronte, sul suolo piatto dell'argine, spuntano erbe fitte come peli di un'immensa spazzola fulva. Avvistiamo alcune jurte, funghi bruni in mezzo alla boscaglia, e sbarchiamo nella speranza di rifornirci di cibo. E una corsa affannosa, ognuno vuole arrivare per primo. Vendono meloni a quattro o cinque rubli; le donne sono drappeggiate di teli di cotone rosso che avvolgono le loro alte acconciature a forma di tiara. Un gigantesco turkmeno, con stivali di feltro e copricapo nero di montone, squarta una pecora e infilza i pezzi di carne su uno spiedo conficcato in terra. Incrociamo un grande rimorchiatore e due chiatte. Guardo le scie tracciate dalla poppa del battello sulla superficie dell'acqua che assume i colori di un taffettà cangiante dal beige al blu, talora gualcito dai gorghi. Acqua e cielo si confondono dinanzi a noi che navighiamo verso una meta lontana in fondo all'orizzonte. Scalo a Dargan-Ata; mi dicono che a quattro chilometri da qui, in un luogo imprecisato, si trova un borgo abitato dai russi. Lavrov e io lo raggiungiamo a bordo di un caicco a motore che risale il fiume. Siamo invitati a mangiare una coppia di fagiani da un idrografo di ritorno da Tiuja Mujun, il quale ci comunica la cattiva notizia dell'assassinio di un uomo a opera dei basmaci. È avvenuto un fatto analogo anche nel sovhoz delle pecore, quell'edificio bianco sull'altra sponda del fiume. Durante l'inverno trascorso nella Sirte il nostro ospite ha potuto constatare che molti kirghizi emigravano verso la Cina. Sul Pellicano devo privarmi di parte del mio chinino per offrirlo a uno degli studenti che ne è sprovvisto e ha la febbre. Il pilota, venuto a saperlo, mi chiede di darne anche a lui in cambio di pane. Accetto volentieri, dato che non ne assaggio più da quando ho lasciato Bukhara.
Caicchi Mi risveglio al grido di: «Un pesce!». Sulla spiaggia hanno alato una rete dove si dibatte un enorme siluro, un animale verde e bianco dalla testa arrotondata, chiamato som. In mezzo al fiume si è incagliato un caicco; gli uomini dell'equipaggio, scesi in acqua, spingono con la schiena contro il fianco dell'imbarcazione. Passa un altro caicco i cui marinai remano in piedi rivolti verso poppa, le pale sono semplici assi inchiodate su pertiche. Da lontano i loro copricapi, i čugurma, appaiono come nere punte di spillo. Ma perlopiù si tratta di imbarcazioni a vela: talora ne scorgo una ventina che navigano tutte insieme: trapezi di ogni dimensione disposti in fila sulla liquida strada. Quando i meandri del fiume si accentuano sembra quasi che, smarriti, essi vaghino sulle terre basse. Il caicco si accosta all'argine per issare la vela che viene prima distesa al suolo. Gli uomini salgono sull'albero e si appendono a grappolo sotto la drizza; il pennone si alza con il suo ampio telo spiegato. Se il vento forte spira costante i caicchi possono risalire la corrente quasi alla medesima velocità del Pellicano . Durante gli scali i marinai uzbeki vivono nella loro postazione di prua, a cielo aperto. La scena, semplice e al contempo grandiosa, evoca un passato leggendario da Mille e una notte. A partire dal dritto di prua, la cui cima è ornata, a protezione dalla malasorte, di una coda di cavallo, la parte prodiera del battello è costruita su due altezze che scendono a mo' di gradini verso il grande forno rotondo di terracotta. Accovacciati a semicerchio sulla plancia, addossati ai fianchi dell'imbarcazione, alcuni uomini avvolti nei loro mantelli imbottiti, con il capo coperto dall'enorme čugurma dai lunghi e morbidi riccioli, stringono tutti in mano una teiera. Il cuoco è indaffarato davanti al suo forno a forma di arnia: in alto, nell'ampia camera di ghisa, cuociono le frittelle di lapioška; dall'orifizio in basso spuntano alcuni rami. L'uomo, armato di pinze enormi, estrae dalle braci un orciolo di rame e, reggendolo per il collo, lo inclina sulle teiere che gli vengono
porte via via. Immobili e silenziosi, dignitosi come califfi, tutti aspettano il proprio turno con la tazza in mano, sul cui fondo si deposita una sabbia scura come cacao in polvere. Vasili mi cede la metà delle sue copiose razioni di zuppa con carne, di pasta o di patate. Vorrà forse farsi perdonare di avermi perduto la pipa, dono di un grande navigatore che ora è all'altro capo del mondo. Ne sono assai rattristata e gli prometto sei pipe nuove se ritroverà la mia. «Prima di andare a Dorgan-Ata me la sono infilata in tasca; ma doveva esserci un buco, così è scivolata via...». Gliela prestavo per sdebitarmi in qualche modo della sua ospitalità. Ci avviciniamo alla gola di Tiuja Mujun. Lavrov mi ha invitato a fermarmi là con lui qualche giorno per vedere i lavori che sono in corso in previsione dell'irrigazione di 30000 ettari di terreno; avrei inoltre l'opportunità di visitare nei dintorni alcuni accampamenti turkmeni. Si è anche offerto di procurarmi pane e farina, proposta che non è da disprezzare. Così quando Lavrov sbarca mi accingo subito a seguirlo, ma non appena sono sulla passerella mi sento dire: «No, è meglio che voi non veniate». Che tipo stravagante! Avrà forse cambiato idea quando ha capito che non gli avrei venduto a nessun prezzo il mio coltello? Partita alla scoperta dell'isola Santa dove abbiamo fatto scalo, schivati i falò, i canti e le fisarmoniche dei passeggeri, sono giunta a un čapanno di canne nascosto tra il fogliame. Alla luce di una lampada a petrolio mi è apparso un gruppo di turkmeni, uomini dallo sguardo fiero, impressionanti sotto il loro copricapo nero. Al mio arrivo tacciono. Saranno i quaranta ladroni di Alì Babà o sciamani che discutono sulle loro magie? Intuisco che questo non è posto per me, sicché decido di ritornare sul tetto della mia cambusa. Una donna, proveniente dalle sue vacanze nel Caucaso, e che gentilmente aveva diviso il suo pane con me, incontrandomi esclama: «Questa notte mi hanno rubato la mia porzione! Ma se vi fermate a Turtkul potrete comprarne quanto vorrete: là si trova di tutto».
Parole sorprendenti, che sento per la prima volta, e che mi spiegano finalmente il perché della corsa precipitosa dei passeggeri verso la terra dei Karakalpachi. Da queste parti si trova un'altura a forma di cono, legata a Gengis Khan. La leggenda dice che attraversando la regione ognuno dei suoi uomini doveva versare nel medesimo luogo la terra contenuta in un cappello, e parimenti al ritorno dalle conquiste: in tal modo l'“imperatore inflessibile”, confrontando i due cumuli, poteva valutare quanti guerrieri aveva perduto.
Turtkul Due tende in un campo di cotone: e il porto. Non è possibile costruire nulla poiché l'acqua erode la falesia provocando smottamenti di sabbia, accompagnati da sordi boati. Un'arba mi lascia a due chilometri di distanza, sulla piazza principale di Turtkul, dinanzi alla sede del governo. Spero che là qualcuno mi indichi dove alloggiare. «Stiamo allestendo una base di turismo, le sovvenzioni sono già state approvate». Chiedo all'impiegato informazioni anche circa la possibilità di unirmi a una carovana diretta ad Astrahan o a Orenburg. «Ma e pura follia! Da Kungrad o da Tašauz dovete preventivare dai trenta ai quaranta giorni per raggiungere Orenburg, e per di più al gelo. Voi non avete idea dei disagi di un viaggio a dorso di cammello con una temperatura sotto i 30 gradi!». In un altro ufficio, sempre situato nella medesima grande piazza, vengo accolta con grande entusiasmo dal presidente della Società del Turismo proletario, un giovane karakalpaco dai folti baffi: «Voi siete la nostra prima turista! Una francese! Anzi, una parigina!». «Che cosa significa “turista”?», gli domanda il segretario. «Si tratta di... Avete i documenti? Tu, scrivi in quel quaderno: Ella... No, stai attento, non lì: in quello spazio bisogna segnare le destinazioni dei turisti». Il segretario mi accompagna alla “casa del Dekkan”, la locanda del contadino. Il padrone è fuori; la giovane figlia mi comunica che non vi è più un metro quadrato disponibile. In effetti i dormitori sono sovraffollati. Crisi degli alloggi. Turtkul, un tempo Petro-Aleksandrovsk, conta 20 000 abitanti. Ritorno infuriata all'ufficio: «Voi vi burlate dei turisti! Non avete previsto nessuna sistemazione per loro! Perché mi fate perdere
inutilmente tempo prezioso? Firmatemi i buoni per pane, zucchero, tè, olio, riso, e ripartirò immediatamente». Un impiegato russo, calmo e determinato, interviene: «Venite con me, ci sarà pure un posto per voi a casa mia». Quando arriviamo ci accoglie la moglie, dopo poco rientra la figlia da scuola; la zuppa è pronta. Per dieci giorni sarò ospite di questa incantevole famiglia. La donna tosta ogni giorno fette di pane per poi mandarle in una cassetta al figlio, studente a Taškent. Ho deciso di fermarmi così a lungo per avere il tempo di sviluppare le mie delicate pellicole, nel timore che finiscano per deformarsi in sei mesi di continue variazioni di temperatura. Ma fortunatamente scopro di essermi sbagliata. Avendo trovato del rivelatore presso un architetto appassionato di fotografia, passo le mie notti nella Casa del Popolo, quando la camera oscura è disponibile. Manca l'acqua corrente per lavare le pellicole: gli aryk sono a secco in questa stagione. Devo andare in quei pozzi dove vi è ancora acqua dell'Amu Darja, eccellente se si lascia depositare il limo. Quella degli altri pozzi, limpida come il cristallo, è salmastra, quindi non adatta alle mie necessità. Per fortuna la luna illumina la cavità dai bordi scivolosi di argilla bagnata. Ma subito arriva il freddo, portato dal grande vento del KyzylKum, il deserto delle Sabbie Rosse, che strappa le foglie dagli alberi. La gente si imbacucca fino alle orecchie. Ogni quarto d'ora provo a riscaldarmi con energici esercizi di ginnastica. Ed è così che, presa dal nervosismo per il terrore di sciupare i negativi, danneggio irrimediabilmente il rollino della mia ascensione sul Sari-Tor, perdendo quelle istantanee scattate a prezzo di eroici sforzi di volontà. Raramente la mia dabbenaggine mi è pesata tanto. Sovietismo Per i grandi festeggiamenti della rivoluzione e stata innalzata una pedana sulla piazza; su un arco di trionfo il profilo del dirigente
Vorosilof sovrasta la scritta: «Pronti al lavoro e alla difesa». Inalberando stendardi e insegne giungono numerose delegazioni di scuole, di uffici, di kolchoz. Tra la moltitudine dei neri mantelli invernali risalta un curioso gruppo di donne indigene con il capo avvolto da veli bianchi. Il momento culminante della giornata sarà la sfilata di duecentocinquanta arba e di millecinquecento cammelli carichi del cotone che verrà scambiato con il grano. Il presidente della repubblica è un karakalpaco intelligente; il suo discorso, amplificato dall'altoparlante, è breve, incisivo: «La socializzazione è appena avviata, ma i risultati sono già notevoli; occorre perseverare, soltanto così si potrà vincere l'ignoranza generale». Si mescolano tra la folla russi e “nazionali”, ed è assai difficile indovinare quali pensieri si celino dietro le fessure degli occhi di questi ultimi. Le bianche barbe fluttuanti degli anziani contrastano con i visi glabri dei giovani, compunti e puliti. I copricapi meriterebbero un attenzione particolare, dal topa ben calzato, sorta di zuccotto a coste, all'enorme čugurma che con i suoi boccoli pendenti ricorda un salice piangente. Si vedono kabardinka di astrahan grigio su fondo di velluto e papakha sistemati a mo' di grossi cavoli; e ancora, su certi visi dalla pelle scura, una sorta di tulipano rovesciato che si apre in tre petali di folta pelliccia: le due mentoniere rialzate e la visiera piegata all'indietro. La distesa di sabbia inizia appena oltre le porte della città, ai piedi delle mura merlate. Un cammello sosta immobile presso la jurta dove ho avuto la fortuna di essere invitata a bere il tè. Il samovar luccica al sole; la donna porta anelli al pollice e all'indice, dita con le quali regge la tazza. Il giallo dello scialle che la avvolge contrasta con gli abiti e l'acconciatura assolutamente bianchi. Il volto pieno dai lineamenti perfetti ha la levigatezza di una prugna polposa. Lo zuccotto del figlio è di broccato dorato ed è ornato di piccoli sonagli e di un ciuffo di piume. Il bimbo ha paura, riesco a
fotografarlo soltanto quando il padre barbuto lo tiene fermo con la forza. Al fondo di questa bella jurta, tutta foderata di košmu ricamati, risplendono tre bauli ricoperti di lamine di ottone. Sopraggiunge un giovane parente, comunista e studente all'istituto pedagogico. È molto fiero di constatare, leggendo il marchio di fabbrica del mio orologio, che entrambi usiamo il medesimo alfabeto. Dopo aver preso le tessere del pane assegnate alla famiglia si allontana. Riunione dei karakalpachi Interrompo talora lo sviluppo delle fotografie per vedere che cosa succede nella grande sala vicina. È in corso una riunione dei sindacati, a cui partecipano i giovani “nazionali” della città. Durante i vari interventi gli astanti discutono fra loro ad alta voce, e altrettanto rumoroso è il continuo andirivieni della gente che arriva o che se ne va. Alla fine di ogni intervento - che è sempre tradotto — o quando viene pronunciato il nome di Stalin, tutti cantano qualche strofa dell'Internazionale. Il mio vicino impedisce a un karakalpaco di fumare, ma davanti a noi un russo accende impunemente una sigaretta arrotolata in carta di giornale. Chi ha concluso il proprio exploit oratorio torna a sedersi, celando a malapena la propria soddisfazione. Il fazzoletto rosso dei comunisti dona moltissimo ai piccoli karakalpachi dai tratti giapponesi. Quelli che vengono dal deserto Al mercato è appesa ai ganci dei macellai una grande quantità di carne che costa cinque rubli al chilo; con otto rubli è possibile acquistare una libbra di burro, con uno tre lipioška e con trenta
copechi le patate. Ecco mucchi di grosse cipolle bianche, di meloni, di pomodori, di spezie: Turtkul è veramente il paese della cuccagna. Le fritture di pesce mandano odori appetitosi e invitanti; il rosticciere di šašlik, protetto da un ampio grembiule con le maniche, è circondato da clienti; l'aria è irritante e quasi manca il fiato per la polvere di tabacco verde che si setaccia ovunque. Tutti lavorano seduti sui talloni. Alcuni uomini, ben allineati in fila, aspettano davanti all'emporio della cooperativa per comprare calosce e fiammiferi. La teoria nera dei loro berretti è interrotta dal feltro a punta bianco di un kirghizo dagli occhi triangolari. Le donne indigene inalberano turbanti altissimi; talora hanno la narice trafitta da una piccola margherita d'argento. Si salutano ponendosi prima la mano davanti alla bocca e poi vicendevolmente sulla schiena l'una dell'altra. I vecchi camminano tenendosi per mano. Nella sua bottega il venditore di lipioška ha focacce esposte a centinaia, ammonticchiate accanto a sé. Il forno, dalla bocca ad altezza d'uomo, occupa un terzo della stanza buia. Un giovane persiano dagli occhi neri vi infila con gesto rapido il braccio fino alla spalla per sistemare la focaccia contro la parete; porta una tiara in stoffa e si protegge il viso dal calore del fuoco con un fazzoletto passato sotto il mento e legato sulla testa. Il padrone dagli occhi gialli è un tagiko, mentre gli altri lavoranti sono uzbeki. Nel retrobottega, su un treppiede poggiato a terra, cuociono a fuoco lento alcune cipolle, coperte da un bel piatto di ceramica verde pavone. Dall'altra parte del mercato della legna — ove sostano i cammelli dalle gambe a X carichi di contorte radici di saxaul - lo spettacolo più sorprendente: innumerevoli arba con le loro ruote gigantesche dai raggi piatti, e poi asini, cavalli, cammelli, tutti posteggiati in quell'immenso garage asiatico. Potente e rauco lamento dei cammelli, cui seviziano le narici tirando la corda appesa al naso per costringerli ad accovacciarsi! I piccoli, dal tenero manto vellutato, con le gobbe appena segnate da due ciuffi di pelo scuro, poppano tranquilli; cammellieri e vetturini, seduti sui talloni, conversano o mercanteggiano vicino ai loro sacchi
di semi; le grandi ruote delle arba si rispecchiano nitide nell'acqua immobile di un lago di liquami; padri di famiglia passano reggendo un bimbo sulle mani incrociate dietro alla schiena... Ed ecco, splendidi e isolati, due re del deserto che si mostrano a una corte di ammiratori, pestando il suolo con le zampe incatenate: da entrambi i musi trabocca una schiuma compatta, come una sorta di panna montata. La testa slanciata del dromedario è ornata da due fieri pennacchi di lana, uno ben eretto sul naso non forato, l'altro sulla fronte; dal caschetto si dipartono quattro file di pompon digradanti che pendono lungo il collo. Sopra alle ginocchia ha delle sonagliere e al collo, a mo' di ciondolo, una campanella. L'altra bestia è un cammello enorme, massiccio, dal collo possente che rovescia all'indietro alla maniera dei cigni; gorgoglia rumorosamente lanciando al cielo getti di schiuma che gli ricadono sul gozzo, fiocchi bianchi di bava spumeggiante. Ambedue hanno un alto pennacchio issato al fondo della sella ricoperta da un bel tappeto. Dalle cinghie che avvolgono il ventre pendono altri pompon. Lontano, sui freddi corsi deserti soffia il vento: lugubre e desolata periferia, defraudata anche di quella vita che anima le vecchie stradine, altrettanto sporche ma calde di umanità... Arrestata Ho telefonato due volte al porto dove è previsto l'arrivo del Komunar diretto a Kopalik, il porto di Novo-Urghenč, tappa obbligata per raggiungere Khiva. Sono ansiosa di partire al più presto: se la temperatura continua a scendere il lago d'Aral non tarderà a gelare e di conseguenza sarà giocoforza interromperne la navigazione. Mi reco al garage statale provvista di un foglio che mi dà diritto a essere condotta al porto. L'autista non sente ragioni, manca una firma. Sono furibonda, il tempo stringe! Ritorno al Sovnarkom per risolvere la questione con il segretario. L'uomo, di norma inappuntabile come un inglese, è stremato e ha la barba lunga di tre giorni; che cosa mai gli avranno
fatto fare? Quando finalmente, chiarito l'equivoco, raggiungo la sponda del fiume, è ormai troppo tardi. «Non vi preoccupate», mi dice il cassiere, «è possibile che da un momento all'altro parta una vedetta». Decido quindi di fermarmi sul porto in modo da esserne subito avvertita. Alcune famiglie sono accampate sotto la tenda dei passeggeri. Il freddo costringe tutti a raggomitolarsi sotto le coperte. Nel campo strappo steli di sorgo per isolarmi da terra. Mi preparo il tè; quando mi accingo a imburrare una fetta di pane, la mia vicina tende la mano per chiedermi un pezzetto di burro che scioglie nel palmo e poi spalma sui capelli, brillantina primitiva che, a quanto sembra, è utile contro i pidocchi. Il suo piccolo piange. Incessanti grida infantili, sempre identiche, come se ogni volta fosse sempre lo stesso bambino a lamentarsi! Per indurlo a tacere, la madre gli dà qualche scappellotto, facendo ancora più chiasso di lui. A tutti gocciola il naso. Vicino ai grandi caicchi ormeggiati i marinai hanno formato con la vela una tenda conica sostenuta dai remi; mi offrono del tè e posso finalmente riscaldarmi al calore del loro fuoco. Un'anziana donna dal turbante avvolto in modo elaborato siede accanto a me: un vapore denso, simile a una piccola nuvola, si solleva dalla sua tazza. Gli uomini hanno l'aria di briganti bambini. La notte è glaciale. Il vento scuote con colpi secchi la tela della grande tenda. Intorpidita dal freddo mi alzo tardi. Vedendomi entrare in ufficio, l'impiegato esclama: «Mi sono dimenticato di voi: una piccola imbarcazione a motore è appena partita. Ma c'è qui Danieletz, il capitano del porto di Kopalik, che salperà a momenti». Nel frattempo un'auto si è fermata. Ne scende un uomo che dice: «Siete voi la straniera francese? Dovete seguirmi immediatamente». Non ho neanche il tempo di protestare che siamo già in moto. «Ho le mie cose sparse ovunque... Gli utensili da cucina... e soprattutto la macchina fotografica...». «Telefonerò al porto perché radunino tutto».
Di che cosa sono colpevole? Se quell'uomo si preoccupa dei miei bagagli significa che intendono trattenermi a lungo. Paura... Se hanno deciso di dare prova di zelo, non sarà loro difficile trovare un pretesto per accusarmi: le foto che non avrei dovuto scattare, quelle dei basmaci o delle vedute aeree. E tutte le mie carte rimaste laggiù! Avrò almeno distrutto gli appunti sui miei incontri con i confinati? Sono ancora troppo giovane, ho sbagliato per inesperienza. Finalmente qualcuno mi spiega: «Perché non vi siete presentata all'ufficio competente?». «Ma io dipendo dalla S. T. P., dove sono stata registrata. Inoltre ho frequentato questo edificio praticamente tutti i giorni e non capisco per quale motivo non mi sia stato mai chiesto nulla!». «Pensavamo che avreste trascorso qui l'inverno. Il vostro passaporto è in regola, vi ricondurremo al porto».
Khiva Una barca a motore scende infine il fiume e, prima di imboccare un canale laterale, deposita Danieletz e me sull'argine, circa trenta chilometri a valle. Aspettiamo. Passa un minuscolo caicco, stipato di gente e mercanzie. Danieletz, il tipo di marinaio ben piantato, lo chiama imperiosamente. Vi saliamo e filiamo a tutta velocità trasportati dalla corrente. «Con un po' di fortuna, se il freddo s'attenua, potrete arrivare a Kantucjak per tempo. Dal 22 o 24 novembre sul lago d'Aral la navigazione viene sempre interrotta. Tra cinque giorni il Lastočka dovrebbe scendere l'Amu: questa è la vostra sola possibilità». A Kopalik, immenso deposito a cielo aperto di sacchi e di fagotti, affitto un'arba che mi porta per dieci rubli a Novo-Urghenč. Le piste solcano un deserto sempre uguale e occorrono quasi tre ore per coprire una distanza di dodici chilometri. Mi faccio condurre presso il ricevitore postale, un uzbeko incontrato sul Pellicano che si era offerto di ospitarmi. Sono contenta di poter evitare, grazie a lui, il caravanserraglio dove bisogna tenere i propri beni sotto stretta sorveglianza. A casa sua si vive secondo gli usi uzbeki, cioè mangiando e dormendo per terra. La giovane moglie ha morbide trecce, pantaloni lunghi infilati in stivaletti; è timida, non conosce il russo e i suoi bimbi non si staccano mai da lei. Mangia dopo il marito e versa sul pavimento il tè rimasto al fondo delle pjala. La grossa stufa scoppietta bruciando il panello dei semi di cotone, compresso in sottili tavolette che si rompono come mattoni. L'uomo, padrone e signore, dorme sul letto. L'indomani l'arba della posta parte per Khiva e io mi isso sui grandi sacchi di cuoio pieni di corrispondenza, pronta a percorrere trentacinque chilometri in quella strana posizione. Appena fuori dall'importante centro di Novo-Urghenč si distende una campagna grigia e monotona, ingiallita dal löss.
Le fattorie hanno muri simili a quelli che si vedono in Africa, con grandi motivi geometrici incisi nel pisé (Impasto di sassi, paglia e fango), che imitano, a intervalli regolari, larghi pilastri rotondi. Gli aryk sono a secco. Molte squadre sono al lavoro per ripulirne il letto. Lì accanto giacciono smontati i čighir, macchine simili alle norie per sollevare l'acqua mediante una ruota munita di una serie di tazze. Quando sono in funzione, l'asino gira intorno alla piattaforma rotonda spingendo il braccio che fa salire quattrocento litri d'acqua al minuto. La grande ruota e i suoi orci rotti ora sono sparsi per terra. Quando due arba si incontrano sulla strada dai solchi profondi è impossibile indovinare quale delle due cederà il passo. Talora esse si bloccano all'ultimo istante, una di fronte all'altra, e il tiro che ha più fretta devia verso la scarpata. Ci fermiamo per permettere al cavallo di bere; la terra intorno all'imboccatura del pozzo è coperta da una dura crosta di ghiaccio. Un karragaš secolare protegge un mazar, il luogo di sepoltura; tre piccoli mausoléi si innalzano sulle tombe comuni, le loro cupole sono sormontate da una lucente palla verde, simile al pomo dell'albero maestro. A metà giornata facciamo una sosta sul ciglio della strada per prendere il tè. I carrettieri si accovacciano silenziosi intorno al focolare della čajkana. Melanconia di un arido autunno sotto un sole bianco. Nei campi stanno raccogliendo il cotone, gli steli delle piante sono secchi e senza foglie. Un grande forno di mattoni che fuma, i piloni del T.S.F., delle mura: ecco Khiva. Nel cortile dell'ufficio postale mi rivolgo al giovane capo, un russo, per domandargli dove abita il conservatore del museo, che spero acconsenta a ospitarmi per due giorni. «La sua casa è piuttosto lontana. Inoltre è un uzbeko e non parla il russo. Forse vi converrebbe fermarvi da me...». Accetto volentieri la sua proposta. Conoscerò più tardi sua moglie, una donna dal carattere allegro e scherzoso, che si occupa del loro bambino e serve con grazia il tè. Entra un impiegato delle poste, un tedesco con la barba a punta e gli occhi azzurri. Accorgendosi del mio stupore, mi spiega: «Siamo una colonia tedesca insediata ad Ak-Mecet da cinquant'anni e originaria della Repubblica del Volga. Ho un fratello ricoverato all'ospedale, quel grande edificio di fronte, per un'itterizia; anche sua
figlia è malata, ha la polmonite. Se voleste fotografarla potremmo avere un ricordo di lei nel caso non guarisse. Mio fratello, che è contabile, ha seguito studi di teologia e talvolta presiede alle nostre riunioni di preghiera: siamo mennoniti». Attraversiamo la strada. Nel cortile dell'ospedale la cooperativa ha aperto un chiosco per il personale. Dopo due controlli assai severi accediamo a un'anticamera dove posiamo i cappotti per indossare un camice bianco. Il signor Quiring è a letto, ha i baffi e un volto affilato; la fronte alta ed emaciata mi ricorda quella di Romain Rolland. La bimba, dal piccolo ovale incorniciato di soffici capelli biondi, è sofferente, risponde a fatica. La madre, una donna vivace, cura i due malati; I suoi denti risplendono candidi e gli occhi sono grigi e gravi, la fronte ampia è ornata da un diadema di spesse trecce bionde. «Noi tedeschi non possiamo certo lamentarci, abbiamo buoni impieghi e guadagnamo bene. Dovreste visitare la nostra colonia a quattordici chilometri da qui». «Mami, quando vedremo le foto?». «Bisogna aspettare che la signorina abbia concluso il suo viaggio, deve andare lontano, ancora più lontano di Berlino». La donna veste la figlia, le annoda i capelli con una garza a guisa di nastro. Mi preparo a scattare e finalmente la piccola sorride al mio invito di mostrarmi quanto bene vuole alla sua mamma; le passa le braccia attorno al collo stringendola forte. Alla scoperta Per evitare una recidiva di arresto mi annuncio alla Ghepeu prima di avventurarmi alla scoperta di Khiva, la città degli usignoli. Nella cinta di Nurulla-Bai, riservata ai personaggi importanti, si innalza tra imponenti filari di neri karragaš la dimora relativamente moderna dell'ultimo khan, le cui buie sale coperte di legno dipinto sono ora adibite a biblioteca pubblica, su un piedistallo, splende il marmo candido di un busto di Lenin, di fronte troneggia un altoparlante fissato a una colonna.
L'harem, fortezza merlata, è circondato da mura con torrioni. Un tempo, nei suoi innumerevoli cortili, dove eleganti pilastri sostengono alti balconi e logge, si annoiavano nell'attesa le ottanta mogli del khan. L'edificio è attualmente la sede dell'istituto pedagogico. Mi domando quale casa abbia ospitato il capitano Burnaby, che era oggetto di grande curiosità da parte di tutta la popolazione, stupita della sua stravagante abitudine di mangiare con forchetta e coltello. Questo succedeva a metà del secolo scorso. Sembra che un abitante di Khiva, tentando di imitarlo, si fosse trafitto la guancia con la forchetta non sapendo come maneggiarla! Del resto, perché meravigliarsi quando persino noi conosciamo l'uso delle posate soltanto dal tempo di Luigi XIV? Mi aggiro senza meta per le stradine tortuose e segrete. Come a Bukhara, anche qui prevale l'impressione di abbandono, ma con qualcosa di più selvaggio, di più chiuso. Si para dinanzi a me l'enorme minareto incompiuto di Madamin Khan, cono mozzato dove brillano piastrelle di maiolica disposte a strisce incrociate e sovrapposte. L'edificio a fianco è una famosa madrasa, la cui visita, mi dicono, potrebbe interessarmi moltissimo. Ma sopra la porta, ben sorvegliata, leggo “Domzak”: è la prigione. Parlamento invano. Madamin Khan, nemico dello zar, fu tradito da un turcomanno e morì pugnalato nel 1855. Portarono la sua testa allo scià con tutti gli onori riservati agli Achemenidi, i primi Samanidi. La schiavitù fu abolita nel 1873. Si calcola che in quegli anni vi erano in tutto il territorio del Khorezm — o più esattamente Khorzem, da khor, “spregevole”, e da zem, “tribù” — circa 50 000 schiavi di guerra su una popolazione di 5 - 600 000 abitanti. Al mercato uno schiavo russo, di buona costituzione, valeva ottanta tilla, circa sedici franchi di allora, di schiavi russi ve ne erano 5000. Le donne persiane erano preferite a quelle russe. Nel cortile severo di una madrasa lavorano i tintori: le loro tinozze squadrate sono ricavate da un grande pezzo di cuoio. Mi fermo incuriosita nel sentire un sordo ronzio; attraverso la feritoia di una casa scorgo un asinello dalla groppa appuntita che, con gli occhi bendati, gira in una stanza trascinando la macina per la farina.
Salgo in compagnia di tre studenti sulla sommità di un minareto dalla forma di un immenso camino, dove mi appare a ovest, oltre l'oasi, il deserto di Kara-Kum, le Sabbie Nere. Vista da questo lato, la città ha l'aspetto di una scacchiera: i bianchi riquadri dei tetti sono intervallati da quelli scuri dei cortiletti. A nord invece si innalzano moschee e madrase. Ai miei piedi brillano i mattoni d'oro del mausoleo di Paluan Ata, “il Potente”, che fu un campione di lotta ma anche un erudito, grazie ai lunghi anni di studio passati in India. Davanti all'iwan d'ingresso si apre un cortile di forma regolare, contornato da celle; al suo interno vi è un pozzo, un albero e un grosso gatto. Sui tetti circostanti, dove cresce persino un albero coperto di stracci votivi, sono ammassate alla rinfusa, tra le aste chiamate bunčuk, tante tombe, simili a ceppi imbiancati dalla polvere. Ancora una madrasa, questa volta occupata da un artel di tessitrici armene, riconoscibili dallo scialle posato sul copricapo piatto. Che pena! Con le dita rigide e violacee per il freddo intenso devono stare sedute tutto il giorno davanti al loro telaio, fissato sopra di una cavità scavata nel suolo di ogni cella. Le pareti rimandano gli echi dei colpi di battente; una donna sospira e poi riprende il suo canto. Mi allontano. La costruzione più sorprendente è senza dubbio il Dash Hauli, la “casa di pietra” un tempo harem del khan. In due delle sue sale è stato allestito un museo dove sono stipati oggetti di ogni sorta lasciati dai principi. Anche se qui non si trova la grande rana di ceramica ornata di un cappello a cilindro, come a Shir Budum, il palazzo d'estate dell'emiro di Bukhara (il donatore doveva certo essere un gran burlone!), vi è in compenso un vasto campionario di armi, abiti, ritratti, strumenti di tortura. Le pareti del cortile principale, con il pozzo al centro, sono coperte da pannelli smaltati; al primo piano, otto verande di legno scolpito. Attraverso un corridoio a volta, dove si avverte l'odore della legna che un boscaiolo sta tagliando in una delle stanze, si giunge al primo cortile che presenta sulle tre facciate una serie di ampie logge sopraelevate, anch'esse di legno scolpito e dipinto. La quarta parete è un immenso peristilio alto due piani, dal tetto a cassettoni affrescati, sostenuto da sottili colonne di legno, gonfie alla base.
Tutte le pareti sono ricoperte di motivi smaltati. L'insieme è di un'opulenza e di una ricercatezza tali da rendere questo luogo indimenticabile. Ho di nuovo l'illusione di essere capitata in un palazzo delle Mille e una notte, tale è il tripudio di decorazioni che si offre al mio sguardo. Al centro di questo cortile di quindici metri di lato si innalza una pedana circolare a cui si accede tramite quattro gradini: qui viene allestita la jurta riservata agli ospiti di riguardo. Anche nel Medioevo gli uzbeki mantenevano l'uso della jurta nelle città che costruivano. Segue un secondo cortile, altrettanto straordinario. Mi fermo, immobile e commossa dinanzi a quell'assoluto splendore. Immaginate di tappezzare un palazzo di classici broccati stile Impero, completate l'opera con ornamenti assortiti e avrete solo una pallida idea dell'incanto emanato dai muri di questi cortili deserti, dove il silenzio è interrotto soltanto dal tubare di una colomba. Mi ritornano alla mente le parole di René Grousset: «... per il mongolo nomade il lusso consisteva nell'applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione».
I tedeschi di Ak-Mecet In sella a una bicicletta provo l'ebbrezza della velocità pedalando nelle vie di Khiva, sfioro i rumorosi calderai, metto in fuga i bambini, mi allontano dal suk coperto scampanellando, faccio alte acrobazie per evitare i solchi profondi della carreggiata. La gente mi guarda ammirata e sono fiera di me come se fossi io il geniale inventore di questo mezzo di locomozione. Esistono tre sole biciclette a Khiva e, fortuna insperata, alla posta un russo ha accondisceso a prestarmi tale preziosa rarità. Tutti gli impiegati, schierati sotto le teste di Lenin e di Stalin, hanno assistito alla mia partenza, curiosi di vedere se la straniera era veramente in grado di servirsene. Supero una fila di scolari guidati da due indigene, attraverso una porta delle mura per dirigermi a sud, verso Ak-Mecet, la seconda oasi, dove vive la colonia tedesca. Mi raccontano alla posta: «Forse voi non lo sapete, ma essi hanno le loro feste, e in quelle occasioni inaspettatamente li vediamo comparire vestiti con i loro abiti più belli. Ogni tre giorni vengono al mercato a vendere il burro e la frutta che essi stessi producono. Quando si sono insediati nel paese hanno però dovuto promettere al khan di non allevare maiali per cinquantanni!». «Sono fortunati: ricevono pacchi di riso e di medicinali dalla Germania». Campi inariditi, fattorie come fortini, piste ingombre di detriti di aryk. Pedalo da un bel po': per due volte mi sono illusa di essere già arrivata, ma soltanto ora intravedo in lontananza, dall'altro lato del deserto, un verdeggiare di alberi. Le ruote affondano nello spesso strato di sabbia, slitto e mi affanno inutilmente. Il metodo migliore è quello di mantenere la massima velocità fino al momento dell'inevitabile caduta. Intorno a me scorgo grandi distese coperte di sale, candido come neve fresca. Arrivo in un bagno di sudore, ma mi rallegra l'idea di poter parlare fra
breve con degli europei. Mi dirigo verso una fattoria, una bella costruzione circondata da pioppi ormai ingialliti, ingentilita da bianche tendine alle finestre. Sento qualcuno dire: «Maria, wer kommt dort?». («Maria, chi c'è?».) Domando in tedesco a un giovane dove abita Otto Theuss, aspettandomi un moto di stupore dal mio interlocutore. Invece nulla; discreto, grave, biondo sotto il berretto di pelliccia, mi indica un gruppo di abitazioni di cui scorgo soltanto le aie. Alcune mucche si dissetano a una fontana al coperto, custodite da un uzbeko. Due ragazze si occupano di me, trattandomi con timidezza. Nitore ovunque: il secchio colmo d'acqua, il catino bianco con accanto sapone e asciugamano, il tavolo da cucina, il forno di mattoni, tutto è pulito, anche ogni più remoto angolo della casa. «Eh sì», mi dicono, «qui occorrono lavori continui! Il pisé è da riparare ogni anno: si spacca, si sbriciola e lascia passare l'acqua». Entro nella stanza in compagnia delle ragazze che hanno lasciato i loro zoccoli sulla soglia. Un grande tavolo, delle panche, una credenza di campagna, due zie con gli occhiali sul naso che lavorano a maglia sedute su rigide poltrone. Su un tavolinetto è posata la «Vossische Zeitung», che impiega diciotto giorni per arrivare fin qui. Le anziane signore non nascondono la loro sorpresa: «Siete venuta in bicicletta? Da sola? Ma non avete paura?» «Ah, prima eravate nel Kirghizistan! Anche noi proveniamo da quel paese. Abbiamo lasciato Aulje-Ata dove per noi la vita stava diventando troppo difficile. Dal Volga spesso ci raggiungono alcuni parenti, attualmente la nostra colonia si compone di ben trecentoquaranta persone. Dobbiamo stringerci per far loro posto». «Leggevo in effetti in un libro di Ali Suavi che in virtù del suo isolamento Khiva è sempre stata una terra di rifugio. La vostra colonia, così ben organizzata, sarà probabilmente di esempio ai vostri vicini uzbeki». «Nient'affatto, il nostro modo di vivere li lascia indifferenti. Essi non hanno bisogno di tutti quegli oggetti per noi indispensabili. Per esempio, con la nostra famiglia è vissuto due anni un turkmeno, un ragazzo intelligente che alla fine parlava il dialetto platt-deutsch proprio come uno di noi. Ebbene, prima di andarsene confessò di ritenerci persone assai buffe e di non capire per quale ragione
sprecassimo tempo e fatica per lavare tre volte al giorno stoviglie, coltelli e forchette quando un unico piatto era più che sufficiente!». La cena è pronta, ci sediamo. Otto Theuss recita ad alta voce una breve preghiera durante la quale ha la delicatezza di ricordare anche la straniera di passaggio. Tra loro conta soltanto l'età. Persino i figli sposati parlano con toni sommessi, sbirciando il padre. Ritorno all'infanzia e conto fino a sette prima di porre domande, masticando lentamente per non finire prima degli altri. Mangiamo uova alla coque, fette imburrate di pane nero, accompagnate da un caffellatte. Il miele è riservato ai più anziani. Tutti hanno visi onesti, puliti, cosparsi di efelidi; le fronti ampie e squadrate mostrano quell'ostinazione che ha salvato il loro gruppo cinquant'anni fa. Le donne portano i capelli acconciati in due trecce raccolte in chignon, con la riga in mezzo. «Sì, sono soddisfatta del mio viaggio. A Karakul e a Turtkul, le città più lontane dalla ferrovia fra quelle che ho visitato, ho riscontrato le migliori condizioni di vita». Il mio ospite si confessa preoccupato per il destino dell'Europa, di cui legge notizie poco rassicuranti sul suo giornale tedesco e non posso che essere d'accordo con lui. «Sembra che gli uomini si incitino vicendevolmente a commettere errori...». «Ogni giorno ringraziamo Dio di non aver permesso che dimenticassimo i nostri principi...». Otto Theuss è minuto, ha occhi azzurri e baffi rossicci, un cranio ossuto e calvo. Sembra una persona decisa, pratica. Mi decido infine a confessargli la mia ignoranza circa la loro dottrina. «I mennoniti sono membri di una setta anabattista fondata dal riformatore olandese Menno Simonsz all'inizio del XVI secolo. Essa si oppone alla violenza, alla guerra e alle autorità civili. A Zurigo e a Basilea raccolse subito molti adepti. Nel mondo ora siamo circa mezzo milione. Abbiamo tre principi basilari: non toccare nessun tipo di arma; non giurare mai perché il nostro sì è sì; ricevere il battesimo solo dopo esser stati istruiti e aver creduto. «In tempi passati il re di Polonia ci fece venire dalla Frisia per bonificare le paludi di Danzica; in seguito, dopo la rivoluzione del
1848, poiché il servizio militare era diventato obbligatorio per gli abitanti della Prussia, un centinaio delle nostre famiglie chiese asilo allo zar. I nuovi arrivati poterono appoggiarsi alle colonie prussiane già insediate in Russia e inoltre, grazie all'esistenza della ferrovia, portare con sé i propri attrezzi e le proprie masserizie. «Ma la nostra migrazione verso est non era ancora conclusa. Venimmo infatti informati che nel 1881 anche la Russia avrebbe imposto il servizio militare. Incoraggiati dal generale Kaufmann, governatore del Turkestan, che ci prometteva terre garantendoci al contempo la libertà, lasciammo la Repubblica del Volga il 3 luglio 1880, diretti a Taškent. Altri diecimila mennoniti partirono per l'America. «In quel periodo a Uralsk si poteva comprare una pecora per un rublo e mezzo. Durante il viaggio patimmo disagi e fatiche innumerevoli. Coprivamo soltanto quattro verste all'ora... E ad Aktjubinsk finì l'avena per i nostri cavalli. Per attraversare il deserto fummo costretti a smontare i carri e a caricarli su quattrocento cammelli. Guardate i montanti di quella porta, in realtà sono delle stanghe. «Trascorremmo l'inverno nei pressi di Taškent e alcuni di noi si stabilirono a Aulje-Ata. Nel 1881 Alessandro II venne assassinato e Kaufmann fu colpito da un infarto senza che nulla a nostro riguardo fosse stato fissato per scritto. «Decisi a chiedere asilo all'emiro di Bukhara, ripartimmo passando per Samarcanda. Durante il percorso abbiamo avuto modo di conoscere gli strani usi di coloro che vivono nelle jurte, meravigliati nel vederli nutrirsi di carne di cammello o servirsi tutti di un'unica scodella. Abbiamo visto scuoiare le pecore soffiando sotto la pelle di una zampa, metodo che certo favorisce la diffusione dei microbi. «I bek locali non erano d'accordo con l'emiro, e alla fine fu Asfendjar, khan di Khiva, a concederci le terre. «Il khan aveva bisogno dei nostri carpentieri, abili nel levigare legni e palchetti. Informato da questi ultimi che i turkmeni ci avevano rubato cavalli e mucche, egli inviò un gruppo di gighit perché ci proteggessero. Fu proprio in quel periodo che ci venne assegnata
Ak-Mecet, una zona ricca di albicocchi: ve ne erano ben centotrentanove. «Il khan e i dignitari erano uzbeki; abusando del proprio potere essi tagliavano talora, a monte dell'Amu Darja, l'acqua di irrigazione destinata ai turkmeni che rispondevano a quel sopruso con razzie è incursioni». Incontro con il maestro Quando mi alzo non vedo più nessuno: sono tutti al lavoro. Dopo avermi offerto la colazione, che consumo da sola, una ragazza mi accompagna dal vecchio Riesen. Case basse si affacciano sui quattro lati della piazza che me ne ricorda altre, viste in Prussia. I piccoli giardini, cinti da muri, hanno ognuno due pioppi a guardia della porta d'ingresso; i montanti bianchi delle finestre danno una nota di gaiezza. «Che nomi sono di moda adesso in Germania? Sapeste come tutte noi vorremmo avere nomi diversi dai soliti Gretchen, Luisa, Eva Rosa, Dorotea...». Le suggerisco Brigitte o Marlene. Emil Riesen, l'anziano maestro di scuola, ha occhi azzurri assai belli, una lunga barba, ma neanche più un dente. È il depositario di un intero mondo di ricordi: tutti gli avvenimenti di un periodo molto particolare della loro storia. «Gli inizi sono stati difficili, siamo arrivati qui senza un soldo. Al mercato vendevamo per ottanta copechi piccole lanterne fatte da noi e poi calze, maglioni... Uno dei nostri riparò il fonografo del khan, il quale ci commissionò anche quei mobili decorati con piccole immagini che tanto gli piacevano. Conoscendo l'uzbeko toccava sempre a me occuparmi delle questioni ufficiali. Per l'incoronazione di Nicola II, il khan Seid Muhamed Rahim mi volle con lui come interprete a Mosca, dove affittò un palazzo da trecento rubli al mese. Ricordo che quando la zarina gli domandò che cosa pensasse di Mosca, egli rispose di sentirsi più a proprio agio in quel “buco” di Khiva. Era, a dire il vero, poco più di un contadino intelligente,
contrariamente a Ispendal, che aveva costumi simili ai nostri e poteva stare alla pari con gli zar». Riesen mi mostra una serie di fotografie dei dignitari di corte, splendidi nei loro khalat di broccato. «Il khan preferiva noi ai suoi sudditi e quando dovevamo comparire a corte ci offriva abiti adatti. Era pronto a pagarmi assai bene se avessi acconsentito a diventare musulmano». In una delle foto appare una fattoria americana: incuriosita, chiedo spiegazioni. «È la casa di mia sorella nel Kansas; anch'io ho abitato là per sei mesi dopo esser stato deportato ad Angora: mi avevano accusato di spionaggio per conto della Germania e fui liberato alla caduta di Kerenskij». Mentre chiacchieriamo la moglie, una dolce vecchietta, riempie il mio tasčapane di biscotti all'anice, invitandomi a servirmi senza complimenti anche di quelli nel vassoio posato sul tavolo. Nella casa vicina le donne filano con un grande arcolaio. Il centro della piazza è occupato da due semplici edifici squadrati in pisé, con le finestre bianche: sono la scuola e la casa di preghiera. La chiesa, come sperduta in questa repubblica sovietica, è commovente nella sua luminosa solitudine. File di sedie, separate da un corridoio che porta a tre gradini: là, sullo sfondo del muro imbiancato a calce, si innalza un pulpito nero. Sul leggio intravedo una scritta: «Herr! Hilf mir!». («Signore! Aiutami!».) Un armonium, un bel candelabro, null'altro. «Non abbiamo un pastore, sicché a turno uno dei nostri fratelli legge e commenta la Bibbia». Nella scuola mi accoglie un piacevole calore. Le ragazze occupano una metà della classe, i maschi l'altra. Alle pareti sono appese carte geografiche e la stampa di un piroscafo della Hamburg Amerika Linie. Scorgo anche un mappamondo e una lavagna tra le due finestre. Gli allievi si alzano quando entriamo e intonano un cantico per poi riprendere la lettura di un racconto biblico. I libri sono sempre gli stessi da vent'anni; le piccole dita scorrono sul testo seguendo riga per riga, ma Elisa è colta in flagrante delitto di disattenzione.
Al pari di tutti i mennoniti di Ak-Mecet, la fisionomia del maestro è un misto di gravità e di onestà. Quale sarà il futuro di questa comunità, in cui ognuno è di aiuto all'altro? Ho dovuto arrivare fin nel cuore del Turkestan per capire la forza della probità e la disciplina di una fede...
Corsa contro il gelo Da Khiva telefono a Kopalik dove si trova Danieletz: il Lastočka non è ancora arrivato. Malgrado inciti senza sosta l'arbakeš alla guida della mia carretta, raggiungo Novo-Urghenč soltanto a notte inoltrata e devo così dormire a casa dell'impiegato postale. All'indomani mattina, quando sto per partire, mi accorgo che il mio ospite è scomparso e con lui il mio coltello! Avevo rifiutato di venderglielo spiegandogli che ne avevo bisogno; temevo inoltre che, se glielo avessi ceduto, l'avrebbe mostrato vantandosi di averlo ottenuto in ricordo dei favori della straniera: era furioso e non mi rivolgeva più la parola dopo che, essendo io più forte di lui, ero riuscita a sfuggirgli. Malgrado abbia una gran premura di andarmene per non perdere il battello, mi affanno invano a cercarlo in tutte le čajkana della città. Come ultima risorsa vado alla polizia a dichiarare il furto lasciando il mio recapito di Mosca. Proprio nel momento in cui mi accingo ad arrampicarmi sulle ruote dell'arba, l'uomo compare all'improvviso. Lo investo con mille rimproveri. «Ma credevo che me lo aveste regalato! Eccolo qui, il vostro coltello, non era il caso di fare tanto chiasso!». L'arbakeš procede a piedi davanti al cavallo tendendogli piccoli ciuffi di erba medica. Quando sono finiti la commedia continua, ma questa volta con steli secchi di sorgo. L'uomo mi domanda se ho ancora del pane nella sacca e mangia con lentezza il pezzo che gli offro. Al porto, mi preparo all'attesa. Mi sistemo in prima fila contro un argano, sulla gabarra degli uffici. In una baracca vicina è posato su un banco un enorme piatto di pirožki. Un ragazzo entra, si serve e se ne va, e così un uomo e poi due ragazzine bionde... Non resisto alla tentazione e faccio come loro.
Una donna dagli occhi azzurri e con uno scialle nero in testa ritorna camminando lentamente: è a lei che ho rubato quelle squisite frittelle di patate. Chiacchieriamo mentre faccio il bucato. «Mio marito è medico a Kopalik; io ho la malaria, sono sempre stanca». Porgendomi il vassoio mi invita a servirmi se ho fame, e io non oso confessarle il mio furtarello di poco prima. «Questa notte potete dormire da noi, sulla panca; fuori è troppo freddo. Mio figlio si sistemerà sul tavolo dell'ufficio». Tutti mi sconsigliano di scendere il fiume verso settentrione, il gelo è prossimo. Non ho che quattro o cinque giorni per raggiungere Kantucjak, devo perciò rinunciare al mio progetto di visitare Kunja Urghenč, l'insabbiata. Mi imbarcherò dunque al più presto per la traversata del lago d'Aral. Se decidessi altrimenti dovrei invertire il mio cammino e non so risolvermi a ritornare sui miei passi. A ovest la strada per Astrahan attraverso il deserto in questo momento non è sicura, hanno appena assalito e disperso una carovana di cinquecento cammelli che trasportava zolfo. Occupiamo questa minuscola baracca in cinque, senza contare due cagnetti e un gatto. Le due panche, una di fronte all'altra, servono da giaciglio ai genitori e ai due figli. È indiscutibile, soltanto i poveri sanno essere tanto generosi con gli estranei. Finalmente appare il Lastočka, con tre giorni di ritardo; quattro dei suoi passeggéri vogliono, come me, andare ad Aralskoie More. Il dado è tratto. Mi imbarco. Il ritorno sarà impossibile: presto il gelo impedirà alle imbarcazioni di risalire il fiume. Prendo posto sulla plancia di prua di un battello in avaria, rimorchiato dal Lastočka che è al completo. Siamo in una decina, tutti coricati sui due piani delle panche. Intorno a noi è buio, i finestrini sono chiusi da assi, una tavola di compensato ci separa dalla sala macchine fuori uso. Regna il silenzio in questa sorta di zattera della rassegnazione. E presto capirò il perché. Gravato di tale peso morto, il Lastočka perde velocità e governa male; attraversando le rapide in prossimità del promontorio procede di traverso, finché con un brusco urto ci incagliamo; l'ormeggio posteriore salta e il nostro rimorchiatore non ha la potenza
sufficiente a tirarci fuori di là. Nella notte glaciale ognuno sparisce sotto le proprie coperte. Al mattino, grazie ai movimenti dell'acqua che ha liberato lo scafo dalla sabbia, riusciamo a salpare. Che sollievo vedere scomparire i pali di segnalazione dietro di noi! Ma la tregua è di breve durata. La nostra “zattera” è a rimorchio con la barra attaccata ma la corrente ci fa sbandare e “tocchiamo” violentemente per due volte; il cavo salta e siamo di nuovo fermi. Il Lastočka inverte la rotta per venire a prenderci ma a sua volta si blocca. Nervosismo a bordo; i marinai si inarcano sulle pertiche, sembra che finalmente il battello si muova e invece gira solo su se stesso. Scoraggiamento generale. Il freddo della notte è terribile. Per fortuna siamo riusciti ad aprire il serbatoio del motore per prelevare del petrolio con cui alimentiamo due grandi fornelli che ci permettono di scaldarci un po' e di preparare il tè. Ci assopiamo, ma presto il gelo intorpidisce naso, mani e piedi che dobbiamo frizionare vigorosamente. Due uomini sollevano alcune assi dal pavimento, posano una lastra di ferro sul fondo umido e scivoloso della stiva, divelgono i mancorrenti del ponte e accendono un fuoco che ci rianima. Gli sciacalli ululano fra i canneti lungo l'argine, popolato forse anche da tigri. Uniche attività possibili: sputare e arrotolare sigarette con un pezzo di giornale. Iniziamo a mercanteggiare pagnotte di pane. Offro a un'anziana coppia che non ha nulla da inzuppare nel tè qualche galletta di Turtkul. Si affiancano tre pescatori su una bejdarka, un canotto piatto, e ci portano in salvo. Ripartiamo pieni di speranza. Coprendomi con tutto quanto possiedo mi metto alla barra — un pezzo di ferro spezzato — decisa a evitare con ogni mezzo una seconda e fatale guizzata. Poco dopo Tagi Murad, un marinaio del Lastočka, viene a darmi il cambio. Durante il viaggio vendo un chilo di riso a due giovani dall'aria sveglia incaricati di fare il censimento della popolazione di Čimbaj. Non sarà facile il loro lavoro con gli indigeni, che, per il timore di dover pagare più tasse, omettono spesso di denunciare tutti i membri della famiglia; o al contrario dichiarano anche quelli già morti
quando ritengono che si voglia conoscere il loro numero per le assegnazioni della cooperativa. Un vecchio soldato, un veterano dai grandi baffi, che aveva comandato uno squadrone contro i basmaci di Kunja Urghenč, racconta come i suoi uomini siano morti nel deserto per mancanza d'acqua nel vano tentativo d'inseguire i ribelli. I basmaci sono imprendibili grazie ai loro cavalli, i cui zoccoli larghi, mai ferrati, non sprofondano nella sabbia. Egli mi spiega che “kirghizo” in lingua tagika significa “nomade delle steppe”, escludendo l'etimologia fantastica che fa risalire il nome a kirk, quaranta, e kiz, vergini. La leggenda narra, infatti, che un ricco signore aveva quaranta figlie, ma, dato che il kalim per comprarle doveva essere proporzionale alla sua ricchezza, nessuno si presentava per sposarle. L'uomo allora le abbandonò in un bosco dove incontrarono una banda di briganti che domandarono loro chi fossero. «Le quaranta vergini», esse risposero. Alla mattina, mentre ancora mi impigrisco dentro il sacco a pelo, Tagi ci manda a sbattere in piena velocità contro la sponda. Lo schianto dello scafo è tanto forte da dare l'impressione che ci stiamo aprendo come una noce. Vinta dalla corrente violenta, la barra non ha più tenuto la rotta. Sfido il freddo e battendo i denti rimango accanto a lui, determinata a non fare la fine del topo, intrappolata nei miei pesanti vestiti, in questo fiume ghiacciato. Siamo in prossimità di un monte, il Sultan-Baua, meta famosa di pellegrinaggi. Kipšak, a lungo sospirata, si annuncia con l'apparire di un vulcano merlato, immenso kurgan. Breve scalo, giusto il tempo di correre alla stazione radio al fondo di un polveroso cimitero e di sapere che Kantucjak non ha ancora dato notizia della chiusura della navigazione. Lungo le rive del fiume si distende un melanconico paesaggio di case abbandonate prossime a crollare insieme con le loro falesie erose dall'acqua. Sul greto, cammelli e barili d'olio. In mezzo alle catapecchie d'argilla e paglia risalta la prigione imbiancata a calce. Scivoliamo davanti a lagune già coperte di un sottile strato di ghiaccio.
I due scafi si incagliano simultaneamente. È una fatalità. Nessuno reagisce. Con i pantaloni rimboccati che scoprono magre ginocchia dell'indefinibile colore del fiume, il komandir ci raggiunge a piedi portando un cavo irrigidito dal ghiaccio. Il capitano è del paese e sa come tenere a bada l'acqua capricciosa, sempre sfuggente, sempre presente. Ordina una rotazione, la corrente colpisce la prua; sul ponte noi corriamo da un lato all'altro perché il fondo si distacchi dal letto; nell'acqua, il komandir fa leva per correggere lo sbandamento... Ci disincagliamo di botto e la scossa impressa dal nostro movimento libera il Lastočka. Per via di terra Nel grande porto di Kodjeili, distante duecento chilometri da Kantucjak, iniziano le ramificazioni del delta. Siamo accolti dal giovane komsomol kazako che, non per sua volontà, era rimasto a terra a Kipšak. Per raggiungerci ha dovuto comprare un cavallo che ancora trema, madido di sudore. Quando era ancora con noi molti si divertivano a sue spese ponendogli domande trabocchetto sul comunismo, a cui egli non poteva rispondere conoscendo male il russo. I passeggeri vanno al mercato della città, a quattro chilometri dal porto. Io mi dirigo verso il gabbiotto della radio, sotto i grandi piloni. «Kantucjak è chiusa. Il Komunar, ultima possibilità rimasta, è partito ieri». Già sognavo le comodità che mi avrebbe offerto quel cargo misto: un buon sonno al caldo di una cuccetta, un bagno ristoratore! Che fare? Scettici, i miei compagni di viaggio decidono di continuare la discesa del fiume. Se la notizia corrisponde a verità sverneranno laggiù aspettando il disgelo. Ripeto loro gli argomenti del telegrafista che mi hanno convinto: «Dovete tener conto che Aralskoie-More è seicento chilometri più a nord e che nevica già!». Nella cabina riscaldata dell'equipaggio del Lastočka pago il tratto da Kopalik, ventun rubli per centoquarantacinque chilometri a
bordo di quella cella frigorifera. Il secondo tiene i conti aggiornati su un quadernetto di scuola e li fa firmare all'impassibile komandir. Vedendo che il padrone di un grosso cargo lì accanto offre una carpa al veterano, chiedo di poterne acquistare una anch'io. L'uomo mi invita a seguirlo. È simpatico, così minuto nei suoi alti stivali, con quegli occhi scintillanti di vivido blu. Sulla riva è accatastata una montagna di balle di cotone. Indicandomele, egli mi dice: «Che peccato, ai primi giorni di nebbia si ammuffirà tutto e andrà perduto!». Il casseretto del cargo è nascosto da filze di pesci salati, messi a seccare. Nell'Amu vive un pesce straordinario, lo skaferingus , che ha un suo uguale soltanto nel Mississippi. Mi informo su quale direzione devo prendere per raggiungere una linea ferroviaria. «Ma perché non andate a Čimbaj, sul grande canale, dove troverete delle carovane per Kazalinsk? Passando per il deserto occorrono circa quindici giorni». «Sarebbe l'ideale per me. E molto caro?». «In estate costa di norma ottanta rubli, ma in questa stagione occorre procurarsi una šuba e un paio di valenki, perché senza pelliccia e stivali di feltro potreste anche morire di freddo se il buran si mette a soffiare. Inoltre dovete comprare almeno cinque chili di pane nello spaccio qui vicino. Ecco il padrone che ne esce proprio ora». Nukus Čimbaj è sull'altra sponda del fiume. Mi dicono che all'estremità del porto potrò trovare un traghettatore. Cammino lungo piramidi di sacchi di grano; sull'argine sono incagliate alcune imbarcazioni, delle bejdarka. Domando ai marinai lì accampati se vanno a Čimbaj, ma mi rispondono di essere diretti dalla parte opposta, verso Tasau.
Sulla sporgenza di una spiaggia alcune carriole staccate dal tiro sono in attesa di non so che; le bejdarka approdano qui dopo la loro traversata, il cui percorso disegna un accento circonflesso. Esse navigano aiutandosi con una vela a punta, inserita su una sottile antenna. Quando si sale a bordo bisogna rompere il ghiaccio del pavimento. Sull'altra sponda, il nulla... Ah, sì, un uomo imbacuccato in una pelle di montone che prega piegando la testa fino a sfiorare la sabbia. Lo supero senza che si accorga di me; ora la sua sagoma si delinea sullo sfondo incandescente del tramonto. A ogni passo affondo nel terreno molle, così, quando dietro una duna mi appare un'arba, non me la lascio sfuggire. Dopo tre chilometri siamo al villaggio di Nukus. Chiedo all'arbakeš di lasciarmi alla čajkana e di venirmi a riprendere all'indomani mattina per condurmi a Čimbaj. Nella stanza scura e fredda tre o quattro persone sono sedute in silenzio. Mi reco dall'impiegata della posta, nella speranza di poter finalmente passare a casa sua una notte confortevole. «Non posso ospitarvi», mi dice, «dormiamo già in quattro in una camera minuscola. A Nukus non ci sono più alloggi per la grande affluenza di operai che arrivano da ogni parte: sembra che qui sia in progetto la costruzione di una città». Aggirandomi nella čajkana vedo una porta, la apro e un'ondata di calore mi investe. All'interno della stanza: una lampada a petrolio, un tavolo, libri, giornali, e un profumo di carne che cuoce a fuoco lento su una stufa. Chiedo ai due giovani che si trovano là se posso riscaldarmi un momento. Mi invitano gentilmente ad accomodarmi ponendomi mille domande: da dove vengo, dove sono diretta, come mi procuro il cibo... Sono due geometri incaricati di fare il catasto della regione dei Karakalpachi. «Forse già sapete che Turtkul è destinata a scomparire nel giro di due o tre anni, per via dell'erosione del fiume». «Ma perché l'acqua scava soprattutto a est?». «Le ragioni non sono chiare. Saranno i venti dominanti o la rotazione della terra. Si è reso comunque necessario correre ai
ripari: con un concorso, è stato scelto un progetto per una città di 200 000 abitanti che verrà costruita in questa zona, a duecento chilometri a nord di Turtkul. Il costo previsto è tra gli 80 e i 180 milioni. Sarà un'opera grandiosa. Per il momento è in cantiere soltanto l'ospedale». «Da dove prenderete il materiale necessario?». «Il legname per le impalcature proviene tutto dall'Ural; occorre dunque trasportarlo per via d'acqua, attraverso il lago d'Aral». Invitata a cenare con loro, mangio senza ritegno avvalendomi del pretesto che presto dovrò affrontare il Kyzyl-Kum; la vodka svolge poi il suo effetto salutare. Si accorgono che non possiedo un cappotto. «In effetti, durante i miei spostamenti finora mi sono protetta infilandomi dentro il sacco a pelo e spero di trovare una šuba al bazar di Čimbaj». Uno dei due, un giovane barbuto e con occhi innocenti, mi offre la sua: «È troppo lunga e pesante, non la metto mai; ne ho un altra più piccola che preferisco. Il freddo qui non è così pungente come nei luoghi che avete intenzione di visitare». «Ma non potrò pagarvela; non so ancora quanto mi costerà il viaggio in carovana». «Non importa, mi invierete il denaro quando l'avrete rivenduta, non vale più di una sessantina di rubli».
Verso il nord sconosciuto Salgo sull'arba arrampicandomi con qualche difficoltà sulla ruota, intralciata dal mio nuovo cappotto di pelle di montone, ma poi, avvolta dal suo calore, ripenso con gratitudine alla bontà di quel giovane. Mai mattino della mia vita mi è apparso più bello. Vorrei inventare un grido che sappia esprimere un sentimento tanto intenso. Partire è per me come rivivere. Tutto ricomincia, vado incontro al nuovo, all'ignoto. Il sole si alza ed è la medesima sfera rossa che ieri tramontava. L'aria scintilla di mille goccioline di brina sospese e io procedo attraverso una realtà più bella di qualsiasi straordinaria magia. E tuttavia, quanto mi è costato oltrepassare la porta del Lastočka e girare la schiena a quella calda cabina! Il mio arbakeš è simpatico e non risparmia l'animale. Dietro ai mobili riccetti neri del suo čugurma ne intravedo lo sguardo franco, rassicurante. Un tratto di deserto lungo quarantacinque chilometri ci separa da Čimbaj. La grande ruota di destra lascia cadere su di me la sabbia sollevata nella corsa. Quando il terreno della pista diventa troppo molle, il vetturino, un karakalpaco, mi fa segno di scendere e di proseguire a piedi. A mezzogiorno, giunti nei pressi di un gruppo di casolari dove non riesco a vedere campi coltivati, mangiamo dei šašlik. Il rosticciere prende una lipioška con la quale agguanta quegli spiedini fumanti, e tirando libera le punte di ferro lucide di grasso. Riprendiamo il nostro monotono cammino. Per permettere di bere al suo cavallo bianco, l'uomo lo stacca quando siamo vicini a un canale: a colpi di tacco apre un buco nel ghiaccio che imprigiona l'acqua. Pare che gli indigeni si opponessero alla costruzione di
questo canale rettilineo, convinti che l'acqua, per scorrere bene, dovesse essere nascosta. Non vi è più una čajkana aperta. Al Sojustrans si rifiutano di darmi alloggio dato che l'ufficio è chiuso. Vedo di fronte il Sojusarbakeš, che comprende un cortile dove trovano riparo i tiri e una stanza adibita di giorno a ufficio e di notte a rifugio per gli indigeni. Dormono sulle panche mentre un fornello scalda brontolando l'acqua in una brocca di rame. Siamo accolti con assai scarso entusiasmo: il mio gentile carrettiere non è iscritto al sindacato, e il prezzo di trentacinque rubli che mi ha richiesto è inferiore alla tariffa corrente. Mi sistemo anch'io sul bancone aspettando il mattino. L'indomani mi reco al Raispolkom, dove un indigeno mi informa con grande cortesia che i cammelli partono da Tahtakupyr, quaranta chilometri più a est. Non ho dunque un minuto da perdere se voglio arrivare in giornata. Il cavallo di cui ho bisogno tarda ad arrivare; inoltre non si trova il cassiere che deve firmare la ricevuta dell'avvenuto pagamento da parte mia dei quarantacinque rubli pattuiti per il tragitto. Di pessimo umore per tutti questi contrattempi, rifiuto di pagare in anticipo: non voglio ritrovarmi alla mercé di questi maledetti arbakeš, per conoscere i quali sono pagata. Non sentono ragioni e sono costretta a cedere. Protesto per il cavallo che mi sembra già sfiancato e ribadisco la mia assoluta necessità di raggiungere Tahtakupyr prima di sera, dato che altrimenti perderò la carovana in partenza domani. Il cassiere mi assicura che arriverò in tempo. La strada è buona, non si sprofonda e procediamo al trotto, ma ecco che, appena fuori città, il cavallo rallenta l'andatura. L'elegante arbakeš che mi è stato assegnato porta un incredibile berretto di pelliccia e velluto rosa. La sua insolente indolenza mi irrita oltre ogni dire, lo bersaglio continuamente di critiche sprezzanti. Se pensa che per mettere il suo ronzino al galoppo gli debba una ricompensa, fa male i suoi conti. Intorno a noi si distendono melanconici campi di cotone, dove la raccolta è quasi terminata.
A metà pomeriggio, passando in prossimità di un borgo, il mio vetturino accenna all'eventualità di prendere un tè. «D'accordo, ma in fretta. Tahtakupyr è ancora lontana». In un cortile, dove vi sono due jurte da cui esce del fumo, mi indirizzano verso una grande stanza di almeno otto metri per quattro. Alcune stuoie per terra, un piccolo forno di latta, ed è tutto. Nella lunga attesa del té vedo entrare l'arbakeš carico di tutti i miei bagagli! Protesto vivacemente ripetendogli più volte che non ho nessuna intenzione di fermarmi in quella sorta di dormitorio: «Voglio essere portata in serata a destinazione, ti ho già pagato per questo. Se sarà necessario affitterò un cavallo». Alla fine devo rassegnarmi: inutile perdere la propria dignità quando le possibilità di ottenere un qualsiasi risultato sono nulle. Un filetto di carpa frigge nella mia padella; bastano pochi legni secchi per far crepitare il piccolo forno che diventa subito incandescente. Giungono a cavallo due eleganti coppie di karakalpachi e sostano un momento per bere una tazza di tè; hanno ancora infilato al polso il loro kamča, il frustino dal manico cesellato. Calzati di stivali di feltro, gli uomini indossano un čapan di lana di cammello e i loro copricapi rassomigliano a fiori pelosi dagli enormi petali; le giovani mogli hanno mantelli di pelliccia e scialli di seta. Emigranti Al calar della sera arrivano piccoli gruppi di persone che percorrono a piedi la strada diretta a sud. Si siedono per terra, slegano le fasce che, sapientemente intrecciate, servono loro da calzature e si frizionano i piedi stanchi. Dalle bisacce estraggono ciotole di legno, subito riempite di piccoli, rotondi semi dorati. Me ne offrono da assaggiare: è miglio tostato che si mangia bagnato nel tè. Il mio vicino, che è un russo, mi dice di provenire da Kazalinsk. «Allora siete passato per il deserto!».
«Sì, sedici giorni di traversata con un asino, che ho pagato laggiù centoventi rubli e che ora non ne vale più di sessanta». Gli domando se la sua bestia non affondava nella sabbia. «La neve, ormai prossima anche qui, aveva indurito la pista». «In questa stagione perlomeno è» risolto il problema dell'acqua: non occorre più cercare i kuduk, i pozzi di acqua salmastra. E ora, dove siete diretto?». «Approfitto delle vacanze per comprare del grano che poi rivenderò nel nord a un prezzo due volte maggiore». Un'unica lampada fumosa rischiara a malapena la stanza che si sta riempiendo via via. I nuovi arrivati non sanno dove sistemarsi; tre bambini, in piedi, si nascondono tra le pieghe della gonna materna. Poi li conducono altrove. Stanca di ascoltare parole per me incomprensibili trovo un angolino e mi addormento. Mi risveglio un istante, il tempo di vedere la serva che distribuisce scodelle colme di plov fumante, di cui ciascuno si ciba immergendovi le dita. Sempre nel cuore della notte, mi sembra di udire un sordo tramestio: qualcuno si sta infilando di nuovo quella sorta di stivali e si prepara a riprendere il suo vagabondaggio. Quando mi alzo sono circa le otto ed è ancora buio; sono sola e l'arbakeš sta attaccando il cavallo. Come al solito sollevo il cuscino per prendere gli scarponi da montagna che utilizzo come capezzale. Sono spariti! Disperata, frugo inutilmente tra tutte le mie cose. Ispeziono poi la stanza, operazione assai facile dato che è vuota. Nella camera vicina alcuni gruppi di persone dormono ancora. Interrogo irritata la locandiera che diffonde la notizia: la scomparsa di un paio di stivali è un fatto notevole in un paese dove le vere calzature rappresentano un bene raro. Sarà stato il carrettiere? No, la sua sorpresa non è una commedia; nondimeno è su di lui che si abbatte il mio furore: «E tutta colpa tua! Avevi soltanto da far trottare il tuo cavallo! Io non volevo dormire qui». Più che l'irreparabile perdita, mi esaspera il dovermi piegare alla volontà di questo imbecille. In sé la situazione è piuttosto comica: in pieno inverno sono costretta a camminare nel Kyzyl-Kum in calzette!
No, questo non è ancora pieno inverno, lo sarà quando avrò raggiunto Kazalinsk, prima della fine di dicembre: allora la temperatura scenderà a 35 gradi sotto zero. Andiamo, bisogna partire e andare più svelti, molto più svelti. Mio caro arbakeš, non credere che abbia pagato il tuo plov di ieri alla mardjia della čajkana. Sabbia, cespugli, aryk a secco, cammelli carichi di rovi e di legna secca, un lungo cammino disseminato di basse catapecchie. E finalmente arriviamo. Tahtakupyr Al comitato esecutivo del settore, al Raispolkom, il segretario Bai Muhamedov mi ascolta con interesse. Un berretto rosso incornicia il suo bel volto da mongolo: «Fra tre giorni ci sarà il mercato e forse avrete qualche possibilità di trovare una carovana diretta verso nord, anche se in inverno le probabilità sono poche. Proprio questa mattina è partita una famiglia per raggiungere Kazalinsk, dove abita». Ah! Lo sentivo che dovevo arrivare ieri. Il segretario telefona alla cooperativa per informarsi se hanno valenki da vendermi, ma purtroppo non ce n'è più un paio. «Nuovi costano sessanta rubli, ma talvolta al mercato se ne trovano d'occasione». Entrano ed escono di continuo persone avvolte in pellicce altrettanto monumentali della mia, di pelle conciata color sabbia e con un triangolo di stoffa cucito all'altezza della nuca: è un amuleto. Un russo mi osserva, stretto in quell'immenso mantello di lana color kaki usato dai veri bolscevichi. «Se non sapete dove alloggiare», mi dice, «potete venire da me. Ho una piccola stanza che divido con il mio gighit, dove però ho appena fatto installare una piacevole stufetta di mattoni». Salvo che nella via principale, le case sorgono a caso, lontane le une dalle altre, sullo sfondo di un orizzonte sempre piatto e desolato. Ho l'impressione di trovarmi al centro di una terra alla fine del mondo e ne sono turbata.
Il russo che mi ospiterà ha occhi gialli, scintillanti, e un viso butterato dal vaiolo. È il responsabile dei trasporti, si trova qui da sei mesi con il compito di accelerare lo smaltimento del cotone secondo tempi e prezzi stabiliti al momento della produzione. Nel cortile della sua casa alleva due tacchini e li ingrassa per il 1° gennaio. Allora la vendita del cotone sarà terminata ed egli potrà tornare a Turtkul, dove vivono i figli e la moglie che, a suo dire, è bellissima e ha conseguito diplomi di ogni tipo. L'una di fronte all'altra vi sono due stanze: a sinistra vive la famiglia di Mustafà, giovane komsomol, a destra il russo. Muri spessi, una piccola finestra, un tavolo, due pagliericci poggiati su cavalletti e un buon fuoco che scoppietta. Il gight, l'interprete di Kiseljov, è un caucasico che conosce bene il paese. I muri di terra sono coperti di manifesti dai colori crudi: giallo, rosso, azzurro; uno raffigura un'indigena del Turkestan in una filanda; in un altro, alla guida di un trattore, una donna contribuisce alla realizzazione del “Piano quinquennale in quattro anni”. Fuori, accanto al riparo costruito per la mucca, vi è una sorta di bugigattolo dove vivono due donne; una ha la testa avvolta da un turbante e lunghi orecchini, la seconda è a letto malata: non la vedo, ma la sento tossire di continuo dietro il sacco vecchio che pende a guisa di porta. Pare che i kazaki siano soliti lavare con l'acqua gelata i neonati nei primi quaranta giorni di vita. Che questa usanza duri o meno tutta la vita, è chiaro che quella povera inferma non si è ancora abituata al freddo. La madre di Mustafà ha l'aria da gran signora con il suo turbante ornato di una gala che le inquadra il mento. E debole perché digiuna ormai da giorni: in questo mese cade il Ramadan. Nella casa vivono anche il fratello maggiore Safa, dai baffi spioventi, la moglie e, nella classica culla, un bimbo, coccolato da tutti. Per l'intera giornata girano a mano una piccola macina che frantuma i semi di giugara per ricavarne farina. Ho chiesto loro di cuocermi un po' di patate e la vecchia mi ha domandato che cosa fossero: non ne conosceva l'esistenza. Trascorro sei giorni a Tahtakupyr in preda a un'ansia terribile. I cammelli sono scomparsi dal villaggio. Ve ne sono cinquecento sparsi nella regione, tutti mobilitati per caricare cotone o legna di
saxaul. Da Kyzyl-Orda, la vecchia capitale del Kazakistan, sulla linea ferroviaria di Taškent, hanno mandato quaranta cammelli richiedendo del pane, ma il soviet di Tahtakupyr ha rifiutato di fornirlo. Finalmente ne vedo tre nel villaggio e mi precipito ad avvisare l'ufficio del Sojustrans che ha promesso di interessarsi al mio caso non appena ci fosse stata una partenza per il nord. Anche Mustafà s'informa da tutti. Prendo contatti con un intermediario che dice di sapere dove si potrebbero trovare due animali. Arriva l'uomo che dovrebbe procurarmeli, vuole venti rubli di caparra... Fissiamo un appuntamento a cui non verrà. Kiseljov costringe il mediatore a rimborsarmi. Alla sera vado spesso a trovare la dottoressa. «Sono arrivata nel 1929 con mio figlio», mi racconta, «ero allora la prima donna europea mai vista qui. In media visito una sessantina di persone al giorno. È facile curare i kazaki, anche se per l'80 o 90 per cento sono malati di sifilide. La vita sotto la jurta comporta purtroppo la diffusione di questa infezione». Le dico di avere una siringa Record e alcune fiale di Neosalvarsan che vorrei vendere, dato che temo di non avere sufficiente denaro per acquistare il mio biglietto quando sarò a Kazalinsk. «Se sono in buono stato ve le comprerò, benché, in realtà, ne sia già provvista». «Ricordo che due anni fa vi era un'assoluta mancanza di tali medicinali. Questi sono intatti, li ho portati con me in previsione del duro viaggio attraverso la Mongolia». Mustafà ha trovato per quaranta rubli un paio di stivali scompagnati. Ora nulla più mi differenzia da un vero kazako: come loro sono più larga che lunga e quando mi aggiro fra la folla polverosa dell'assordante bazar mi sembra di essere anch'io uno di quegli strani materassi che si spingono l'un l'altro. Dal macellaio, ben ritto dinanzi alle sue grandi carcasse impalate, compro per quattro rubli un chilo di carne di cammello, che taglio a pezzi e cuocio prima che geli e diventi duro come la pietra. Con sette rubli mi procuro un chilo di grasso di montone, in sostituzione del lardo che da queste parti non esiste. E poi pane,
biscotti, tè, urjuk secchi. Finalmente ho tutto quanto mi serve. Là, in un chiosco della cooperativa, ho visto venti casse tutte identiche che contenevano un articolo introvabile a Mosca: calze di seta! Quale strana politica avrà fatto arrivare qui quelle casse, relitti arenati in una sorta di landa africana misteriosamente glaciale? Mi domando se di notte nel deserto, per sentire meno il freddo, gli uomini si corichino accanto ai cammelli, malgrado i parassiti che li invadono. Già mi immagino sballottata durante il viaggio in uno di quegli enormi nidi di feltro fissati al dorso dei cammelli, la cui insolita sagoma mi aveva colpito vedendo una carovana nei pressi di Turtkul...Ma devo stare soprattutto attenta a non lasciar trasparire la mia scarsa dimestichezza con le traversate invernali nel deserto, altrimenti rischierei di vedermi rifiutare il passaggio. Finalmente un kazako mi annuncia che suo fratello partirà alla fine del giorno di mercato, mi conviene dunque tenermi pronta. Questa volta Mustafà vuole che l'uomo gli lasci in pegno il proprio cappotto, ma il kazako si rifiuta assicurandoci di essere una persona onesta. Per un ultimo addio al brulicante mondo asiatico, che ora lascio definitivamente, ritorno nella confusione del bazar. Ogni personaggio che incrocio potrebbe essere Inkižinof, l'eroe mongolo di Tempeste sull'Asia; chi di loro porta nascosta nell'amuleto la prova della sua discendenza da Gengis Khan? Nella stradina che conduce al terreno incolto dove c'è il bazar donne accovacciate vendono yogurt, frittelle, peperoni; una di queste, con il suo mucchio di riso in mostra sul fazzoletto, porta l'anello d'argento di tutte le indigene. Glielo compro per quattro rubli, cioè a un prezzo pari alla spesa giornaliera per le lipioška. Per pagare apro la pesante pelliccia, sollevo giacca e maglione di lana e infine raggiungo la tasca. Rientrata a casa, distante appena cento metri, scopro di non aver più il portafoglio: l'avrò certo fatto cadere nella polvere credendo di rimetterlo al suo posto; non è possibile che qualcuno sia riuscito a rubarmelo sotto tanti indumenti! Per fortuna vi erano soltanto quindici rubli dato che avevo suddiviso il mio capitale riponendolo in più posti. Ma con orrore mi ricordo che l'ultimo scomparto conteneva trentacinque dollari, la mia riserva per Mosca e Berlino.
La donna che mi ha ceduto l'anello è sparita; del portafoglio nessuna traccia. Chi mai capirà che quei pezzi di carta verde sono soldi? Finiranno nel fuoco poiché in ogni caso nessuno qui potrebbe cambiarli. Avevo anche la serie completa dei francobolli per posta aerea, acquistati per mio fratello, e tre negativi dell'enorme pesce issato sul greto dell'Amu. Vado alla polizia e pago un banditore affinché annunci a colpi di tamburo che una ricompensa di quaranta rubli verrà data a chi riporterà la bustina di cuoio contenente carte straniere. Ma la sorte mi è avversa: un enorme cammello è già nel nostro cortile ad aspettarmi. Ho preteso con così tanta insistenza una partenza immediata e marce notturne, che ora non posso più tirarmi indietro. Il basto del cammello è una sorta di spessa trapunta ovale, fissata a due grossi bastoni posti lungo i due lati delle gobbe. Bisogna sedersi sui sacchi con i piedi sui due bastoni orientati in direzione del collo e tenersi ben saldi quando il grande animale si alza con un brusco movimento. È tempo di lasciare Tahtakupyr, le dico addio issata su quel cammello condotto da un kazako. Ogni nuova partenza è un bagno di gioia. Ma subito dopo quel piacere intenso si stempera in un senso di ansietà per le difficoltà che forse mi riserverà il futuro.
Cinquecento chilometri nelle Sabbie Rosse Puntiamo verso nord, presto raggiungeremo il resto della carovana. Piste ben battute solcano un paesaggio coperto di rovi. Alcune donne scendono lungo la diga del grande aryk gelato, reggendo sulle spalle la traversa di legno alle cui estremità dondolano due secchi. Le chiazze rotonde indicano i posti dove il ghiaccio è stato rotto. Tre jurte nere sono piantate in modo da formare un triangolo nel cui centro il mio grande cammello si accovaccia per essere liberato dal suo carico e io smonto. Ormai è notte. Asmetali mi ospiterà. La figlia Anna lavora una pasta spessa di farina di giugara sbriciolandola poi nell'acqua bollente di un paiolo; la sorellina Tojbacar è assai giovane ed elegante con la sua graziosa collana di dodici monetine e i suoi orecchini. Asmetali è un vecchio rinsecchito e rugoso come un saxaul, ha uno sguardo inquieto e tre fili di barba sul mento. Il figlio è silenzioso. Nurman, il genero, anch'egli minuto, ha un viso rotondo e gentile. Il vecchio e io abbiamo il privilegio di servirci da una ciotola in cui sono mescolate carne e pasta. A guisa di dessert mi offrono una porzione di un miscuglio di prossa, la farina di miglio, e farina di gida, una piccola bacca dalla buccia liscia bruno-dorata, dalla polpa bianca, dolciastra e inconsistente come quella dei funghi. Levatisi la šuba, gli uomini la distendono vicino al fuoco per inginocchiarsi e pregare. Infine ci corichiamo e dormiamo tre ore. Verso mezzanotte iniziamo i preparativi per il viaggio. Le tre bestie, montagne accovacciate tra le jurte, vengono caricate di sacchi in lana di cammello colmi di semi. I lunghi rami secchi posti sopra le jurte per proteggerle dalle raffiche di sabbia e dalla neve imminente le fanno apparire nella notte come giganteschi ricci. Appendono un secchio, alcune pale; non occorre sprecare parole: sono sempre i medesimi gesti che si ripetono prima di ogni
partenza. Qui, come sul mare, si consuma l'ultimo pasto, si dorme per l'ultima volta a casa propria prima di affrontare la traversata: chissà quali imprevisti ha in serbo per noi? Ci avviamo in silenzio nella brezza pungente: sopra di noi un cielo di stelle cadenti. I cammelli procedono lenti. A ogni loro passo il mio busto oscilla avanti e indietro: per frenare questo movimento incurvo la schiena cercando di rimanere più ferma possibile in modo da non disperdere quel bel tepore che ancora mi accompagna. Di tanto in tanto è necessario scendere per riscaldarsi camminando, duecento metri sono sufficienti. Essendomi fermata un momento dietro un cespuglio, affretto il passo per raggiungere i miei compagni: l'oscurità della notte ha però inghiottito non soltanto le loro sagome ma anche il suono della campana. Chiamo... Tutto tace. È come se la mia voce venisse subito inghiottita da quell'immensità. Secondo le stelle la direzione che prendo è giusta. Taglio le piste, dato che non ne seguivamo nessuna. Mi invade un brivido di terrore. Chiamo ancora. Mi pare di udire una flebile risposta di cui mi è impossibile individuare la provenienza. Accidenti! Prometto che mai più perderò di vista i cammelli! Eccoli, immobili, appena un po' più neri della notte. Asmetali dice che verrà a piantare la sua tenda qui, dove vi è abbondante sterpaglia per il fuoco. Il giorno si alza grigio per poi farsi rosso, oro e, infine, bianco. Latrati, fuochi di jurte lontane; sul terreno ancora qualche traccia di aryk. Lasciamo la boscaglia per raggiungere sulla sinistra una lunga collina di sabbia ai cui piedi vediamo alcune tombe sante. Un cavaliere ci supera, sta ispezionando le sue trappole per le lepri. Procediamo ora tra dune ondulate o marezzate come pelli di daino, finché ci fermiamo al riparo di un anfratto per consumare il nostro pasto. Il vecchio si siede liberandosi degli stivali; Abuish, il figlio minore, raccoglie fasci di sterpaglie, tanto secche da spezzarsi come vetro; sono intrise di sale e bruciando emanano un odore acre, amaro, come di farmacia. Con una mano Nurman munge la cammella reggendo con l'altra un recipiente di legno.
Riprendiamo il cammino attraverso laghi prosciugati, dalla superficie screpolata, screziata di verde. Uno stormo di cigni si alza in un immenso battito d'ali. Corazze di testuggini e miriadi di conchiglie rosa coprono il fondo chiazzato di rosso di uno di quei laghi. Sarà per questo che il Kyzyl-Kum è chiamato il deserto delle Sabbie Rosse? Ci teniamo lontani dalle grandi piste, quelle che si dice siano battute dai basmaci. La strada sarà più lunga ma in compenso troveremo legna per il fuoco. E così andiamo, giorno dopo giorno, incrociando talora orme di cammelli, losanghe gemelle. A notte fonda sostiamo. Abuish scompare per ritornare dopo un bel po' con la lunga corda e il suo secchio pieno di acqua salmastra, magnesiaca. Come è riuscito ad orizzontarsi e a trovare il kuduk, il buco d'acqua? Il tè che prepariamo risulta vomitevole. Una mattina, dopo estenuanti ricerche nella cavità di una duna, scopriamo finalmente un kuduk sui cui bordi ghiacciati convergono numerose tracce di kazaki, i quali pazientemente immergono in quelle fosse un secchio dopo l'altro, subito svuotati, o meglio aspirati, dai cammelli. Anche noi facciamo bere le bestie; ciascuna consuma un centinaio di litri d'acqua, l'equivalente di circa venti secchi. Riempiamo in seguito molte enormi borracce poiché domani potremo contare soltanto sulla neve. I tre cammelli In testa marcia il cammello più grande, barbuto, grave, crespo come un negro, le lunghe ciglia costellate di lacrime di ghiaccio. Sui due grandi sacchi di cui è carico stanno appollaiati il vecchio e Nurman; il passo della bestia è regolare, non è quasi mai necessario stimolarla con colpi di kamča. Questa mattina Nurman si è addormentato sul suo trespolo ed è rotolato a terra rimanendo stordito per qualche secondo. Via via che procediamo i peli del Grande crescono arricciandosi sulle cosce lunghe e legnose. Ogni giorno le tre linee orizzontali che
ne striano i garretti sono più segnate, ogni giorno vedo la sua ombra ondeggiante che si sposta da sinistra a destra passandogli sotto il naso. Una corda di crine fa due mezzi nodi a metà della coda triangolare e raggiunge poi il bastone affusolato che è infilato nel naso del mio cammello, il Bastardo. La gobba di quest'ultimo non è troppo sporgente, dato che è un incrocio tra un cammello e un dromedario, un ibrido fecondo, assai apprezzato dai kazaki. Segue la giovane cammella, aggraziata, elegante, sottile; ha un muso fiero, peli biondi, occhi neri segnati da ciglia orizzontali. Geme e digrigna i denti lanciando rauchi richiami al suo piccolo. A ogni passo sembra che lo invochi, che protesti per l'andatura troppo sostenuta, che si domandi se mai lo rivedrà. Vedo il sole passare sotto l'arco fine del suo naso, attraverso le narici tagliate a mandorla. Nel punto villoso dove queste quasi si congiungono si rizzano tre peli brinati, come frementi fili di lucido argento o zampilli d'acqua stilizzati. I giorni si succedono sonnolenti al movimento cadenzato e monotono dei cammelli che inebetiscono la mia mente svuotandola di ogni pensiero. Non faccio che mangiare, dormire e viaggiare con lo sguardo fisso sulle zampe del Grande, soffici sfere che a ogni passo si parano dinanzi a me. Imparo a salire sul mio Bastardo alla maniera dei kazaki, senza far accovacciare l'animale. Tirando sulla corda nasale lo si costringe ad abbassare il collo così da posare il piede sulla nuca tutta spelata per i continui sfregamenti e, aggrappandosi al basto, ci si issa mentre l'animale raddrizza testa e collo. Un ultimo movimento serve a recuperare l'equilibrio e a sistemarsi bene sul basto. Il mio primo tentativo è stato, a dire il vero, poco felice: le ginocchia mi si sono impigliate nella pelliccia e sono precipitata a capofitto battendo la testa. Per il futuro, se mi sfuggirà qualche sciocchezza, avrò una scusa più che plausibile. Questa sera il paesaggio lungo le rive del lago d'Aral è grandioso nella sua desolazione: cielo e ghiaccio si confondono in un'unica, grigia distesa. Mentre sgelo la carne nella mia padella, Nurman stacca un pezzo di ghiaccio per preparare un'immonda bevanda salata che dovrebbe essere il nostro tè.
A nord il cielo si tinge di lilla, e quel colore dolce e raro mi intenerisce fino allo scoramento, mi inebria di poesia: «Esistono ancora in qualche luogo della terra quelle piccole stelle, dolci come il miele, che hanno nome “lillà”? Avrò ancora la gioia di rivederle in fiore, ronzanti di avide api?». Durante la mattinata incontriamo un bambino in lacrime in groppa a un cammello, un asino che porta una donna tutta avviluppata in una coperta a quadri, con i piedi avvolti da stracci, e un uomo che chiude il piccolo corteo. Egli ci segue a lungo supplicando il vecchio di vendergli un po' di grano. Il nostro carico viene notato anche da altri tre uomini che si appendono al naso del Grande, determinati a farsi consegnare due sacchi di semi che in effetti ottengono, nonostante le vivaci rimostranze di Asmetali, al prezzo di ventidue rubli. Pare che sulla grande pista vi sia una continua processione di gente che viene a piedi dal nord. Attraversiamo un ramo di lago ghiacciato, sulla cui superficie i cammelli si muovono a disagio, scivolando spesso. Sul versante settentrionale, già disseminato di chiazze di neve, sporgono zolle di terra. La brina inanella di bianco gli orifizi delle tane dei conigli. Questa sera dovremo spalare il terreno per poterci accampare e far riposare i cammelli, che altrimenti vagherebbero fino all'alba, essendo restii a coricarsi sulla neve. Queste notti, che tanto mi preoccupavano, sono incantevoli. Ci corichiamo in tondo attorno al grande fuoco; il vecchio occupa sempre il posto migliore, quello al riparo dal fumo, e non si sognerebbe mai di cedermelo: per lui sono soltanto una donna, entità trascurabile. Il legno duro del saxaul brucia sprigionando enormi fiamme chiare e le sue braci durano a lungo. È una pianta del deserto, le cui radici affondano nel terreno a un metro e mezzo di profondità e il cui corto tronco raggiunge in cento anni la circonferenza della gamba di un uomo. Ci sediamo scalzi davanti al fuoco per scaldarci i piedi; gli uomini si sono tolti gli stivali e le strisce di stoffa che avvolgono le loro gambe sono tutte fumanti. Il vecchio ha calzature logore e dure come cartone, ma è abilissimo a staccare e a sostituire ogni volta
suole e contrafforti. Nondimeno, se si alzerà il buran i piedi gli geleranno di certo. Prima di mangiare, i miei compagni di viaggio si levano le pellicce e sfilano dai pantaloni arricciati le loro camicie per esaminarne con cura il rovescio: danno la caccia a pallide bestiole striscianti, destinate a fare una brutta fine. Al risveglio scrolliamo la neve fresca che si è depositata su di noi; dobbiamo aspettare l'alba per ripartire perché è scomparso un cammello, irrintracciabile al buio. Su una duna scorgo alcune fascine accatastate a forma di cubo: è una tomba sovrastata dal bunčuk. Nurman si inginocchia e prega in disparte. Abbiamo percorso soltanto metà del cammino, non riusciamo a fare più di cinquanta chilometri al giorno. Il freddo aumenta, la brina sui cespugli non si scioglie più e li fa apparire come enormi ciuffi di piume di struzzo, bianchi e grigi. È impossibile difendersi dal nevischio che trafigge il viso stringendolo in una morsa gelata e lacerandone la pelle. Uso la mia ampia cintura di flanella a mo' di turbante facendola salire fin sopra il naso, ma la striscia intorno al mento si ricopre di uno strato di ghiaccio. Capisco finalmente l'utilità dei t'mak, quei berretti con una balza di pelliccia che scende fino a metà schiena. Nella notte mi sembra di vedere ovunque luci di fari. Quando il luogo scelto per fermarci è sommerso di neve, vi scaviamo un buco e preleviamo della sabbia con cui ricoprire la superficie del nostro accampamento. Tagliamo poi alcuni ramoscelli che disponiamo sul terreno per farne una specie di pavimento. Abuish pianta i treppiedi di legno sopra il fuoco e vi appende un secchio pieno di neve. Sulle braci che mi arroventano il viso tosto meravigliose fette di pane spalmate di grasso di pecora. I grandi animali si inginocchiano vicino al fuoco e ci osservano ruminando. Nell'oscurità il loro collo da uccello predatore mi evoca la prua dei drakkar. Mi dicono che il Grande sputa e morde al tempo degli amori. Rinuncio a capire quale logica seguano le nostre soste. Dormiamo di giorno e marciamo quando cala l'oscurità per evitare eventuali aggressioni, per approfittare dell'ultima legna reperibile
lungo la via oppure perché la luce impedisce a chi percorre la grande pista di vedere il nostro fuoco? Ogni sera il mio cammello decide di scioperare e si ferma bruscamente, ma il Grande continua imperterrito strappandogli il chiodo di legno infilato nel naso. Quando glielo rimettono, il Bastardo si lamenta piano, mentre gocce di sangue arrossano la neve. La graziosa cammella per fortuna non ha le narici forate, porta una sorta di museruola. Le sottili gambe a X e l'andatura ancheggiante la fanno spesso scivolare sul fondo ghiacciato della pista. Cade sulle ginocchia per rialzarsi subito e guardandoci con la coda dell'occhio sembra dire preoccupata: «Vi sbagliate, non è successo nulla di grave». Solo lei sa procedere con passo regolare, raccogliendo al contempo la neve con il labbro inferiore. I fuggiaschi La pista si dipana infinita. Macchie scure in movimento ci vengono incontro. Sono famiglie intere: neonati che piangono nelle loro culle fissate alla groppa di un asino; allegri ragazzi carichi sino all'inverosimile; madri curve sotto il peso di innumerevoli coperte; bambini che strascicano a terra cappotti troppo grandi per loro; vecchie costrette a sedersi ogni tanto per riprendere fiato. Tutti avanzano, sorretti dalla speranza di raggiungere il sud, dove il pane è meno caro e il clima più clemente, dove costruiscono una città; sono indigeni sprovveduti, ignari di quanto sia ancora lunga la strada da percorrere, che già ora non hanno più grano. Una donna porta un pesante samovar, un'altra la corona di una jurta, una madre ride reggendo il suo piccolo sulla schiena. Procedono a brevi tappe; di notte si coricano sui bordi della strada raccogliendo i pochi legni rimasti per riscaldarsi e lasciano mucchietti di cenere semisommersi dalla neve, segni rivelatori del loro passaggio. Gli asini morti riversi sui campi lungo la pista mostrano le loro costole parallele e il mio Bastardo ha un sussulto di spavento a ogni carcassa che incontriamo. Ecco tre uomini intenti a squartare un cammello, ucciso perché s'è spezzato una zampa. I coltelli hanno
messo a nudo la spina dorsale e la radice delle due gobbe; al suolo giace floscia l'enorme tasca del peritoneo. Abbiamo portato con noi legna di saxaul, indispensabile ora che ci troviamo nella steppa dove ogni traccia di vegetazione è scomparsa. Al tempo in cui suo padre possedeva ottocento pecore, Nurman viveva qui. In inverno si accampava nel Kyzyl-Kum più a est dove abbonda il saxaul quando sopraggiungeva l'estate si spostava a occidente del lago d'Aral, nel Kara-Kum, terra di pascoli estivi in cui l'acqua è più vicina alla superficie. La luna scompare all'improvviso, sfera arancione inghiottita dalla terra. Attratto dal nostro fuoco un uomo si avvicina in compagnia del figlio: la sporcizia ha annerito la loro pelle. Il padre racconta la sua storia: «Ho lasciato il kolchoz 6 ad Aktjubinsk perché ho intenzione di andare a Čimbaj. Benché abbia cinque figli da nutrire, non mi sono stati pagati i settanta rubli del mio salario mensile. Mi è stato detto che mancavano soldi e viveri e che dunque potevo andare a cercare lavoro altrove». «In tal caso devi avere con te una carta che attesti la tua libertà di andartene». Sebbene affermi di possederla, non ha evidentemente nulla da mostrare. Al pari di tanti altri egli deve partire, è nomade nell'animo. Come Nurman, che ha rinunciato alla propria ricchezza, il nostro ospite occasionale preferisce nutrirsi di sorgo tutta la vita, non vedere più né zucchero né carne pur di non avere un padrone. Prima dell'alba terra e cielo sono di un identico, livido nero. Poi, scure tonalità vellutate ricoprono il suolo mentre l'aria sembra inchiostro diluito. All'orizzonte il grigio vira al mogano intenso per mutarsi ancora nel colore di una caramella di lampone. Infine tutto si accende di arancione: è giorno. Mi distendo sui sacchi del carico per riposare la schiena e proprio sopra di me una nuvola ripete quella medesima successione di tinte. Il freddo non è mai stato così impietoso, gli occhi mi lacrimano, le gocce al naso si gelano togliendomi il respiro. Siamo
probabilmente a 25 gradi sotto zero. La criniera del Bastardo è bianca come i filamenti dei vecchi abeti: le ciglia e i peli della fronte e del naso formano mazzetti di fiori di brina. Lo sterno sostiene il suo cuore di ghiaccio; il cammello inginocchiato riposa sulla sua cassa toracica che poggia su un enorme callo ovale. Nurman canticchia di continuo per non addormentarsi. Questa mattina, vedendomi mangiare del pane, mi ha domandato come si fa. Il corteo degli emigranti è ininterrotto. Non lontano da Kazalinsk raggiungiamo una fila di cammelli quasi sommersi dal loro carico di canne. Appare una casa isolata. Nurman lascia la grande strada per dirigere la nostra piccola carovana verso quella fattoria dove abita suo cugino con molta altra gente. I miei compagni kazaki vorrebbero fermarsi qui. Chiacchierano tutti insieme, instancabili, come se volessero rifarsi degli interminabili giorni di silenzio. Il paesaggio è splendido, ma ormai la mia ansia di bellezza è appagata: ora desidero buoni pasti consumati al caldo, lontano da qui. Vorrei tuttavia che mi fosse concesso di saltare a piè pari i giorni amari che hanno nome “ritorno”. Oggi uno dei nostri cammelli si è rotto una zampa attraversando il Syr Darja che ci separa da Kazalinsk. Pretendo di essere comunque condotta in città e, dato che il cugino di Nurman si rifiuta di prestarmi il suo asino, mi isso di nuovo sulla cammella. Invero, capisco bene il comportamento dei miei kazaki: essi preferiscono non farsi notare troppo in città, dove venderanno a sessanta rubli la libbra il grano acquistato a venti a Tahtakupyr. Non sono certa che essi abbiano regolare licenza per praticare questo commercio privato. Finalmente si parano dinanzi a me gli alti pioppi di Kazalinsk: ora non ci saranno più imprevisti, il vero viaggio si conclude qui. Salève, novembre 1933